Autore – Flaubert, il
letterato-letterato, lo vuole disimpegnato. È la cosa che più colpisce Edmund
Wilson rileggendo di Flaubert “L’educazione sentimentale”(nella raccolta “Il
cronista letterario”): “«Oggi», scriveva a Louise Colet nel 1853,
«arrivo a credere che un pensatore (e che cosa è l’artista se non un triplice
pensatore?) non dovrebbe avere né religione né patria né alcuna convinzione
sociale. Mi sembra che il dubbio assoluto sia un’indicazione così
inequivocabile che darsi la pena di formularlo equivarrebbe quasi ad
un’assurdità». E «I cittadini che si scaldano pro o contro l’imperatore o la
Repubblica», scriveva a George Sand nel 1869, «sembra non siano di maggiore
utilità di quelli che usavano disquisire sulla grazia efficace e la grazia
perficiente». Nulla lo esasperava maggiormente — e oggi possiamo simpatizzare
con lui — dell’idea che l’anima si salva con la professione delle corrette
opinioni politiche”.
Borges – È molto “stradale”, lui
che diceva inopportuno dare nomi di personaggi alle vie. Avenidas, calles,
plazas pullulano nel nome di Borges, in Argentina e in Spagna.
Conan Doyle – L’inventore dello “scienziato”
Sherlock Holmes fu stolidamente spiritista nella seconda metà del sua vita. Credeva
alle fate, e le vedeva. Ma aveva un modello: anche Dickens, seppure in modi
meno pubblicizzati, lo era. Dilettandosi personalmente di mesmerismo.
Dante – Viaggiando per “Il Sole 24 Ore” Carlo Ossola riscopre a Treviri
Marx, e in Marx Dante, sempre in italiano: “Segui il tuo corso e lascia dir le
genti” (chiusa della prefazione alla prima edizione), e san Pietro che la chiavi
del Paradiso (XXIV, 82-85): “Assai bene è trascorsa\ D’esta moneta già la lega
e il peso,\ Ma dimmi se tu l’hai nella tua borsa” (“Il Capitale”, I, 1: Merce e
denaro). O Da Ponte, “Don Giovanni”, nelle lettere: “È aperto a tutti quanti,\
Viva la libertà”.
Però è vero che Treviri è la “vera Roma”,
quella che il classicista vive – più che la Roma capitale d’Italia, che è anche
grande città medievale, rinascimentale, ottocentesca. E più da molti secoli centro
della cristianità, città vaticana: città comunque viva, non figée nel passato imperiale.
Goethe – Viene fissato nella seriosità
mentre non c’era portato, per formazione e temperamento. Si trascura la gioventù
e la prima maturità, licenziose piuttosto e vagabonde. Gli “anni di
vagabondaggio” si traducono e si presentano come “anni di pellegrinaggio”, come
di un santino. Mentre era uno vorace. E si innamorava in tutti i posti dove
andava, non solo a Roma – difficilmente una ragazza passabile gli passava
indenne davanti. A 25 anni si mise con la dama di corte Charlotte von Stein, di
dieci anni più grande e sposata, salvo mollarla senza un cenno quando decise di
partire per l’Italia. E fino all’ultimo visse licenziosamente: fino a quasi sessant’anni
ebbe amanti e non mogli. Né migliorò dopo il matrimonio con Christiane Vulpius,
la madre dei suoi figli. L’“Elegia Marienbad”, 1823, a 74 anni, che giudicava
la sua migliore, gli fu ispirata da una giovane Ulrike von Levetzoff, ventenne,
sposata – è vero che Christiane era già morta. Al tempo della rivoluzione
americana, da capo della Commissione di guerra del duca di Weimar negoziò
attivamente e abilmente la vendita di attivisti politici, ladri, criminali e
barboni agli eserciti assiano e inglese, da mandare a combattere contro gli
indipendentisti – salvo poi elogiare i Padri Fondatori dell’America e la
libertà. Se ne fa un santone saccentone mentre era un curiosone. Impegnato e
insieme spregiudicato. Ma è vero che – libertinamente – gli piaceva la forma
curiale: la personalità, la fama, i titoli, le riverenze.
Lista – Anche F.S.Fitzgerald aveva
la “vertigine della lista”, come Umberto Eco. È una delle prime cose che
confessa nelle note autobiografiche - autodemolitorie
- “Il crollo”. Dopo i dieci anni 1920 dei successi, finiti con il crac a Wall
Street e la follia della moglie Zelda, Fitzgerald si isola. Dorme, “a volte per
venti ore al giorno”, e compila elenchi. Per non pensare: “Negli intervalli
(fra un sonno e l’altro, n.d.c.) mi mettevo d’impegno a non pensare e compilavo
elenchi, compilavo elenchi per poi strapparli, elenchi a centinaia, di
comandanti di cavalleria, giocatori di football e città, motivetti popolari e
lanciatori di baseball, momenti felici, passatempi, case dove avevo abitato e
quanti vestiti avessi avuto dopo il congedo militare e quante paia di scarpe…
Ed elenchi di donne che mi erano piaciute”. Un indizio forse, quest’ultimo, che
semplifica la “vertigine della lista” dello scrittore americano, che fu devoto
alla moglie ma voleva potere non esserlo.
Eco ne fa
invece il sintomo di una cosa ben più vasta: il dominio del mondo. “Le mie liste” è la seconda parte delle non
tradotte “Confessions of a young novelist”, pubblicate a Harvard nel 2011 (ma
riprendono in buona parte la “Vertigine delal lista”, il libro illustrato che
Eco aveva pubblicato nel 1009). Cominciando dal “catalogo delle navi”
dell’“Iliade” e finendo con Calvino e Borges, Eco repertoria una lunga serie di
elenchi di cose, più o meno ipotetiche. Che rispondono a un tentativo, dice, di
fissare e padroneggiare il mondo. A ben guardare , anche in questa
accezione le “vertigine” sarebbe meglio applicabile a Fitzgerald che a Eco. Che
non si ubriacava.
Il mondo
di Eco è però quello visibile, visivo (il tema delle sue “confessioni” è come
uno studioso dei segni arriva a fare il romanziere) – un po’ allora come la
raccolta dei francobolli un tempo, quando non c’era internet. Gli elenchi sono secchi, come se la parola non
coinvolgesse chi di suo non è già coinvolto. Mentre coinvolgono le
illustrazioni che a un certo punto della sua ricerca Eco ha ritenuto di dover
allegare alle liste: quadrerie, reliquiari, battaglie, fabbriche, corti e
cortigiani, macellerie, scatolette Campbell’s, arte povera, arte narrativa, del
Tre-Quattro-Cinquecento. E la libreria naturalmente. Le “liste” illustrate sì,
inducono, come dice lui, la vertigine da “elenchi infiniti”.
Proust – Amava il Ritz, che però lo
ha tradito. Presto: già negli anni 1920 era una sorta di american bar, per ricchi
bohémien americani che amavano sbronzarsi, artisti o con la voglia di
diventarlo – parte di Hemingway, “Festa mobile”, e di molti racconti di Fitzgerald.
E pochi anni dopo “non era più un american bar”, per Fitzgerald che deluso ci
ritorna, nel racconto “Babilonia rivisitata”. E non era nient’altro. Anche se aveva preso ad abitarlo Coco Chanel. Ma
il peggio doveva venire. È stato in guerra sede di una Komandantur di occupazione.
E poi oggetto di tanti passaggi di proprietà. Al termine dei quali è finito
chiuso, per cinque anni, per essere praticamente ricostruito, mantenendo solo
il nome – è stato riaperto un anno fa.
Il penultimo passaggio si proprietà lo raccontava
Daniela Pasti su “la Repubblica” vent’anni fa, il 14 settembre 1995: “Al Ritz di Parigi esiste una suite Proust: lui non vi
abitò mai, ma spesso cenava in una camera dell’albergo, dove il direttore Elles
aveva disposto che gli venisse servito da mangiare anche a tarda notte. Il
personale del Ritz, racconta Painter nella sua biografia di Proust, era
orgoglioso della fama dello scrittore e leggeva gli articoli che parlavano di
lui. Ma quando in questo viaggio abbiamo chiesto di visitare la suite ci è
stato risposto di no. Il proprietario dell’albergo è arabo e arabi sono anche
la maggior parte dei clienti, per i quali nei corridoi dell’hotel sono
allestite vetrine «sontuose e atroci». La suite Proust non si può visitare, ma
ci si può dormire per dodici milioni a notte”.
La memoria è traditrice – bisogna manipolarla
ben bene.
Vitalità – È il segno dell’artista,
la sua forza, secondo il F.S.Fitzgerald del “Crollo”. Ed è un dono: “Uno ce
l’ha o non ce l’ha, come la salute o gli occhi castani o l’onore o una voce
baritonale”. E non si attacca, non si spartisce, non si insegna.
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