Diversity
– La
dottrina della “diversità” farà quarant’anni l’anno che viene. Ma arriva alla
maturità come materia di discussione, senza più il sostegno unanimistico, più o
meno convinto, con cui ha prosperato. Tema di discussione della sinistra
americana, che lo ha promosso e difeso, attorno al partito Democratico e fuori:
se la “diversity” ha fatto il suo tempo e perché. È la domanda che si pone “The
New Yorker” a fine 2017, la “diversity fatigue”, stress da diversità, e insieme sovraesposizione.
La “dittatura delle minoranze” è tema antico della democrazia americana, già Tocqueville ne parlava. Ma la discussione in corso non è rituale, e non solo teorica: si innesta su fatti precisi, e va in crescendo. Neanche il rigurgito di sessismo emerso col caso Weinstein sembra ridare vena alla “diversità”. La regista Ava Du Vernay, la prima afroamericana che ha beneficiato di una nomination ai Globe, si è distinta, dopo la polemica seguita agli Oscar 2017, che premierebbero i bianchi, con un attacco alla “diversità”: “Odio tanto questa parola, proprio tanto”, ha dichiarato. Argomentando che ha un suo suono “medico” e freddo, mentre “appartenenza” e “inclusione” sarebbe quello che le gente da sempre marginalizzata vorrebbe sentirsi proporre.
La “dittatura delle minoranze” è tema antico della democrazia americana, già Tocqueville ne parlava. Ma la discussione in corso non è rituale, e non solo teorica: si innesta su fatti precisi, e va in crescendo. Neanche il rigurgito di sessismo emerso col caso Weinstein sembra ridare vena alla “diversità”. La regista Ava Du Vernay, la prima afroamericana che ha beneficiato di una nomination ai Globe, si è distinta, dopo la polemica seguita agli Oscar 2017, che premierebbero i bianchi, con un attacco alla “diversità”: “Odio tanto questa parola, proprio tanto”, ha dichiarato. Argomentando che ha un suo suono “medico” e freddo, mentre “appartenenza” e “inclusione” sarebbe quello che le gente da sempre marginalizzata vorrebbe sentirsi proporre.
La pietra d’inciampo è Trump, ma non solo Il
riconoscimento delle minoranze delle minoranze, e fino ai bisogni personali purché
collegabili a un elemento di etnia o di genere (la “diversità” è di fatto un
sistema di garanzie per il lavoro e la carriera delle donne e della gente di
colore) , ha generato il fenomeno Trump, o Trump ne sta generando la fine, comunque
l’indebolimento? “The New York Times” si è giustificato con irritata ironia, dopo
le tante proteste dei lettori, per avere ospitato nella pagina delle opinioni
un commentatore conservatore, protestando a sua volta il principio della “diversità
di vedute”. Mark Zuckerberg, costretto anch’esso
a scusarsi, qualche mese prima dl “New York Times”, per avere tra i suoi collaboratori
Peter Thiel, che è anche consulente di Trump, ha messo in campo il rispetto e
il bisogno di una “diversità ideologica”.
La diversità era già venuta sotto
accusa una ventina di anni fa, da parte di manager aziendali, direttori di
giornali, direttori di dipartimenti universitari e centri di ricerca. Per l’aggravio
di dover reclutare, formare, favorire comunque
quote di minoranza, a rescindere dalle qualità personali, e per l’insufficienza spesso degli esiti produttivi.
Nel 2006 fu la volta di alcuni scrittori, che lamentarono la difficoltà (“come
camminare sulle uova”) di tenere sempre in conto le diverse suscettibilità,
anche dei singoli, inibitorie fino al silenzio. Po Bronson e Ashley Merryman,
in particolare, due scrittori liberal, posero
il problema di un “eccesso di tolleranza”: “Le persone vogliono essere tolleranti, ma dopo un certo punto si sentono obbligati
a ingoiare la zuppa”.
Trump sarebbe il detonatore di un’insodisfazione
ampia. Si fa colpa alla “diversity”, scrive il
“New Yorker”, dell’atletismo in declino, compresa la mancata
qualificazione della nazionale di calcio ai mondiali di Russia (la prima volta
dopo molti anni: anche negli Usa è un piccolo dramma, come in Italia). Della
popolarità in declino delle nuova ”Star Wars”. E anche di quella dei Supereroi:
“Un’indagine MarketWatch sulla diffusione del catalogo Marvel si chiede se gli appassionati
«tradizionali»
non siano stati allontanati dai loro beniamini dalla crescente diversificazione dei Supereroi – che include
«uno Spider-Man afro-latino, una Ms.Marvel mussulmana, un Thor femmin a, un
Iceman gay, un Hulk coreano, un ruolo femminile afro-americano in Iron Man, e
una Chavez lesbica latino-americana»”. Gli ambulatori sanitari per il controllo e la
prevenzione (Centers for Disease Control and Prevention) includono “diversity”
in una lista di parole-concetto che scoraggiano di usare al loro personale.
La “diversità” è stata imposta per legge dalla
Corte Suprema federale negli Usa il 28 giugno 19798. Ma dopo un dibattito di nove
mesi. E con una decisione “divisa”, 4-4. Che prevalse solo per il parere volatile
del Lewis Powell, che una volta votava per un gruppo, e un’altra per l’altro
gruppo. . Il suo parere comunque non fu condiviso da altri cinque giudici, che
diedero una lettura diversa della sentenza. Le sei opinioni si dividono grosso
modo 5-1: le cinque arguiscono il bisogno di un “azione affermativa” per riparare
ai guasti storici della discriminazione e dell’ineguaglianza. Il giudice Powell
argomentava invece l’opportunità di una ‘”azione affermativa” per cogliere nuovi umori e nuove
forze, soprattutto nell’istruzione superiore e nelle univevrsità. Un criterio che
oggi, mutate le condizioni politiche, se l’elezione di Trump ha un senso, potrebbe
giocare contro gli automatismi della “diversità”.
Perdono – È attraverso il perdono
che il cristianesimo diventa religione accettata, e presto religione di Stato.
Il perdono delle efferatezze dei potenti. Lo snodo è ben sintetizzato dal
romanziere russo Merežkobskij
in “La morte degli dei”, la storia di Giuliano l’Apostata. Quando l’imperatore
Costantino a una certa età fu sopraffatto dalla violenze commesse, tra esse
l’assassinio del figlio primogenito Crispo, della seconda moglie Fausta, e del
nipote Licinio, figlio della sorella Costantina. “Straziato dai rimorsi,
l’imperatore aveva supplicato gli ierofanti della religione pagana di
purificarlo, ma quelli si erano rifiutati. Allora il vescovo lo aveva persuaso
che soltanto la religione di Cristo possedeva sacramenti in grado di mondarlo
da simili delitti”.
Tribù – Un
atlante delle tribù sarebbe oggi un ghirigoro infantile di colori indefinibile.
Sono innumerevoli i conflitti che a vario titolo, etnici, religiosi, di
frontiera, politici, sono in atto in Africa, a Sud e a Nord del Sahara, in
Medio Oriente, in tutta l’Asia, e in Europa. Caldi o dormienti. nell’Africa ne-ra.
E una serie di schede sinistre sui conflitti interni euroafricani: l’inestri-cabile
tripartizione marocchina, arabo-berbera-spagnola, i berberi contro gli arabi in
Algeria, i copti in Egitto, l’inestricabile tripartizione jugoslava fra croati,
serbi e, in Bosnia, i musulmani, con gli albanesi dentro la Serbia e la
Macedonia, e i greci dentro l’Albania, i Russi dentro l’Ucraina, e dentro le
frazionate comunità caucasiche, poi gli inglesi dentro l’Irlanda, gli scozzesi
dentro l’Inghilterra, i baschi e i catalani in Spagna, gli ungheresi in Romania,
i rumeni in Moldavia, i fiamminghi e i valloni, gli armeni, i curdi e diecine
di altre nazionalità dimenticate.
Un fattore di nazionalismo, quindi
bellicoso. Ma antirazzista. Cinquant’anni fa Ronald Segal, il fondatore della
Penguin African Library, argomentava in un denso volumone in favore della razza
come “fattore primario”, o “strutturale” – era d’obbligo allora “rifare Marx”.
Ma il contrario è più vero: la tribù nei fatti smantella la razza. È il fatto
tribale religioso che tormenta l’Irlanda, non quello etnico. Ottantacinque
musicisti in quindici generazioni di Bach non è un fatto di razza teutonica,
non c’è un Dna nazionale della musica, ma di ascendenze familiari. O i Melani
di Pistoia, sette musicisti su nove fratelli, dal maggiore Jacopo, autore della
“Tancia”, la prima opera buffa, al minore Alessandro, che musicò il primo don
Giovanni, l’”Empio pentito”. O i sette Scarlatti, sorelle, fratelli, figli e
nipoti di Alessandro. Storicamente si può sostenere che il razzismo nasce
quando si conculca il tribalismo. Nasce nel 1492 in Spagna, dopo la conversione
imposta agli ebrei: non contando più la professione religiosa, per distinguere
gli ebrei si compilano Libri Verdi sulla limpieza de sangre.
Un problema è semmai a che tribù legarsi,
fra i tanti incroci. Ai
kikuyu operosi, coi quali aveva mercato quotidiano, Karen Blixen preferiva i
masai, che vivono a sbafo, e i somali, che impongono ai giovani di ammazzare
qualcuno se vogliono una moglie – così pensa lei golosa. È vero che il cuoco
kikuyu ha gambe curve, viso piatto, naso schiacciato, ed è un nano di fronte ai
somali e masai, i quali, non lavorando, sono alti e ritti. In swahili tribù si dice cabila, ma potrebbe essere cabala.
astolfo@antiit.eu