Da quattro anni almeno la Cina fa passare le sue esportazioni di scarpe e abbigliamento da Londra perché lì l’ingresso nella Ue non coste niente, centesimi – meno di un euro di dazio per un kg. di capi d’abbigliamento, contro i 18 della dogana italiana. Nel 2016 quattro quinti delle importazioni europee di scarpe e abbigliamento dalla Cina sono transitati per Londra. Dopodiché, affrancate, hanno potuto girare sottocosto per tutta Europa.
La
cosa si viene a sapere perché la Commissione di Bruxelles, vendicativa dopo la
Brexit, multa Londra per due miliardi di euro. A leggere i giornali italiani
tutti questi anni, specie i milanesi, le merci cinesi invece entravano di
straforo in Europa transitando per Gioia Tauro. Per nessun’altra ragione che
Gioia Tauro, il più grande scalo del Mediterraneo, è in Calabria.
Dopo
aver visto “Ladri di biciclette”, quindi siamo nel 1948, Mario Soldati scrisse la
sua ammirazione a De Sica (la lettera è pubblicata da Angelo Varni sulla
“Domenica” del “Sole 24 Ore”): “Tu «albeggi». Noi (tutti noi registi italiani)
«tramontiamo»… Un popolo sorge. Un popolo dell’Italia Centro meridionale. E un
popolo tramonta: la borghesia dell’Italia settentrionale”.
Non
è andata così. Il “popolo dell’Italia Centro meridionale” si è adagiato nella
sfiducia e il vittimismo: emigrazione, odio-di-sé. E la “borghesia dell’Italia
settentrionale” ha reagito, eccome, e non
molla nemmeno l’osso del cane. Ma quella di Soldati non era un auspicio,
era una constatazione, mesta.
“Nessun
italiano può dirsi estraneo a Napoli”, intima Aldo Cazzullo dal “Corriere della
sera”. Un meridionale obietterebbe.
La corazza
“Padrino”
C’è un libro che ha fatto, fa, la metà dell’immagine italiana nel mondo, e quella
tutta di Corleone, da cui il protagonista ha preso il nome, e della Sicilia. C’è
un Sud di prima del “Padrino” e di dopo.
Alla
rilettura, “Il padrino” non è credibile. Contro Hollywood, per esempio, dove
non ci sono che puttane dipinte, e contro Frank Sinatra – un buon quarto del
libro. Prolisso, anche noioso. E ambiguo. Il “pezzo novanta”, come lo chiama
Puzo, il mammasantissima che Marlon Brando immortalerà, è una vittima della
mafia, da bambino della violenza mafiosa al suo paese, di cui il padre è
vittima indifesa, da giovane capofamiglia a Manhattan delle soperchierie e del “pizzo”
della Mano Nera. Ma un personaggio riuscito, una serie di personaggi riusciti, specie
nei film di Coppola con lo stesso titolo, hanno creato uno stereotipo. Una
serie di stereotipi, sovrimpressi alla Sicilia e al Sud, che tengono ancora
bloccati la Sicilia e il Sud, avendoli come mesmerizzati, immobilizzati: la
Sicilia e il Sud paradossalmente vi si riconoscono. Meno per i film, che non
sociologizzano, non tipizzano. Nel romanzo invece è costante la sottolineatura:
etnica, tribale, familiare. Che si tratti di linguaggi, cibi, affetti.
Un
costruzione “eccessiva” che però è formidabilmente attiva. Una sorta di calco
ineliminabile, indistruttibile, soprammesso al corpo del Sud. Ci sono anche
molti errori – eccessi già all’epoca in cui Puzo scriveva. Il “sangue”. La
“Sicilia”. L’omertà - “Solo a un Siciliano, nato ai modi dell’omertà, la legge del silenzio, poteva
essere affidato l’incarico di consigliori”, mentrenon è così, il siciliano va tenuto con la briglia corta, altrimenti si sa che sono
chiacchieroni, anche a sproposito, e traditori. Il ridicolo di certe
rappresentazioni a chiave: Fontane-Sinatra, Margot Ashner-Ava Gardner, il
megaproduttore Woltz-Mayer, il Senatore-che-non-c’è. La stupidità femminile:
non una moglie, figlia o fidanzata si salva - la famosa “donna del Sud” è anche
di questo romanzo.
E
quanto “Il Padrino” ha formattato la pubblicistica sul Sud dopo la sua uscita
nel 1969? Non si può dire – c’è, c’è stata, abbastanza ferocia nella Corleone
propriamente detta e nella Sicilia in quegli anni e dopo per giustificarne
l’immortalità. Ma ha determinato il linguaggio: andando a ritroso, c’è un prima
e un dopo “Il padrino” nella pubblicistica sul Sud. Dopo sono gli stessi personaggi,
ovviamente in vesti diverse, le stesse situazioni, le stesse mentalità (linguaggi):
Puzo ha disposto (creato) tutto un mondo. A rileggere il libro non
sembra – non sembra possibile. Ma si sa che successo chiama successo. Il successo
crea lo stereotipo, dopo si fa in copia. Non c’è bisogno di chiamare in causa
la pigrizia, l’industria va avanti per copie, quindi anche l’editoria. Anche
perché il Sud vi si adagia, non protesta.
In
questi cinquant’anni dal “Padrino” molta robaccia è stata ripulita a Manhattan.
La polizia corrottissima di New York per prima. Anche la comunità italoamericana non è più
trattata da dago e guinea (africano), o guinea
giallo - che l’avventuosa traduttrice Mercedes Giardini Ozzola rende misericordiosa con “contadino terrone”. Mentre la Sicilia e il Sud Italia sembrano averli adottati, Puzo e
il suo monomaniaco romanzone. Come una corazza e quasi un modello di vita. Si
leggano i giornali locali, in Sicilia, a Napoli, in Calabria, si conversi con
chi ci vive, non c’è altro argomento: morti, minacce, dispetti, e padrini. Non
si scampa.
L’invidia di don
Milani
Le
“Lettere a una professoressa”, il manuale pedagogico 50 anni fa di don Lorenzo Milani,
è stato celebrato con una critica dal “Sole 24 Ore”. Lorenzo Tomasin, filologo
romanzo a Losanna, ex Ca’ Foscari e ex Bocconi, vi ha individuato il nucleo
dello sfascio della scuola, che non forma più e non insegna nemmeno. E dell’invidia
sociale - allora si diceva “odio di classe” - che connota sempre più pervasivamente
la società. A difesa di don Milani è poi intervenuto Carlo Ossola. Mentre la critica
è stata ribadita da Franco Lorezoni, maestro e pedagogo. I tre interventi si
sono soffermati sull’indirizzo seguito, a partire dagli anni 1970, dalla scuola dell’obbligo sulla traccia di don Milani.
La
“Lettera a una professoressa” si rilegge oggi come una “Lettera alla madre”. Di
un giovane fiorentino di ottima famiglia, sportivo, colto, che giovane decise
d’indossare la tonaca. E di dedicarsi ai più umili. Fuori città, però. E non da
prete operaio, come allora usava nel cattolicesimo impegnato, ma da borghese
illuminato.
L’azione
pedagogica il giovane prete fiorentino – molto - rinforzava con un certo orgoglio
contadino, per indurre suoi ragazzi a uscire
dall’apatia e accettare il diritto-dovere di migliorarsi. Con lo studio e
l’applicazione. Sono però contadini come li vede la città, semplificati e
santificati, alla Rousseau. E c’è indubbio, alla rilettura, una sorta di
odio-di-sé borghese, che indirizzava i ragazzi non all’odio di classe, don Milani
non era marxista né del Pci, ma sì all’invidia sociale, partendo dal disprezzo
del ceto che pure, indirettamente, insegnava a imitare: quello borghese, del
fare. La parte ordinativa faceva giustizia della scuola ridotta a burocrazia, a
rito stanco. Da qui i nuovi indirizzi,di cui però non si può fare colpa a don Milani.
L’impegno della “professoressa” della nuova scuola che Tomasin difende è semmai
donmilanesco. Mentre l’abdicazione della borghesia è nei fatti, una recessione
storica - don Milani, la sua mamma, la sua città, il suo stesso impegno, erano
ben borghesi.
La
polemica spiega però il ritardo del Sud. Che si è aggravato, malgrado i tanti soldi
spesi per lo “sviluppo”, su questo snodo: l’invidia sociale eretta a sistema. Perché,
autoreferente, non ha indotto né induce a fare ma a disfare. Annegando nella
corruzione, contro la quale prima, in epoca “borghese”, c’era no argini, ora
non più. Mentre la criminalità propriamente detta non si riesce più a arginare
e prolifera – l’unico luogo al mondo senza anticorpi.
Il
Sud ristagna per l’abdicazione della borghesia. Si dice il ceto politico
meridionale inquinato, per storia, carattere, estrazione sociale. Ma non lo era
fino a un certo punto della storia del dopoguerra- Non in Calabria (Mancini, Misasi),
non in Sicilia (Alessi, La Loggia, gli stessi Mattarella, Macaluso), in Puglia
(Di Vittorio e Moro su tutti), i tanti ottimi liberali e comunisti di Napoli.
Germania, o cara
Un
ragazzo rumeno sa tutto degli alberi. Dell’habitat, la stagionalità, la
fioritura, la fruttificazione. Il tipo,
la quantità e il tempo della concimazione. Il tempo in cui potarli, e il modo.
Vari ragazzi prima di lui, varie coppie di ragazzi, locali, paesani, si sono
solo divertiti con la sega elettrica. Non sapevano nulla, benché il paese sia
di campagna, e non hanno imparato. Non avevano imparato, né alla scuola
agraria, né nei campi, e non hanno voluto imparare.
Il
giovane Micha è rapidissimo nella potatura, benché si paghi a ore, e poi nella
disposizione delle frasche e la ripulitura dell’orto. Non è il solo, altri come
lui, venendo sempre da lontano, anche dal Nord Africa, fanno gli stessi
mestieri in campagna, precisi. Tristi magari, quelli in età, isolati dalla
lingua, ma sempre applicati. Preferiscono lavorare , benché isolati, in queste
zone remote di campagna, perché il guadagno fanno praticamente netto, poco o
nulla pagando per l’alloggio. Hanno bisogno, sanno come fare fronte.
Si
riapre la polemica contro gli immigrati che “rubano il lavoro”. Se non altro perché
si pagano meno, e senza vincoli, fiscali o assicurativi. Ma si trascura che il
giovane disoccupato a cui l’immigrato toglie il lavoro non fa nulla, non sa
fare e non vuole imparare. Un tempo si diceva dei lavori pesanti, ma ora è vero
di qualsiasi lavoro – che non sia naturalmente il “posto” checcozaloniano. Questo
al Sud non è solo esperienza personale, si vede ovunque.
In
parallelo si fa la polemica sui giovani che “devono” emigrare. Ma anche qui. Dei
cinque giovani di cui genitori e amici hanno tentato l’inserimento nei piccoli
lavori dell’orto, quattro sono emigrati in Germania. Tre fanno le pulizie, nelle
case e negli uffici, cosa che non avrebbero nemmeno contemplato di fare in
paese. A cinque euro l’ora mentre in paese se ne pagano otto. Il quarto fa il
manovale in fabbrica: sveglia alle cinque, inizio del turno alla sette, a
Rostock, dove sei mesi l’anno si vede il sole una o due ore, e non si può stare
all’aperto più di cinque minuti. La paga è giornaliera, ma è di 65 euro per
sette ore e mezza, mentre in paese è di 80. Tutt’e quattro devono pagare l’alloggio,
che in Germania è meno caro che in Italia, ma al paese avevano la casa di proprietà.
Questo
è un fatto noto: si accettano in Germania, dagli stessi lavoratori tedeschi,
paghe e contratti che in Italia sono improponibili – per esempio i “mini-job”. Meno
note sono le due mancanze del Sud. La scomparsa della voglia di imparare – della
costanza, del lavoro ben fatto. E l’insofferenza, per cui emigrare è sempre un
bene, anche nelle condizioni peggiori: la perdita di ogni nucleo di ogni nucleo
di consistenza, e di ogni criterio comparativo, l’odio-di-sé. Il Sud è
soprattutto cancellato (indebolito, maledetto) dall’immagine del Sud.
leuzzi@antiit.eu