Africa – Il colonialismo è pessimo,
sotto tutti gli aspetti – anche economico: è uno sfruttamento. Ma allora quanto
peggio debbono essere state le indipendenza, se nel mezzo secolo post-coloniale
hanno impoverito e non arricchito l’Africa? Impoverito in senso relativo,
rispetto al resto del mondo.
L’Organizzazione per l’Unità Africana si rinnova
in questi giorni con una constatazione di fallimento, seppure fra intrighi politici
da grande potenza – attorno alla seconda o terza moglie del sudafricano Zuma…. Tutta l’Africa, compreso quindi il
Nord Africa col petrolio e il gas, un miliardo e trecento milioni di persone, ha
oggi un pil continentale quasi pari a quello della sola Italia, 2.282 miliardi
di dollari contro 2.200. Malgrado il petrolio e il gas, e le tante altre ricchezze
minerarie, fino ai diamanti: sono in Africa il 70 per cento delle ricchezze
minerarie mondiali (per questo da tempo il continente è assiduamente
frequentato dalla Cina).
Il dato peggiora molto per l’Africa Nera, a sud
del Sahara. E peggiora anche in termini relativi, di prodotto pro capite, rispetto
al resto del mondo, e tra il 1970 e il 2015. Nel 1970 il pil pro capite in
Africa era di 296 dollari, un terzo di quello medio mondiale, 924 dollari. Nel 2015
il pil pro capite è stato in Africa di 1.927 dollari, un quinto di quello mondiale,
10.098 dollari. Nel 1970 la quota dell’Africa nel pil mondiale era il 3,2 per
cento, nel 2015 non è migliorata, e anzi si è ridotta, al 3,1.
I limiti sono quelli di sempre, peggiorati: monoculture
(caffè, cacao, etc.: il 90 per cento degli scambi dell’Africa si fa con paesi
extra-africani) e esportazioni grezze (il 70 per cento africano delle riserve
minerarie incide sul pil mondiale per l’1 per cento appena, quello che l’Africa
esporta intensivamente sono le persone, in massa). Aggravati da un’involuzione
politica disarmante: una popolazione giovane, con un’età media di 19 anni, è
governata da utrasessantenni, militari più spesso, e politici che una volta al
potere non lo mollano mai – il presidente (ex) comunista dell’Angola Dos Santos
è al potere da quasi quarant’anni, e ora vuole la successione per una figlia. Metà
della popolazione, 620 milioni, non ha ancora l’elettricità. Ha il telefonino,
un miliardo di cellulari risultano in attività, ma
perché i pochi che ce l’hanno devono usare molte schede per telefonare.
Sotto il Sahara il reddito è praticamente
inesistente in termini monetari: poco meno della metà della popolazione vive
con due euro al giorno. Gravata da fenomeni asociali e criminali prima sconosciuti,
specie nell’Africa Occidentale, attorno al golfo di Guinea: il traffico di
droghe, il traffico di essere umani. La prostituzione da alcuni decenni, in
tutte le piazze europee, e ora l’elemosina elevata a business – di mendicanti
giovani, importati a presidiare chiese, bar, edicole, teatri, piazze, e ogni
angolo delle città d’Europa. Effetto, si vorrebbe, della fame. Che però non
c’è. Mentre c’è l’avidità, incontestata.
Destra-sinistra
– Il
populismo completa e fissa lo scambio: la destra, nazionalista e razzista, che
inventa e distribuisce quello che la sinistra più non fa, lavoro e reddito, irretita
nell’ideologia liberista, dell’austerità e del guadagno dei ricchi, di cui per
farsi perdonare si offre araldo. Slavoj Žižek ha portato al congresso romano
sul comunismo, C17, il caso della Polonia:
il partito Diritto e Giustizia di Jaroslaw Kaczynski al governo “nell’ultimo
ano ha abbassato l’età pensionabile, avviato trasferimenti sociali, per esempio
alle madri, reso più accessibili istruzione e cure mediche”. Negli Usa “Trump
promette quel che nessuno, a sinistra, si sognerebbe di proporre: mille
miliardi d dollari di lavori pubblici per migliorare l’occupazione, e così via.
Alla sinistra, dice il filosofo, resta l’arroganza - ma giusto alla televisione,
come parlarsi allo specchio.
In
Italia Grillo si gonfia dei voti degli ex Pci. Per i motivi che hanno portato
il Pci alla dissoluzione, e i suoi militanti allo sbando. La sfiducia verso la
politica, bandita da Berlinguer al culmine della sua lunga catena di errori con
la crociata anti-partiti al coperto di una comoda “questione morale”. E dai
suoi esecutori testamentari con la crociata contro le istituzioni, al coperto
della ridicola e feroce polemica contro la “casta”.
Eurasia – Si fa la pace in Siria, si
tenta, a Astana, capitale del Kazakistan, prossima Expo dopo la celebrata
Milano, autoproclamata “capitale” dell’Eurasia. In colloqui tra il governo di
Damasco e i suoi oppositori patrocinati da Iran, Russia e Turchia. Dopo una
guerra civile di sei anni che ha visto al fronte l’Occidente, se non l’Europa.
Ora, in questo primo approccio pratico dell’Eurasia, l’Europa è rappresentata dalla
Russia – e dalla Turchia?
Vittorio Strada tesse l’elogio di Aleksandr
Dugin, da sinistra, la coscienza di una certa sinistra, domenica sul “Robinson”
di “la Repubblica”, intervistato da Antonio Gnoli: “Più interessante (di
Limonov, n.d.r.) oggi è un personaggio come Aleksandr Dugin, filosofo e
ideologo”. “Si è parlato di lui come di un autentico fascista”. “È stato
considerato tale anche perché aveva tradotto Evola. È una figura centrale per
comprendere la nuova ideologia di Stato. Il suo pensiero circola tra le élite
russe ed è influente tra i militari”.
Dugin è
uno dei pilastri in Italia della rivista “Eurasia”, e delle Edizioni del
Veltro, che editano la rivista e ne pubblicano le opere. La più nota,
“Fondamenti di geopolitica”, lega la nozione a un movimento di russi emigrati
dopo il 1917, e alla minaccia che la globalizzazione rappresenta per tutte le
diversità, nazionali, storiche, culturali. Tradizionalista, cultore e seguace
di Guénon e Jung, antiliberista e per questo antiamericano, fu uno dei capi del
Fronte di Salvezza Nazionale venticinque anni fa contro l’ultraliberismo di
Boris Yeltsin, e collaborò al programma del nuovo partito Comunista di Ghennadi
Zjuganov. Ma presto si staccò dal Fronte, per fondare nel 1994 un partito
Nazional-Bolscevico, con Eduard Limonov. Al quale qualche anno dopo lo lascerà.
Sulla base di un manifesto, “La rivoluzione conservatrice”, pubblicato nel
1994, che fa proprie le posizioni della “rivoluzione conservatrice”
tedesca (antihitleriana) degli anni tra le due guerre.
Di dieci
anni più giovane di Putin, Dugin ha la stessa formazione, all’ombra dei servizi
segreti che portarono alla perestrojika,
e poi tentarono di governarla. Nei primi anni Duemila ha fondato vari partiti e
movimenti euroasiatici. Da qualche anno ha posto il centro della sua attività a
Astana, la capitale del Kazakistan, che il dittatore Nazarbayev ha dichiarato
capitale dell’Eurasia.
L’Eurasia
è un’idea che è, o avrebbe dovuto essere, il pilastro della terza presidenza
Putin. Il quale, subito dopo l’elezione, aveva anche indicato nel 2015 il
decollo pratico dell’idea, con un’unione doganale con i paesi del Centro-Asia.
In armonia con la Cina da un lato, e l’Unione Europea dall’altro. La Ue la
rifiuta, e anzi ha in atto un bizzarro containment della Russia da guerra fredda. Di cui
forse non misura l’assurdità: tenere Mosca impegnata in Europa.
Occidente
– È
piccola guerra, cronica, nella Ue. Di questo contro quello. Roland
Berger argomenta sul “Corriere della sera” l’uscita dall’euro della Germania,
niente di meno. Che ora sarebbe penalizzata dagli equilibrismi della Bce a
favore del maggior numero di Stati aderenti, con danno appunto della Germania.
E anche, aggiunge Beger con sano spirito tedesco, per avere una moneta più
forte, e quindi una spinta a investire in produttività, invece di lasciarsi all’onda
facile del cambio debole. Berger, un tedesco italianista se mai ce ne sono, si vuole
del resto realista e non prevenuto: “Le regole di Maastricht sono state violate”,
dalla loro introduzione quindici anni fa, “almeno 165 volte”.
È guerra spesso dichiarata all’interno della Nato.
L’Europa si fa scudo del superiore armamento nucleare americano, ma si fa le scarpe
al suo interno, anche in dispetto agli Usa. Che del resto lavorano da un
venticinquennio non per tenere in pace l’Europa ma per tenerla in soggezione.
Non c’è dubbio che l’attacco anglo-francese
alla Libia, organizzato da spioni di lungo corso e in quantità sul terreno, era
un attacco all’Italia. Ma dov’erano allora la Nato e gli Usa? O Sarkozy che
chiede agli Usa di silurare il governo italiano.
Non c’è dubbio che gli Usa hanno forzato la
crisi in Ucraina. L’estromissione del presidente Yanukovich venne a poche ore
dall’accordo per nuove elezioni tra lo
steso Yanukovich e i ministri degli Esteri di Germania, Francia, Polonia e
Russia. Fu fatta passare per una rivoluzione popolare che invece si dileguò un
momento dopo, ed era stata organizzata dai servizi occidentali, con i soldi
dello speculatore Soros.
Andando a ritroso nelle crisi balcaniche, nella
ex Jugoslavia e poi contro la Serbia, il ruolo degli Usa è stato dissolutore e
non unificatore. La democrazia e la libera scelta dei popoli sono stati una
foglia di fico, poco coprente.
Non c’è dubbio, e si sapeva all’epoca, che le
primavere arabe, da cui il nuovo terrorismo ha perso l’avvio, fossero organizzate
dalla Fratellanza Mussulmani, per Stati confessionali.
Si fa ora strada in
Germania un sentimento anti-atlantico, e non nella destra protestataria. Che
evidenzia il dato che si sottace, di un Occidente diviso e concorrenziale. “Se
gli americani trovano qualcosa che possa colpire un concorrente, colpiscono”, sottolinea
Berger al “Corriere della sera”, riferendosi alla Volkswagen e alla la Fiat-Chrysler.
E all’Iran: “Oggi è un’area in cui noi europei potremmo legittimamente fare affari,
eppure nessuna banca europea s’arrischia per timore di avere problemi o ricevere
multe negli Stati Uniti. Intanto, per qualche ragione, gli hotel internazionali
di Teheran sono pieni di americani”.
Trump – L’immobiliarista è stato
votato dalle periferie e dalle campagne – da quella che a sinistra si sarebbe
detta l’America profonda. Secondo l’“Atlas of Us presidential elections” dell’US
Bureau of Census, Trump ha straperso nelle città (16,3 milioni di voti contro
27,5 per H. Clinton), ha vinto nei sobborghi urbani (32,6 contro 29,9), e
stravinto nelle zone rurali e le piccole città (14 contro 7,9). Questo anche a
New York: ha perso nei quartieri centrali (Manhattan, Bronx, Queens, Brooklyn,
Nassau, Westchester, Rockland), ha vinto all’esterno (Staten Islan, Suffolk,
Putnam, Orange).
Per grandi regioni, Trump ha perso in quella di
New York, in quella della capitale Washington, e nel New England, straperso negli stati del
Pacifico, Washington, Oregon e California. Ha vinto negli Stati industriali,
pareggiando nella regione di Chicago. E ha stravinto negli Appalachi, nel
Nord-Ovest, nel Profondo Sud, e nel Sud-Ovest.
Ha vinto, come si sa, per il meccanismo elettorale,
che filtra il voto popolare per Stati. Ma ha avuto due milioni 338 mila voti
meno di Hillary Clinton.
astolfo@antiit.eu