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Epistemologia – È narrazione. Immaginiamo uno
scienziato che intenda ricostruire nei dettagli la storia e gli assetti (sinonimo
per trama) del mondo. Una vita è quel mondo. Ma per vivere - e cioè per essere
significativo, comunicabile - quel mondo ha bisogno di uno che lo rappresenti e
lo comunichi. Anche questo è compito dello scienziato: non solo vivere il mondo
ma rappresentarlo.
È questo
il problema centrale dell’epistemologia, di quanto mondo e rappresentazione
siano obiettivi. Ed è il problema della storia e dell’autore.
Poi
però c’è il problema della stessa obiettività: se l’oggetto si definisca in
rapporto a se stesso, oppure ad altro dato esterno. In questo secondo caso si
entra nel terreno impervio di Dio e della creazione. Nel primo caso c’è il
problema della cosa in sé‚ che è il problema del punto di vista. Per quanto
accurata una ricostruzione-identificazione possa essere, restano sempre fuori
dei residui che necessitano una messa a punto. A volte piccoli spostamenti o mutamenti
generano ampi spazi di conoscenza, riconoscimento, svelamento.
Lo
stesso scienziato-osservatore comunque è parte della rappresentazione e
necessita una messa a punto. Lo scrittore Nabokov ricorda che, quando si
firmava Sirin, il critico George Adamovic ne lodava la scrittura in prosa ma
invariabilmente ne condannava i versi. Un giorno Nabokov firmò un poema
Shishkov - poema peraltro intitolato “I Poeti” - e Adamovic ne fu entusiasta. Una
cosa in sé, che è una scrittura caleidoscopica.
Estinzione
–
È la parola ricorrente: di animali, specie, sentimenti, oggetti, funzioni. Dell’amore,
della fede. Dell’intelligenza, che pure questa estinzione e l’idea stessa di
estinzione in vari modi genera. Dell’immortalità (aldilà) e dell’infinito. Si
ipotizza anche l’estinzione del genere umano – finisce l’acqua, finisce l’aria.
Mentre l’evoluzione sembra essersi fermata, resta Darwin ma non se ne trova
traccia nella storia, nulla cresce tutto deperisce. Una forma di scongiuro, ma
un forte senso di decadenza, di fine – è la cultura della crisi.
Si moltiplica, sotto questa deriva, il
reimpianto di specie animali ovunque, anche in habitat non adatto e non
precedente, per prevenirne l’estinzione – si vorrebbe, si spera, di ricreare i
dinosauri. Anche se dannosi all’ambiente e alla salute. E di specie vegetali anche
infestanti.
Heidegger
– Jankélévitch,
1965, “L’imprescriptible”, ha i “galimatias” di Heidegger, le manfrine, oltre
che “i discorsi senza capo né coda” che si propongono per “profondità
filosofiche”. Per camuffare, sostiene, il pensiero nazionalsciovinista.
In effetti i pensieri di Heidegger hanno
capo e coda, e anche trasparenti. Ma “manfrine” non è male.
Ora
che l’antisemitismo di Heidegger è dimostrato, non se ne parla. Non quello
storico-metafisico dei “Quaderni Neri”, che ha anzi aperto l’ennesimo filone di
pensiero heideggeriano. Quello bieco e pratico, dell’uomo comune, del “Mein
Kampf”. Che non era ignoto, ma ora viene incontestato nello stesso volume
“Heidegger und der Antisemitismus”, che il nipote Arnulf ha pubblicato qualche mese
fa. In cui fa spazio a studiosi pro e contro, ma pubblica alcune delle 500
lettere scambiate dal filosofo col fratello Fritz (le lettere, depositate
all’archivio di Marbach, sono ancora in proprietà agli eredi) che l’antisemitismo
del filosofo e il fervore hitleriano documentano di prima mano. Specie di
fronte alla riserva di Fritz, antirepubblicano, pure lui, ma non entusiasta di
Hitler. Che, curiosamente, a un certo punto assomiglia al fratello: “Non so se
è una fantasia: tanti atteggiamenti e lo sguardo di Hitler nelle immagini di
oggi mi ricordano te”.
Gli
apprezzamenti heideggeriani del futuro Führer
corrono a partire dal 1930. Per Natale del 1931 il filosofo manda a Fritz in
regalo il “Mein Kampf”, con una serie di elogi di Hitler. Subito dopo il
governo centrista minoritario di von Papen, del centro cattolico, presenta come
una congiura ebraica. Il 13 aprile 1933, tre mesi dopo l’avvento di Hitler,
nota di passaggio: “Tre ebrei sono scomparsi qui nel mio dipartimento”. L’astio
trapela anche dopo la guerra: “Una Heine Strasse mi sembra proprio del tutto
eccessiva, oltre che senza senso a Messkirch”, il paese della famiglia
Heidegger, scrive il 31 luglio 1945. Ma, poi, già nella corrispondenza nota con
la moglie, in una delle prime lettere, da fidanzati, lamenta nel 1916 la
“Verjudung”, l’ebraizzazione, “delle nostre cultura e università”. Il pregiudizio non muta la lettura
filosofica?
Resta
naturalmente da conoscere la corrispondenza, se c’è stata, con i tanti allievi
ebrei poi divenuti filosofi di professione, oltre che con l’innamorata Hannah
Arendt: Löwith, Marcuse, Jonas, Leo Strauss, Elisabeth Blochmann, Werner Brock,
il suo assistente fino al 1933.
Limbo
– È
in via di eliminazione, l’esilio perpetuo dalla beatitudine divina dei
fanciulli morti senza il battesimo, e luogo di “beatitudine naturale” per gli
spiriti magni venuti prima del Cristo. Si elimina come tutto ciò che attiene
all’aldilà, in un’epoca che si vuole razionale – la cancellazione del limbo non
manda i suoi piccoli in paradiso. E soprattutto come le mezze misure, o
sfumature: una cosa è oppure non è, questa è la razionalità semplice che si
vuole. Che è la ratio dell’utile e dell’inutile.
Non nel senso dell’utilitarismo ma della “verità. Nel cui nome si abolisce
anche l’immanenza, e ogni senso di religiosità, per una forma di libertà
analoga a quella di verità, dal timore, la fede, la speranza. Senza radici, e
senza fronde.
La chiesa lo elimina anche nel
quadro di una revisione radicale del concetto di peccato originale, della
nascita nel peccato. A fronte delle non nascite, e della pratica comune
dell’aborto. Già in passato era successo: il limbo non era stato abolito ma attenuato
molto - per motivi di opportunità se non demografici come oggi - con i
cosiddetti “santuari della resurrezione”, dove gli infanti morti senza battesimo
si “resuscitavano” il tempo necessario per impartire loro il battesimo e
salvarli per sempre. Oggi la colpa si trasferisce sui genitori, se la morte
interviene per aborto.
Medea – Ritorna mentre si
abolisce la gelosia – Giulia Sissa ne fa il primo capitolo del suo trattato “La gelosia”.
Ritorna malgrado i femminicidi, come quella che non ha il senso della
maternità – che attesta un certo femminismo, quella della non diversità, della
non differenza fisiologica (e in questo senso di può dire incarnata nella
vicenda di un noto politico, che la moglie ha denunciato ai suoi nemici come violentatore,
senza peraltro occuparsi dei figli avuti con lui: non sanguinaria come quella
di Euripide ma altrettanto aliena dai figli e vendicativa contro il coniuge). E
come quella la cui gelosia non ha mezze misure: la Medea di Euripide, di
Seneca, e da ultimo di Corneille. Non si fa caso della “Medea” di Corrado Alvaro,
e questo è un limite.
Le
Medea sono molte. Quella di Grillparzer per esempio è retrattile, debole, vulnerabile,
che finisce per far sua, benché da vittima, la colpa e la pena – si vorrebbe
dirla generosa, ma allora martire. Quella di Alvaro è politica – come lui vuole,
che la dice “antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione
razziale, e di tante che, respinte dalla loro patria, vagano senza passaporto
da nazione a nazione”. Ma sul fondamento originario della Medea che ai Corinzi
e allo stesso Creonte si presenta aliena: straniera, “barbara”, “ostracizzata”.
Una lettura che ha con la realtà, la contemporaneità.
Il
genere (femminismo) non s mescola con la storia – gli avvenimenti – ma senza è
solo una petizione di principio, innocua.
Narrazione - Non può che essere veritiera: tout se tient. Se è bugiarda crolla, è
come un pilastro portante nella costruzione che si sbriciola - menzogna come
non rispondenza di un gesto, evento, discorso. Lo stesso effetto ha la
ridondanza. La verità della narrazione è proporzione. Rispondenza ai ritmi e
alle misure interne.
Punto di vista - Vernon Lee: nei romanzi di avventure, da
Omero a Boccaccio, e alla “Mille e una notte”, e nelle favole, il punto di
vista è di nessuno.
Popper
direbbe il contrario, ma la narrazione si appartiene. Il punto di vista vi è
stato introdotto come una variazione.
Ricorsi
–
Avviene di leggere in ritardo di cinque anni le memorie di Edna O’Brien, “Country
Girl”, ricevute in regalo appena uscite. Di scoprirla autrice di “La ragazza
dagli occhi verdi” – tardo premio, dopo trent’anni, Grinzane Cavour. Da cui il
ricordo emerge di un film memorabile con Virginia McKenna, uno dei ricordi più
vividi del cinema domenica che si proiettava in collegio dopo la parita – dopo la
radiocronaca delle partite. Salvo che “La ragazza dagli occhi verdi” è
successivo, di quando il collegio era preistoria. E nel film è Rita Tushingham.
Mentre nessun titolo della filmografia di Virginia McKenna ricorda qualcosa di
analogo.
Ma,di più, in “Country Girl” è questione
di Side e Aisling. Sidhe Cosetta Cavalcante, la traduttrice, certifica essere in
gaelico “collina” – “e nella tradizione dei miti celtici Sidhe”, così come Aos sì,
“indica il «popolo delle colline», folletti e spiriti dotati di poteri magici e
soprannaturali”. Aisling O’Brien dice “sogno, visione”. Ora, succede anche di
aver coaturato quattro anni fa un
romanzo “irlandese”, dal titolo Sidhe”, in cui molto è questione di Aisling.
Sono parole ricorrenti, tipo banshee,
etc.? È possibile.
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