sabato 20 maggio 2017

I migliori presidenti sono i peggiori

Le due presidenze americane più largamente accettate e celebrate sono quelle più guerrafondaie, Kennedy, di cui si perpetua il mito per il centenario, e Obama. Di guerre gravemente nocive, per gli Usa e per la democrazia.
La guerra, si sarebbe detto nei due campi kennediano e obamiano, che sono poi lo stesso, è dei guerrafondai grupi di interesse, del galbraithiano complesso militare-industriale. Ma non nei casi di Kennedy e Obama, guerrafondai per eccellenza: sono le due presidenze meglio riuscite del complesso militare-industriale?
Di Kenendy si ricuce solo adesso la guerra con Cuba, e con mezza America Latina. Mentre sono stati profondi i guasti della sconfitta in Vietnam, sul dollaro e nella guerra fredda. Che Obama ha voluto rianimare, rompendo il gentleman’s agreement di non aggressione con la Russia post-1989.  Fino alla ripersa – possibile, alle porte – del riarmo nucleare. Un disastro. Oltre che per l’Ucraina, e per gli interessi dell’Europa tutta, che deve fare il viso dell’armi alla Russia e non sa perché. Per non dire del patrocinio delle primavere arabe, cioè della Fratellanza Mussulmana.
I disegni dell’opinione pubblica sono imperscrutabili.

A che punto è l’America

Singolare e affascinante è l’avvitamento dell’“America” contro Trump. Dell’America che conta cioè: media, affari, gruppi di comando politici. Roba da Svetonio, da Plutarco, gli autori delle vite “contemporanee” dell’impero romano.
Il desiderio di sbarazzarsi di Trump è stato istantaneo e generalizzato subito all’elezione. Per tutti i due mesi prima del passaggio dei poteri. E dopo un periodo brevissimo, non più di una diecina di giorni, dall’accesso – esaurite cioè le nomine. Ma prima che Trump avesse cominciato a  governare effettivamente.
La critica delle istituzioni è libertà. Indubbiamente. Ma l’unanimità è sospetta: non è democratica. I tempi sono anche curiosi. Democrazia è accettare il voto delle elezioni.
Contro le elezioni si sono avuti esempi di rifiuto, anche in campo occidentale, anche in Italia - basti pensare a Scalfaro. Ma sono golpe, seppure incruenti, e perfino istituzionali. Non si chiudono le Camere appena elette. Non si manda un presidente appena eletto sotto processo.
Si è criticato Trump prima del voto, e dopo, prima dell’insediamento, per i suoi propositi. Per i suoi modi. Per la ricchezza, che potrebbe essere sospetta. Ma allora tanto più Trump si penserebbe da accettare se è stato eletto contro questi handicap.
L’opinione pubblica è invece singolarmente acritica, e anzi elogiativa, con Obama. Un presidente  poco concludente sul piano interno e catastrofico nei rapporti esterni. Con la Cina. Col radicalismo arabo. Con l’Europa. Il presidente che ha esumato la guerra fredda.  
Trump vittima della sua xenofobia? Le sue misura anti-immigrazione sono state cassate, ma l’America respira perché da alcuni mesi non ha più flussi di nuovi immigrati.
La Russia. È difficile capire che gli hacker russi abbiano potuto determinare l’esito delle presidenziali, e nessuno lo spiega, delle tante polizie che dicono di occuparsene. È difficile anche concepire una squadra di hacker russi comandati da Putin: il web non si presta a una cavalcata, sia pure senza mezzi cingolati e artiglierie pesanti.  
Gli affari di Trump con Putin personalmente. Ma non si fa nulla per venirne a capo: un indirizzo, una sigla, uno specifico affare.
Tutta roba da servizi segreti: insinuare, diffondere voci e ipotesi. Ogni giorno una che superi (“ammazzi” nel gergo giornalistico angloamericano, la faccia dimenticare) la precedente. Ma diffusa dai maggiori media. Nel nome della difesa della libertà.
L’Italia ha vissuto questa stagione, da piazza Fontana in poi, dell’informazione dominata dalle “veline”. Una permeabilità attribuita alla debolezza della democrazia in Italia. Ma negli Usa?
Si intercetta anche liberamente Trump, che pure è il presidente degli Stati Uniti. E si diffonde attraverso giornali prescelti tutto ciò che ha detto. Non propriamente ciò che ha detto e non al dettaglio: si diffonde l’intercettazione con gli schemi del montaggio, per il maggiore effetto.
Si fa grande caso del giornalismo investigativo. Ma su Trump non si indaga, che pure dovrebbe essere facile. E poi nello stesso suo habitat naturale, gli Usa, il giornalismo investigativo è, nove casi su dieci, di parte, anonima. Di interessi concorrenti, e di servizi segreti e polizie.
Tutto ciò fa parte della democrazia e ne è anzi il meccanismo principale? La democrazia sarebbe allora infetta – dalla polis, che Canfora ha smascherato, in poi. E la politica hobbesiana, l’opinione  pubblica hobbesiana, la democrazia un residuo. O un’esca e un tranello.

Il mercato delle intercettazioni

Le intercettazioni si sa che sono fatte da corpi di polizia, che poi se  le “vendono”, a Procure e giornali, per i motivi più vari. Da almeno “La strage di Stato”, 1974, se non prima. Nessun cronista giudiziario è stato mai trovato in colpa, per essersi inventato le sue rivelazioni.
Questo è un fatto, ed è noto a tutti, più o meno. Ma non si rileva. Per un’ipocrisia generalizzata, dei cronisti giudiziari non solo, che ne beneficiano, ma degli organi di polizia o di giustizia concorrenti, e delle stesse vittime. E questo è inquietante.
Le intercettazioni hanno una funzione contro l’illegalità (corruzione, malaffare, delitti)? Minima. Sono un mercato politico? È possibile. Ma è oscuro. Colpisce nascondendosi, e per motivi non dichiarati.

Il vero Heidegger è a fumetti

In copertina un paio di scarponi, e un mulino a vento. In prima pagina “Che cos’è è?” Con la considerazione: è la parola più usata, è difficile parlare, scrivere, pensare senza di essa, ma pochi se lo chiedono. Pochi si chiedono qualcosa, in verità. Ma il nocciolo di Heidegger è questo: per lui questa omissione è astonishing - Heidegger farebbe il pastore della Meraviglia nel presepe. Il Filosofo Bino, come colui che rifece la Grecia. O Trino, mettendo nel conto sant’Agostino, benché disprezzi il latino come lingua filosofica. 
Heidegger non ha molto credito in inglese. “Sprazzi di sorprendente ignoranza, distorsione senza scrupoli e quello che benevolmente si descriverà come ciarlatanismo” gli addebita Alfred J. Ayer. “L’ultimo spiritato barlume di filosofia romantica tedesca” gli trova Roger Scruton, nei momenti buoni - perché “la sua opera più importante, «Essere e tempo», è formidabilmente difficile, a meno che non sia puro nonsenso, nel quale caso è ridicolmente facile”. Ma viene molto bene in inglese, perfino conseguente.
Ci sono più Heidegger. Un fenomenologo, un post-strutturalista, un proto-decostruzionista, uno scolastico, un agostiniano in petto, un teologo, per prima fu discusso dai teologi, un mistico, un ruralista un po’ reazionario. E “uno privato, per lo più celato alla vista”, Collins poteva scrivere nel 2013, prima dei “Quaderni neri”. Ma l’inglese ha una formidabile capacità di assimilarsene la terminologia - o Jeff Colins, che pure non è filosofo ma un professore di storia dell’Arte. Si scorre il volume senza dover fare mai il peso alla traduzione con l’originale.
Forse è anche l’effetto del graphic thinking, bizzarro: come se Heidegger si semplificasse e chiarisse – senza che si appiattisca, a ogni evidenza.Le subordinate convogliando nelle didascalie, le affermazioni e gli assiomi evidenziando nella nuovlette. La disposizione della pagina doppiando la consecutio logica. Nulla di nuovo, ma il papiro o incunabolo Heidegger viene srotolato, perfino gradevole e semplice – è l’idea dell’editore Richard Appignanesi, applicata ormai a una congrua serie, scientifica e filosofica, di “guide” semplice, brilanti, esaurienti.
Heidegger c’è tutto. Ossimorico – “luce oscurante”, “la verità è svelamento, quindi la verità è un mistero”, “pensare è una sedzuione dl anscondere”, “una rappresenta ione dell’essere, in parole o altro, è non essere”. Anti-tecnica. Agro-pastorale. Metafisico – l’ultimo dei metafisici, attardato su essenze, origini, verità, i temi dela metafisica. Mitico – costruttore del mito dell’essere. Nazionalista non ambiguo.
Jeff Collins-Howard Selima, Introducing Heidegger. A graphic Guide, Icon Books, pp. 176, ill.
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venerdì 19 maggio 2017

Secondi pensieri - 307

zeulig

Definizione – Esclude, più che arricchire. È necessaria per dare senso al discorso, ma delimita, e per ciò stesso indefinisce. La designazione si vorrebbe aperta il più possibile, più che ristretta, limitata, diminuita. Un mondo definito eviterebbe il pensiero. Si assesta (precisa, sistematizza) per via di definizioni, non si procede.

Europa – Si può anche compitarla col nazionalismo germanico. “Dallo stato amorfo della cultura sorgerà la vera forma Civiltà… Ed è la Germania, in quando centrale e ultima nazione dell’Occidente, che introdurrà lo stadio finale della Civiltà in Europa, coronando il possente edificio”, Oswald Spengler. “La Germania ha un posto unico e un destino unico. È il centro dell’Europa.., dove il destino della terra viene deciso”, Heidegger – ma anche l’ “impolitico” Th. Mann. Solo che: l’Europa è la Germania, ma che cos’è l’Europa, ora e in futuro, nel mondo globale?

Guerra - “Non sono affatto convinto che questa guerra sia finita”, Lernet-Holenia fa dire al protagonista di “Lo Stendardo” della guerra del ‘14-‘18, di cui lo scrittore è il celebratore. “Sta continuando in realtà. Sta continuando in tutti quelli che l’hanno combattuta”. 
Ci sono guerre che finiscono con l’armistizio e la pace e altre che continuano oltre. Per un senso di giustizia? Di orgoglio non domato? Per interessi di parte? È il caso della prima e della seconda guerra mondiale. La seconda si è chiusa definitivamente, con ignominia dello sconfitto, senza residui – non all’apparenza. Ma era una rivincita, quella definitiva. Le guerre vanno combattute due volte, lo sconfitto vuole la rivincita.  

Heidegger nazista – Lo era, ma non uno coraggioso. In politica come nella vita privata – dei tanti amori – e nella carriera. Servì in guerra tre brevi periodi: dieci settimane nel 1914, non al fronte e poi in licenza, “per motivi di salute” che non aveva, e quattro mesi sul fronte occidentale dal settembre 1918, quando già si negoziava l’armistizio. Ci mancò poco che negasse la sua storia con Hannah Arendt – ma gli era utile per la riabilitazione, in America poi. Abiurò il cattolicesimo nel gennaio 1919 per compiacere la moglie Elfride, che non glielo chiedeva (e non gli era fedele) – e  forse il professor Husserl, di cui doveva diventare l’assistente, per quattro anni.
Ritorna la questione con costernazione, come se un filosofo non potesse essere nazista. È il nazismo che va ripensato, l’abiura non basta.
L’abiura è stata peraltro di pochi. Non di Heidegger, malgrado le insistenze e il bisogno di riabilitazione. Che alla liberazione trovò opportuno denunciare invece la sconfitta. E in termini di speranza: “Tutti parlano di tramonto, la verità è che noi tedeschi non possiamo sparire perché non siamo ancora apparsi. Dobbiamo marciare attraverso la notte”. E di lotta: “La possibilità di indietreggiare non esiste più”. Sapeva cioè andare controcorrente, il coraggio non gli mancava. Nelle cose in cui credeva. Opportunista per le altre. Compresa la religione familiare alla quale era devoto e devotissimo, alla memoria delle pie pratiche in famiglia e alla cosa in sé in tutti i suoi simboli.
Opportunista è peggio o meglio che nazista?

Nazionalista più che antisemita. C’è una Germania assertiva, trionfante, in lui fino al 1944, fino alla guerra ancora vittoriosa, e onnicomprensiva se non onnivora. Diventa dopo la guerra una Germania “a venire”: del non ancora, della promessa, dell’attesa, vicina-e-lontana o della prossimità, della “sorgente” da ricercare. Della riserva che presiederà all’intervista a futura memoria concordata con “Der Spiegel”.

Matrimonio – È una smobilitazione? Uno stato pacifico dopo un fronte di guerra? Secondo Kierkegaard sì, che si era fidanzato e aveva rotto il fidanzamento – derivandone una lunga serie di riflessioni. Ci ritorna su anche in “Stadi sul cammino della vita”, una spigolosa confessione articolata due anni dopo il successo nel 1843 di “Aut-aut” e di “Timore e tremore”. In una costruzione complicata: la terza parte degli “Stadi” intitola “Colpevole? Non colpevole? Una storia di passione. Esperimento psicologico di Frater Taciturns”, e all’interno di essa, attribuita allo pseudonimo “Taciturnus”, un “Diario di quidam”, un qualcuno. La doppia o tripla protezione per lamentare in realtà la propria incapacità di amare, al coperto peraltro della “natura” – così spiega alla p. 326 della edizione italiana: “Può sposarsi, un soldato di frontiera ? Può, spiritualmente parlando, permettersi di sposarsi, un soldato di frontiera, un avamposto che lotta giorno e notte non solo contro i Tartari e gli Sciiti, ma anche contro le orde selvagge di un’innata tristezza; un avamposto che, anche quando non combatte giorno e notte, anche quando riesce a vivere in pace per lungo tempo, non sa mai tuttavia quando ricomincerà la guerra, dato che neppure osa chiamare ‘armistizio’ quella pausa? La mia natura è tristezza…”.

Realismo – È il backshish del marinaio di Rilke, “Riguardo il Poeta”, che Heidegger porta a esempio in “Perché i poeti? “(1946), l’unico suo pensiero possibile, quello della mancia? Non la barca, la voga, il sudore, il pericolo magari. Il racconto è noto: su un veliero Rilke guarda, in una tratta controcorrente, i vogatori all’opera, dall’isola di File al sistema di dighe. “Sedici”, racconta, “se ricordo bene, quattro su ogni fila, due al remo destro due al sinistro”. Tutti inerti: “Di tanto in tanto si poteva catturare l’attenzione dell’uno o dell’altro, ma i loro occhi non dicevano nulla”. E se qualcuno mostra a tratti un guizzo di pensiero, una preoccupazione, un’attesa, subito la rimuove, per ritornare “alla solita stupida faccia da backshish, con la sua sciocca prontezza ad assumere qualsiasi umiliante contorsione di ringraziamento richiesta”.
La realtà è il pensiero, il pregiudizio, la categoria mentale, la superficialità dell’osservatore? 

Sartre “L’essere e il nulla” passò all’uscita per una lunga glossa a “Essere e tempo”. La cui lettura Sartre aveva fatto nei nove mesi di internamento a Nancy nel 1940 come prigioniero di guerra, prima della creazione di Vichy.

Teologia – Torna istoricizzata. Torna col papa argentino alla demitizzazione operata da Bultman: Le storie bibliche offrivano miti buoni per l’umanità degli anni di Cristo, quel mondo non c’è più, quei miti andrebbero rimossi per rivelare\elaborare una teologia possibile oggi. La teologia istoricizzata. C’è un Dio per ogni epoca? Magari laico?

Traduzione – Si moltiplicano le traduzioni di Heidegger nell’intento di penetrarne i gerghi, senza peraltro eliminare la fastidiosa e inutile parentesi del riferimento all’originale, che serve a uno scarico di coscienza, ma complica la lettura e non contribuisce a nulla, se non a confondere il lettore. Un po’ alla francese, bisogna dire: anche Oltralpe il complesso è forte di non poter afferrare la pienezza, la complessità, la finezza, eccetera, del pensiero tedesco. Al punto da – nel caso di Heidegger – confinarlo all’esoterico. Mentre è traducibilissimo in inglese, o almeno senza complessi.
Viene voglia di attribuire all’inglese una straordinaria versatilità. O alle antiche parentele linguistiche su base sassone. O alla mancanza di complessi, di traduttori e fruitori in inglese.
Il fatto è che l’inglese i gerghi heideggeriani sa rendere in tutte le pieghe. Fino all’inafferrabile das Geviert, che è semplice, Fourfold. Anche in italiano la parola c’è, ed è pure semplice, il Quadruplice? Ma l’italiano è timido e si squalifica, in presenza del tedesco poi.

zeulig@antiit.eu 

Assegni a vuoto degli anni Folli

Il passato che non passa. Un racconto verità dei problemi che lo scrittore ebbe a tornare nella patria potestà, nei riguardi della figlia, dopo l’alcolismo e le terribili turobolenze di e con Zelda. È il ritorno anche a Parigi dopo gli anni Folli, o l’Età del Jazz, o gli anni Ruggenti: bella e languida la città, deserti e equivoci i ritrovi, tra ubriachezze moleste e assegni a vuoto.
Due raccolte di tristezze. In traduzione “Babilonia” si accompagna a “Una famiglia nel vento”, la famiglia cupa della provincia americana. L’edizioncina Penguin alla “Decade perduta”, poche righe sull’autore smarrito che ritrova New York dopo dieci anni. E a “Il vaso di cristallo”, un soprammobile sulla credenza, regalo di nozze portajella. Quest’aultima, che si direbbe una storia di scongiuri (“provoca” tragedie atroci), invece si solennizza come “fato”: “«Vedi, io sono il fato», gridava, «e sono più forte dei tuoi meschini progetti; e sono l’esito finale dele cose e sono differente dai tuoi piccoli sogni, e sono la fuga del tempo e la fine della bellezza e il desiderio inappagato…»”.
Con l’uscita dai diritti si moltiplicano le riedizioni di Fitzgerald. Che, certo, va rivisto. Ma in che senso? La sua storia personale è la migliore.
Francis Scott Fitzgerald, Babilonia rivisitata, Mattioli 1885, pp. 79 € 9,90
F.S.Fitzgerald, Babylon revisited, Penguin, pp.76 € 3

giovedì 18 maggio 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (326)

Giuseppe Leuzzi

Michele Panetta, 31 anni, è arrestato a Reggio Calabria per una lunga serie di reati: porto illegale di armi, gambizzazione di un giovane, gestione dello spaccio di droga, associazione  mafiosa. Per i quali evidentemente era noto da tempo a Questura e Procura. Ma viene arrestato quando si fa attivista e candidato consigliere comunale dei 5 Stelle. Ci vuole sempre la politica per smuovere l’apparato repressivo.

Michele Panetta, arrestato per mafia, inalbera su facebook la lotta alla criminalità organizzata. È il primo dei suoi impegni di politico sul campo.

Il parroco di Isola Capo Rizzuto arrestato per mafia era intercettato dal 2005. Almeno dal 2005. E con lui presumibilmente il suo uomo di mano, il presidente della Misercordia. Bisognava aspettare dodici anni per bloccarne i crimini? Il tempo per loro di fare il giro dei politici. Con cui immortalarsi in foto ritratto. Giusto per gonfiare gli archivi.

L’11 settembre mafioso
La strage di Capaci è stata l’11 settembre mafioso. Una dimostrazione di forza, sorprendente, spettacolare, su terreno altrui. Con un seguito ancora spettacolare, ma in diminuzione e già in affanno, a via D’Amelio, e poi a Firenze e Milano. Un culmine, immaginifico, fastoso di crudeltà, a cui è seguito inevitabile, sia pure con lentezza, e fra altre stragi, il declino.
Stragi spettacolari erano state operate anche prima, basti quella di Dalla Chiesa, nel 1982, ma Capaci e D’Amelio sono stati un 11 settembre. Un picco che è l’inizio del declino.
La morfologia è comune anche nella genesi: nell’uso della mafia da parte dei politici, che l’hanno armata, così come l’integralismo mussulmano era stato curato e adoperato dagli Stati Uniti. E poi negli sviluppi successivi: le bombe a Milano, Firenze, Roma, e la repressione, estesa ma non radicale né mirata – con gli equivoci Provenzano e Messina Denaro, confidente forse l’uno, strano latitante il secondo. 
La mafia è come il terrorismo: prospera se può contare su connivenze e spazi liberi, si disintegra di fronte a una repressione decisa. Tra errori e colpi di coda, ma alla fine non sfugge: non si sfidano impuni le istituzioni, se le istituzioni esistono.
Hanno reagito le istituzioni dopo l’11 settembre mafioso? Si e no. Molta pulizia è stata fatta. Ma perché si dà la caccia a Matteo Messina Danaro? Cioè: perché non lo si prende, a Castelvetrano o a Palermo, dove si è rifugiato – non lontano, il mafioso è radicato, non può vivere fuori, e a spese di chi? 61 arresti, si dice, sono stati fatti di fiancheggiatori, ma questo non esalta la repressione, esalta il latitante. Che era e non era un mafioso alla Riina, ignorante e feroce.
Messina Denaro è latitante da quando aveva trent’anni. Leggeva, scriveva, e era amico e commensale di eccellenti signore di Palermo e dintorni. Era un confidente? Succede anche nel terrorismo, che molti che si potrebbero disinnescare o eliminare senza difficoltà, hanno spazio di agire.

La servitù della concisione
Alla Tonnara di Palmi il cameriere in pizzeria, che serve anche il pesce, è scettico: “Non si pescano nemmeno le alici da conservare per l’inverno”.
Il cliente si dà una spiegazione. Il cameriere è ignorante - non è pescatore? Ce l’ha col padrone? Vuole solo dire, onestamente, che la pesca è rara e difficile, che si pesca poco, che c’è poco pesce da pescare, che il più viene pescato dai pescherecci d’altura, tutti forestieri, molti stranieri, per lo più giapponesi?
La ragione è questa, tutti la sanno, ma il cameriere non la dice, la darà per intesa. La concisione non aiuta, che però è un abito mentale che non si dismette. Era la maniera d’intendersi delle società chiuse. Dove gli interlocutori hanno un patrimonio di conoscenze comuni. Si sono già spiegati sullo stesso argomento, magari indirettamente, attraverso parentele, conoscenze, frequentazioni. Ora spiega solo perché il Sud non si sa vendere. Anzi, volentieri collabora con chi vuole solo distruggerlo o tenerlo in soggezione, dando cioè per scontata una comunione di opinioni, proposti, sentimenti che invece non c’è, quando non c’è che avversione. Qualsiasi fustigatore del Sud trova al Sud collaboratori volenterosi.
Quando questi si fanno pagare è già un po’ meglio – se non altro sanno di che si tratta. 

Calabria
Houellebecq ha nel racconto “Lanzarote” l’“autoctono” in terra di turismo: “Perfettamente insensibile alla bellezza del suo quadro naturale, l’autoctono s’ingegna in generale a distruggerlo”.
Lanzarote è un’isola delle Canarie ma in Calabria il suo autoctono non avrebbe sfigurato.

Vi muoiono molti tedeschi. Alarico per primo, il re de Goti. Enrico VII, l’erede ribelle di Federico II, anch’egli vicino a Cosenza – dove però è stato sepolto, con tutti gli onori malgrado la ribellione, nel Duomo.

Di Alarico si sono perdute le tracce, che si tenta periodicamente di ritrovare nel letto del Busento, deviandolo ora a un’altezza ora  a un’altra. In realtà non facendo nulla. Se ne dà annuncio per sghignazzo, alle spalle del proponente, in genere un “professore”, cioè un insegnante. Ma questo la stampa nazionale non lo capisce: scherzare è proibito.

Si scioglie un consiglio comunale in Calabria, a Laureana, e il commissario prefettizio, Anna Manganelli, per prima cosa che fa? Sigilla il contatore a un vecchio convento francescano assegnato a una scuola di musica. I ragazzi non votano, ma i genitori e i maestri per chi devono votare? Poi dice che c’è il voto di scambio, anche per il contatore.

“Paulaner”, la birra tedesca, non dovrà il nome ai frati minimi di san Francesco da Paola, chiamati in Germania appunto Paulaner? Sì, il birrificio fu costruito quattro secoli fa a Monaco di Baviera dai frati Minimi del convento di Neudeck sull’Au. Ma non è una curiosità: c’è molto snobismo nei mondi arretrati.

Swinburne, “Viaggio in Calabria”, raccoglie questo aneddoto: Ceronda, tiranno di Thurium, avendo stabilito la pena di morte contro chiunque entrasse armato nel Senato, ed essendosi accorto che per la fretta proprio lui aveva portato una spada in assemblea, se la immerse nel petto”. Improbabile ma verosimile, la presunzione è d’obbligo.
Thurium è il nome latino della città magno greca di Thurii, presso Sibari.

“In nessun paese si può incontrare un paesaggio più vivo e vario”, è altra testimonianza di Swinburne. E ancora:  “Nessuna regione ha maggior numero di cittadine e di villaggi, ha una più grande varietà di colture, ed è coperta di più belle foreste del sud della Calabria”. Che oggi è un deserto umano, seppure forestato.

Si deve a un monsignor Rodotà, bibliotecario vaticano ai primi del Settecento, poi cardinale, il rilancio del culto greco tra gli Albanesi immigrati a metà Quattrocento con Giorgio Castriota. Pietro Pompilio Rodotà, professore di lingua greca alla Biblioteca Vaticana, ne fa la celebrazione nel 1760, col volume “Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia”. Dedicato “all’eminentiss., e reverendiss. Principe il sig. card. Francesco Corrado di Rodt (sic), vescovo di Costanza, principe di R.S.I., signore d’Auggia Ricca, ed Oeninga, Balì, e protettore dell’ordine gerosolimitano”.
  
La categoria “Film ambientati in Calabria” è probabilmente la più spoglia nella ripartizione regionale di wikipedia. Poco più di una dozzina di film – quindici per l’esattezza, ma comprendendo  “Il 7 e l’8” di Ficarra e Picone, che sono siciliani.

I film “ambientati in Calabria” visti sono tutti spaventosi: vendette e mafie. Eccetto quello di Comencini trent’anni fa, “Un ragazzo di Calabria”, che però è calabrese per caso, per essere tratto da un racconto di Demetrio Casile. E quello recente di Alba Rohrwacher, “Corpo celeste”, che però usa Reggio e lo Stretto come sfondo, celestiale-infernale.

Nessuno dei quindici film “ambientati in Calabria” è opera di regista calabrese. “Aspromonte”, su soggetto di Tonino Perna, il parlamentare ex Pci allora presidente del Parco, è un film pieno di belle vedute malgrado il soggetto drammatico (un rapimento di persona), di Hedy Krissane, tunisino. “A ciambra”, il ritaglio, il rimasuglio, protagonista Pio Amato, un ragazzino rom di Gioia Tauro (già tra i protagonisti di “Mediterranea”, dello stesso regista, 2015), ambientato tra Gioia Marina e la Tonnara di Palmi, è di Jonas Carpignano, che è italiano ma è nato e cresciuto a New York, e ha produttori americani (tra gli altri Martin Scorsese).  


Ambientati in Calabria, anche se girati fuori, sono il Checco Zalone “Forestale” in “Quo vado?”, il maggior successo di sempre. E “Cetto La Qualunque”, l’onorevole di Albanese. Non onorevoli.

leuzzi@antiit.eu

L'amore nell’età del disamore

Un racconto a prima vista improbabile, a riassumerlo: l’amore che si degrada, anche tra padri e figli, nel tempo, nella convivenza, o sboccia senza ragione. Che però, a rifletterci, è l’esperienza comune. Drammatizzata naturalmente, come eccezione, fuori dalla routine. Nei protagonisti caratterizzati, il padre-nonno, la vicina sventata, il marito della vicina problematico, e in quelli che non hanno un ruolo, se non scontato.
Un drammone corposo, che lascia traccia, più d’una. Svelto, alla maniera di Amelio, non melodrammatico, ma per vari aspetti epocale, della famiglia del Millennio, nel non-luogo metropolitano. Tra affanni, distrazioni, malattie, anche mentali, e lampi di affabilità e simpatia, gli stessi della vita di tutti. Nel frastuono.
Il titolo è antifrastico – il soggetto originale lo scrittore Lorenzo Marone aveva intitolato “La tentazione di essere felici”. Di una vicenda grigia, e anzi cupa. Dei rapporti padri-figli – figli adulti: di querimonie, senza slancio. E di amori alla follia. Compreso quello che il vecchio padre, ancora capace di sentimenti, stabilisce d’istinto con un’occasionale sbadata vicina. Sullo sfondo di una Napoli quale è, prototipo della metropoli, veloce, fredda, immersa nel suo cupo lavorerio”, sia pure solo vagare rumoroso in scooter.
Una prova superba di Carpentieri, con la maestria, di dizione e di portamento, di chi domina le scene. Una conferma di maturità e spessore - fra le tante attrici giovani da frizzi e guizzi, da telenovela – di Micaela Ramazzotti, si capisce che lavori molto ultimamemnte, che padroneggia il registro drammatico e quello svaporato, fino alla pronuncia blesa: una Monica Vitti. Di sensibilità per un irriconoscibile Elio Germano: poche inquadrature, ma bastanti a farne dimenticare la piattezza televisiva. O con Amelio gli attori “rendono” – Fantastichini, Volonté, Lo Verso, Placido, Gifuni, Rossi Stuart.
Gianni Amelio, La tenerezza


mercoledì 17 maggio 2017

Appalti, fisco, abusi (104)

Sei giorni di lavorazione per il rinnovo o il rilascio della carta d’identità. Che fino a ieri si aveva a vista, alla richiesta, bastava la fotografia aggiornata. Ma ora la carta è elettronica. La “rivoluzione digitale” è un rimedio contro la disoccupazione.

Il Comune di Roma possiede circa 40 mila (quanti esattamente non lo sa) alloggi, che dà in comodato, in genere, o ad affitto irrisorio a associazioni, enti, onlus, a scopo naturalmente benefico, e ai vari gruppi e gruppetti politici, oltre che agli amici e ai parenti. Il fatto è notorio. Ma solo per li il sindacato degli ambulanti la Corte dei Conti ha accertato e certificato il danno erariale: l’affitto di favore costa esattamente alle casse pubbliche 492 mila euro. Non si sa se all’anno, o cumulativamente, a partire da chissà quando. E quanto costa la Corte dei Conti?.

Il governo autorizza le chiamate quotidiane importune – televendite - dei call center. Il Garante della Privacy Soro protesta, ma solo per gli orari – lui farà la pennichella? Ognuno deve poter essere assediato da una mezza dozzina di chiamate al giorno. Tutti i suoi dati, abbonamento a questo o quell’operatore telefonico, contratti con questo quell’operatore dell’energia, profili di consumatore (solvibilità, volumi, periodicità….), recapiti, devono essere pubblici. E in più deve pagare il Garante della Privacy.

Si aderisca a una proposta contrattuale via call center: è l’utente che fa una proposta di contratto, non l’azienda. L’intermediario è il procuratore del’utente, non dell’azienda per conto della quale ha stabilito il contatto e approntato, alla solita maniera raffazzonata e incomprensibile, la “vostra” proposta di contratto. Nella patria del diritto.

L’utente che abbia aderito a una proposta di contratto telefonica (abbia “formulato una proposta di contratto” secondo il diritto al rovescio delle Authority), ha quattordici giorni per recedere, dall’“accettazione” della “sua proposta” da parte della compagnia di servizi. I quattordici giorni decorrono dalla data di comunicazione scritta dell’“accettazione”. Che arriverà senza timbro postale, con la sola indicazione della consegna della missiva al vettore da parte della compagnia “accettante”. In tempo però: due o tre giorni prima della scadenza.

Il mercato libero è un tale scandalo che sembra impossibile. Invece esiste, domina, è confermato da leggi e regolamenti, favorito dalle Autorità di settore, non sanzionato dai giudici né dalle polizie, obbligatorio per tutti fra un anno - forse due, il legislatore è generoso con gli utenti.
Le Autorità amministrative di settore, istituite dal governo Prodi del 1996, una dozzina, hanno il compito di disciplinare il mercato liberalizzato, nei settori di competenza, nell’interesse degli utenti o consumatori. Sulla carta.

Si moltiplicano a Roma i limiti di velocità di 30 kmh. Si dice per la sicurezza, nelle tratte dove i pini o altre piante ornamentali creano dossi e  avvallamenti. Di fatto nei luoghi dove materialmente è impossibile, prima che inutile, mantenere il limite: vaste discese, e le autostrade di accesso-uscita dalla città, Colombo, Aurelia, Salaria, Pontina. I limiti servono alle multe, costosissime – in soldi e in punti. 

La giustizia appiccicosa di Milano

Milano, di cui Sky ripropone la mielosa “Mani Pulite”, è la capitale del giustizialismo e non ha mai risolto un caso. Non piazza Fontana né il delitto Calabresi, malgrado le condanne. Non la corruzione, che anzi con Mani Pulite ha aperto al “mobiliere Aiazzone” del pubblicitario Berlusconi. Nemmeno uno dei tanti conflitti d’interesse dell’invidiatissimo Berlusconi, a rifletterci. Non le ruberie di Stato, ancora con l’Expo. Abbatte i governi e non si sa perché.
Giornalismo investigativo? Da Cederna in poi il tiro contro le istituzioni è costante e feroce. Non dell’informazione, che è sempre partigiana, di questo o quell’interesse. Ipocritamente, cioè non dichiaratamente. Ma a che fine? Non del buongoverno. Di cui Milano non è esempio, anche se si compiace molto di se stessa. Si combatte un potentato a favore di un altro, e su informazioni, indicazioni, delazioni, di un altro. Un appalto a favore di un altro. Un immobiliarista a favore di un altro. Una banca o un banchiere o un azionista a favore di un altro.

Che squallore, il 1993

Persistente la miniserie dà la sensazione, dall’inizio alla fine, di canzonatura. Forse involontaria, è evidente che vuole essere una celebrazione. Ma si ripercorrono gli eventi di venticinque anni fa con fastidio. Sapendoli ipocriti nei suoi “autori”, dai giudici e i giornali in giù. E semmani mirati a liberare la corruzione – sicuramente nei suoi compiaciuti comprimari, mediatici, d’affari, finanziari: la corruzione diventa cl 1993 non più eccezionale, dai politici che ne beficiavano considerata comunque ignominiosa, ma generale e dovuta.
Chiunque abbia l’età sa che non c’è paragone tra la Prima e la Seconda Repubblica, una vergognosa pastetta, a partire dalle leggi elettorali, e quindi dal voto, completamente svuotato. Questo si vedeva, si fiutava, all’epoca, che i processi per corruzione fiorissero nella piazza più corrotta, Milano, a partire dal palazzo di Giustizia - seppure a opera di giudici “napoletani”, cioè meridionali, in clima di leghismo (il leghismo viene prima e non in conseguenza di “Mani Pulite”). Ma di questo non c’è traccia in “1993” – nemmeno dei giudici, non hanno accento (il leghismo poi “non esiste”).   
“Mani Pulite”, al dunque, sarà stata la denuncia per corruzione da parte dell’imprenditore corrotto che ha perso l’asta e si vendica, il tipo “muoia Sansone con tutti i filistei, tanto poi mi rifaccio”. Ma se ne ebbe subito, appunto nel 1993, ampia indicazione, trascurando la presunta pulizia i “corrotti più corrotti” della Prima Repubblica. Berlusconi ne fu l’esito – ma questo è quello che in tre ore non si dice.
La miniserie non dice nulla di nuovo, rimesta la solita frittata. Si ispira, si dice, a James Ellroy, “American Tabloid”, che però fa esattamente il contrario, fa vedere ciò che veniva nascosto.  E non ha altri richiami, girata com’è in fretta, in interni. Questo non si può rimproverare, non è una serie d’ambiente. Ma la politica, la storia? Chi erano per esempio quelli delle monetine a Craxi? Non molti, mobilitati da due sezioni del Pci e da Leoluca Orlando, allora giustiziere con la Rete. Neppure si dice, malgardo molto minutaggio, chi è Berlusconi – Dell’Utri-“Lorenzo Notte” è più ridicolo che inquietante. Tutto molto corretto, praticamente inutile.
C’era dello sporco in “Mani Pulite”, ma la miniserie di Lorenzo Mieli se ne guarda, resta all’oleografia. Orlando, per esempio, che ottimo soggetto della transizione, del 1993! Uno che nel 1990 si voleva segretario della Dc, l’anno dopo, escluso dalla Dc dalla carica di sindaco di Palermo, fondava il partito anti-Dc della Rete, mentre metteva nel mirino di Riina Giovanni Falcone, e nel 1993 s’intronava sindaco di Palermo col 75 per cento dei voti, un’elezione “bulgara” (in due sezioni col 100 per cento, nemmeno una scheda contraria o una nulla, sbagliata, per caso). Ma “non disturbare il manovratore” sembra la divisa del serial. E non si può nemmeno incolpare la Rai, si paga per vedere “1993”.
Giuseppe Gagliardi, 1993

martedì 16 maggio 2017

Problemi di base online - 329

spock

Si fanno più violenze sul web o nella Bibbia?

E vi si dicono più bugie?

Fake non verrà da fuck, cosa dice il sanscrito?

Perché la rete sarebbe virtuale?

E Grillo allora?

Sono virtuali le innumerevoli scopate, per esempio, dei siti porno?

E i famosi hacker russi – o forse cinesi?

Non sarà il web la rete del complotto?

spock@antiit.eu

La vera riforma è contro la speculazione sul debito

astolfo

Non c’è salvezza senza la riduzione del debito. Questo sito lo ha spiegato profusamente
Ma è l’evidenza.
Il debito cresce sul debito. È la storia dell’Italia degli ultimi venticinque anni, degli attivi primari - il bilancio, senza gli interessi sul debito, sarebbe ogni anno attivo e non passivo.  
Il debito è la sola riforma che l’Italia non ha fatto. È quella che l’avrebbe liberata e rilanciata. Ma non si fa. Non se ne parla nemmeno. Se non per vendita dei cespiti pubblici, che però non risolve, si invoca giusto per ragioni di bottega, per fare affari.
Il debito dà da vivere alla speculazione, e questa è un ragione del silenzio - l’informazione economica è malsana. Più dà da vivere un debito “all’italiana”, solido ma ricattabile, con profluvi di B e sottovalutazioni. Ma non è una buona ragione per disinteressarsene. Non per la politica. E ci sono pochi dubbi che una politica centrata sulla riduzione del debito, e quindi della tassazione, incontrerebbe più di quella antieuropea o antiimmigrati. Perché non si fa è un mistero. Paura di scomodare gli speculatori?  
Le tasse bruciano risorse
Moltiplicare le tasse per ridurre il debito è una sciocchezza e un delitto: con le tasse il debito si moltiplica e non si riduce. Lo ha fatto il professor Monti, e quindi passa in cavalleria, ma sovverte  ogni principio della tassazione. In presenza di uno Stato taccagno e micragnoso, che non paga le farmacie, gli ospedali, gli appaltatori, i fornitori, e anche gli stipendi, non dà più aumenti. Aumentare le tasse e aumentare il debito in queste condizioni, solo per pagare gli interessi,  è distruggere ricchezza: le tasse aumentano in  numero e percentuale, la base imponibile si contrae. Ora si tartassa la casa, di cui non è facile liberarsi, e i servizi civici minimi, e poi?
Il fenomeno del disavanzo incomprimibile con la tassazione non è solo italiano, ed è noto. Lo
hanno spiegato una dozzina d’anni fa Vito Tanzi, italiano d’America, allora al Fondo Monetario internazionale, vice-ministro di Tremonti all’Economia, e Ludger Schuknecht, ora consigliere principe del ministro tedesco delle Finanze Schaüble, nello studio “La spesa pubblica nel XXmo secolo”. I due studiosi documentavano che la crescita abnorme del debito pubblico nei paesi industriali nell’ultimo terzo del secolo scorso non nasceva da un allargamento del welfare, del sistema di protezione sociale, che non ne beneficiava, se non in misura irrisoria. A un certo punto il debito si autoriproduce, senza alcun effetto virtuoso o produttivo.
Divoratore di ricchezza
Il debito in sé non è un peccato, non sempre, entro limiti, il debito pubblico lo è. Uno studio recente di Victor Shih, docente della School of International Relations and Pacific Studies di San Diego in California, ha analizzato l’effetto di un debito importante sull’economia in questi termini, nel caso della Cina. Alla Cina viene imputato nel 2014 (a calcolo, essendo lo yuan inconvertibile) un debito totale pari al 282 per cento del pil. Di questo solo un quinto, pari al 55 per cento, è il debito pubblico propriamente inteso. Il debito delle famiglie è il 38 per cento del pil, quello delle istituzioni finanziarie il 65 per cento, quello delle imprese il 125 per cento. Il calcolo è del McKinsey Global Institute. In termini assoluti, il debito totale sarebbe quadruplicato tra il 2007 e il 2014, passando da 7.400 a 28.200 miliardi di dollari. Favorito da condizioni favorevoli di credito, che cresce a un ritmo doppio rispetto a quello del pil. Come negli Usa negli anni Duemila prima del crac del 2007, ci si indebita in Cina per giocare in Borsa, per un ammontare che il World Gold Council calcolava a metà maggio in 1.670 miliardi di yuan.
Il debito serve a oliare la macchina della produzione - del lavoro, del reddito. Ma bisogna sapere a che costo. Sempre in Cina, per fare aggio sullo studio americano, nel 2010 gli interessi da pagare sul debito hanno assorbito l’80 per cento del valore aggiunto nominale, dell’incremento nominale del pil. Nel 2012 quasi il 100 per cento. Nel 2013 il 140 per cento. Nel 2014 il 200 per cento. Nel 2014 il servizio del debito si è mangiato il doppio della crescita pur elevata del pil – il 7 per cento.
Il rapporto debito\pil è una mannaia. Automatica a ripetizione: con un debito elevato il suo costo si mangia il pil. La produzione, la produttività, e anche le riserve che fossero state accumulate (il patrimonio). Il debito incontrollato, con servizio del debito elevato, mette anche il difficoltà le banche, accrescendo inevitabilmente le sofferenze creditizie. E castra gli enti locali con i relativi servizi, restringendone bloccandone la capacità di finanziarsi – che è il pattern degli ultimi anni, orami quasi un ventennio. Con effetti catastrofici sull’opinione e il voto, poiché a essi è demandata l’assistenza.

La bellezza contro la mafia

L’inseguimento per i cordoli dello Stagnone di Mozia – o è alle Saline di Trapani? - resterà negli annali. E quello tra i vicoli della casbah – Trapani? Marsala?  Su un soggetto di maniera, la solita cricca mafiosa, di silenzi, riserve o complicità mute, ricatti, e la guerra intestina inevitabile, una sceneggiatura diversa. Di codici di vita infine realistici, toni sommessi, incertezze, lentezze, sconfitte. Per una regia e una produzione straordinarie.
Trapani negli anni 1970 è ricostruita al dettaglio, compresi i vecchi manifesti politici. Con una ricchezza eccezionale di ambientazioni: ogni scena, ogni inquadratura diversa. E quasi tutte in esterni. Perfino spropositato il gran numero di auto d’epoca, di uso comune, non quela da collezione – anche nella trasferta in Canada. Con le mattanze dordinanza, ma anche con vera suspense. Una volta stabilito, alla primissima scena, che Maltese ha il tiro mortale.

Presentato come “un omaggio a «La piovra»”, ne è l’opposto – è l’opposto del “tutto mafia”. Un monumento, anche, alla Sicilia: Degli Esposti ci ha fatto la mano, dopo la serie immortale dei Montalbano. Tavarelli, regista di cinema oltre che di molte miniserie tv, si era già cimentato con l’isola, con “Il giovane Montabano”, e ne moltiplica gli effetti, in interni e in esterni, quasi una pirotecnia..
Gianluca Maria Tavarelli, Maltese, il romanzo del commissario

lunedì 15 maggio 2017

È la Germania pura e dura

Una sinistra, Verdi compresi, che passa da quasi il 55 per cento a poco più del 40 nel Nord Reno Vestfalia dice una Germania delusa.
Delusa dalle sinistre, si penserebbe delusa dalle (mancate) politiche sociali. E invece no, è una Germania risentita. Quella che una settimana fa, dopo le presidenziali in Francia, si chiedeva allarmata: “Quanto ci costerà questo Macron?” – quella che pensa, e viene portata a pensare, che gli italiani la borseggino, in aggiunta ai greci, e anche i francesi. Risentita con l’Europa.
Il risentimento non va in Germania ai movimenti populisti, Pirati e AfD, che stanno fermi al 7 per cento, complessivo, ma ai partiti tradizionali. Il quasi 13 per cento perso dalla sinistra è andato al partito di Angela Merkel e ai Liberali, i prossimi alleati del nuovo cancellierato. Il vero populismo in Germania è con la cancelliera. Sarà dura per il resto dell’Europa: è un populismo prussiano, solido se non organizzato.
La Brexit è peraltro destinata a indurire la Germania, a mano a mano che se ne prenderà coscienza. Berlino non ha più la sponda nordica di Londra, ed è ora alla mercè dei latini - la Francia è eminentemente latina oltre Reno: l’Europa va quindi controllata e regolata. Già se ne vedono i segni, a partire dall’Europa a più velocità, che è proposta per escludere e non per includere, come mostra di credere il governo italiano. Inoltre, Londra aveva portato la Germania di Schroeder e di Merkel, degli ultimi venti anni, a un minimo di liberalismo, dei capitali, degli affari, dei beni importati, dalla arance alle macchine utensili, che sono tornati in fretta sotto occhiuta vigilanza.

Il mondo com'è (304)

astolfo

Curdi – La guerra contro l’Is, nella quale si sono impegnati con costanza, li premierà come nazione? Sono – erano – una delle poche nazionalità stabilizzate del Medio Oriente, in contiguità territoriale, linguistica, religiosa, culturale, ma sono stati sacrificati dagli accordi di pace di Versailles nel 1919-1920, al momento di definire l’eredità dello sconfitto e disciolto impero ottomano, agli interessi coloniali di Francia Gran Bretagna. Si possono dire l’unica nazionalità nel Medio Oriente, a fronte dei conglomerati di popolazioni, tribù e fedi che sono l’Iraq e la Siria, e lo stesso Iran, ma uscirono dai trattati di pace senza un Stato. Divisi tra Iran, Iraq, Siria e Turchia.
Hanno una storia ma non hanno un paese. Iraniani e semiti al momento della conquista araba, hanno mantenuto la loro diversità, ma in tribalismo meta politico. Il “feroce Saladino”, che conquistò Gerusalemme e Antiochia e le difese contro la terza Crociata, di Riccardo Cuor di Leone, fu sultano curdo dell’Egitto, della Siria e dello Heggiaz, l’attuale Arabia Saudita, con i luoghi sacri islamici - detto in realtà il Legislatore, e rimasto nella storia, anche nel Limbo di Dante, come sovrano saggio e generoso. Lo stesso quando passarono sotto l’impero ottomano.
Dentro l’impero ottomano, così come a Est dentro l’impero persiano, avevano mantenuto sempre uno statuto di autonomia. A Sèvres, nel trattato di pace, 1920, la Turchia accettò la formazione di un Curdistan indipendente. Ma tre anni dopo, nel trattato di Losanna, l’indipendenza venne ridotta ad autonomia amministrativa, e solo per i curdi dell’Iraq. I curdi si ribellarono, ma prima la Gran Bretagna, poi i nuovi governi turco e iracheno li schiacciarono, e le promesse di autonomia amministrativa furono dimenticate. .
La guerriglia è stata da allora endemica in Iraq, e a tratti attiva in Turchia. Qui attorno al Pkk, una formazione politica moderna, il partito dei Lavoratori del Kurdistan, fondato e gestito da Abdullah Ocalan, vecchio comunista. In Iraq attorno alla famiglia Barzani. In Siria, dove i curdi, così come in Iran, si erano quasi integrati, pacificamente, lo scontro ne ha rafforzato l’identità etnica, e ora si parla di uno statuto di autonomia, in una futura Siria semi-federale..

Eurasia – Decolla a Pechino in grande pompa la Biia, Banca in Investimenti per Infrastrutture Asiatica (Aiib la sigla inglese ufficiale), la “banca mondiale” cinese per lo sviluppo, cui molti paesi hanno sottoscritto – tra essi l’Italia. Nel quadro di un progetto Eurasia, di una grande area economico-finanziaria alternativa, con solo geograficamente, a quella pacifica, con Usa e Giappone.
Il progetto è anche russo. Anzi russo prima che cinese, e prioritario per la seconda presidenza Putin:

La nuova dirigenza di Pechino ha fatto suo il progetto. E velocemente come usa fare – il ritardo è solo di un anno rispetto al progetto – lo ha messo a punto a varato. Con un nome anche evocativo, la Nuova Via della Seta, come a dire passato e presente insieme, la Cina non viene dall’altro mondo. È specificamente la Nuova Via della Seta un nuovo sistema di trasporti transasiatico. Fondamentalmente ferroviario veloce. Che collegherà la Cina all’Europa riducendo i tempi a un terzo dei sessanta giorni attuali e corrispondentemente il costo del trasporto, bulk o container. Un progetto russo-cinese, con l’obiettivo di cominciare a trasportare 1,7 milioni di container l’anno già dal 2020, per arrivare a trasportare a regime un quinto dell’import-export cinese - la metà di quello della Cina interna, che ora beneficia poco del boom cinese, quasi tutto costiero.
La Biia-Aiib, che ora prende corpo in pompa magna nel vertice di Pechino aveva già aperto gli uffici a Natale del 2015, in perfetto rispetto dei programmi, due anni dopo il lancio del progetto, avendo raccolto l’adesione di 57 paesi, tra essi l’Italia. Avrebbe dovuto essere operativa un anno fa, e questo è l’unico ritardo.
La Cina ha sottoscritto il 30 per cento del capitale e si assumerà la gestione della banca. L’India ha l’8 per cento, la Russia il 6. Gli altri 54 paesi hanno quote tra lo 0,5 e il 3 per cento (l’Italia sottoscrive per il 2,6). La Biia è parte del progetto che in Cina prende il nome di “Una cintura, una strada”, e si riallaccia all’antica via della Seta, il collegamento terrestre fra l’Europa e il Pacifico. L’intento è di collegare la Cina all’Europa attraverso una rete nuova di comunicazioni terrestri, in aggiunta a quella marittima e a quella aerea. La Biia finanzierà soprattutto autostrade, ferrovie veloci, telecomunicazioni, parchi industriali, fino alla Russia attraverso il Kazakistan. Avrà investimenti cinesi per 200 miliardi di dollari. È uno dei primi impegni, ancora generico, della Biia.
Un progetto di Asia Bank era partito nel 2011 col sostengo dell’amministrazione Obama - portato all’assemblea dell’Onu a settembre dall’allora segretario di Stato Hillary Clinton. Gli Stati Uniti delinearono una New Silk Road (N.S.R) Strategy, che includeva anche il Tapi, il progetto di gasdotto afghano-pakistano, e Casa 1000, il progetto idroelettrico che porta la potenza prodotta in Tagikistan e Kirghisistan al Pakistan, via Afghanistan. Ma il sostegno fu disappetente, come tutto d Obama, e poi inconcludente.
Il presidente cinese Xi Jinpin lanciò la Biia-Aiib nell’ottobre del 2014 dopo il rifiuto Usa di accrescere i diritti di voto della Cina nelle altre istituzioni finanziarie mondiali: Fmi, Banca Mondiale, Asian Development Bank – la Cina conta per il 4 per cento, gli Usa per il 18. E sui dati  della stessa Asian Development Bank, che aveva calcolato nel 2010 in ottomila miliardi di dollari il fabbisogno asiatico per infrastrutture, circa 800 miliardi l’anno – di cui avrebbe finanziato l’1,5 per cento appena. Pechino ha dotato la Biia-Aiib di un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, l’equivalente della Banca Mondiale, poco sotto quello dell’Asian Development Bank - tre volte il capitale del piano Marshall.
La Biia-Aiib opera in tutta l’Asia, ma prevalentemente al rafforzamento degli assi viari, su strada e su rotaia, in direzione dell’Europa. Forte anche dell’accordo preventivo della Russia, che lavora a una Unione Doganale Eurasiatica.

Germania-Usa – I tedeschi furono molto attivi nella guerra d’indipendenza americana, o rivoluzione americana, a fianco degli inglesi contro gli indipendentisti. Furono numerosi, e anche efficienti. Detti “Assiani”, perche in gran parte, circa la metà reclutati nell’Assia (Assia-Kassel e Assia-Damstadt), o negli staterelli viciniori attraverso l’Assia. Circa 30 mila tedeschi combatterono nelle file britanniche, con  proprie uniformi, insegne e ufficiali d’inquadramento. Erano reputati per la disciplina e la combattività. Ma anche per la brutalità, mercenari per vocazione, violenti senza scrupoli. Ma i più non erano mercenari, erano coscritti, “venduti”  dai loro principi all’Assia, contro una mercede, e dall’Assia al’Inghilterra. .
Al business partecipò anche Goethe, in qualità di capo della Commissione di guerra del duca di Weimar. Goethe vendete a buon prezzo gli indesiderati del duca: oppositori politici, vagabondi, mendicanti e criminali. Il duca di Sassonia-Weimar-Eisenach Carl August, del quale Goethe era diventato precettore nel 1775, quello stesso anno aveva sposato la figlia di Luigi IX d’Assia-Darmstadt. L’anno successivo Carl August introduceva Goethe nel Consiglio segreto. Di cui nel 1779 era a capo.  La guerra d’indipendenza americana durò dal 1775 al 1783.
L’arruolamento attraverso l’Assia è descritto concordemente dalle varie fonti come arbitrario e forzoso. Si reclutavano di preferenza “stranieri”, cioè tedeschi degli staterelli confinanti, e indesiderati. Questi di vario tipo, con precedenti penali, in ristrettezze economiche, in dissidio politico, disertori di altri eserciti. L’arruolamento si faeva col soldo, raramente, più spesso con la violenza: ricatti, minacce, inganni, forza.
Trentamila soldati erano una cifra cospicua. L’esercito inglese nel 1775 contava solo trentamila effettivi. Per metà stanziati in Irlanda. Alcune migliaia presidiavano Gibilterra e Minorca. Rimanevano solo novemila soldati per fronteggiare l’insurrezione americana. Nell’ostilità generale, sociale e politica, alla ferma obbligatoria. Per una questione di principio: il Parlamento  non ammetteva un servizio permanente effettivo in tempo di pace, avrebbe dato cattive idee ai suoi colonnelli e generali, o allo stesso sovrano tramite gli ufficiali. Quando il governo di lord North decise di liberare i seimila soldati di stanza nel Mediterraneo per impiegarli in Nord America, sostituendoli con battaglioni di “hannoveriani”, soldati dell’elettorato d’origine del re inglese Giorgio III, il Parlamento sospettò un colpo di Stato. Le forze di terra erano d’altra parte poco considerate e appetite: il rifugio di chi non sapeva o non voleva darsi un’occupazione e un mestiere. Inizialmente, prima di schierare gli hannoveriani, Lord North aveva progettato l’arruolamento di 25 mila volontari. Ma la risposta fu esigua. Gli accordi per l’arruolamento di altre forze nel continente invece funzionarono, seppure con incidenti.
Caterina II di Russia rigettò la richiesta di un contingente di 20 mila soldati. L’Olanda concesse una brigata di mercenari, ma a condizione che venisse impiegata solo in Europa. Federico III di Prussia rispose polemico, bollando la richiesta come “uno scandaloso traffico di uomini”.  Gli staterelli tedeschi risposero invece entusiasti. Tra essi il duca di Weimar, dove Goethe operava. Attraverso il langravio dell’Assia-Kassel, un altro Federico II, che da quello di Prussia aveva copiato la disciplina e l’addestramento, mettendo su un esercito di 22 mila effettivi, per una popolazione che non arrivava ai 300 mila abitanti. L’Assia-Kassel aveva una tradizione in fatto di mercenari – ne aveva mandati almeno 11 mila a Venezia nel 1687 per combattere i turchi, e li aveva mantenuti poi in giro per l’Italia, su richiesta dei principati, per un trentennio. Federico II fu anche negoziatore capace: i soldati da lui forniti se li fece pagare il doppio di quelli forniti dagli altri principi tedeschi. Se Weimar abbia beneficiato di questi superprofitti, però, non si sa.
L’impiego delle truppe tedesche contro gli insorti americani fu graduale. Dapprima si progettò di utilizzarli in Irlanda in funzione di polizia per liberare le truppe britanniche lì dislocate per il loro uso in America. Poi di utilizzarli in America con compiti di guarnigione, non combattenti. Di fatto, furono utilizzati e apprezzati nei punti caldi della lunga guerra.

astolfo@antiit.eu

Gli anni perduti dell’Italia

Come l’Italia era, come avrebbe potuto diventare, come è peggiorata. Nell’urbanizzazione, e quindi nel paesaggio, urbano e extraurbano, che si legge come l’anima della nazione – un’anima esteriore. Una sorta di “anni perduti” dell’Italia, che purtroppo sono quelli dela Repubbica: Insolera li documenta con le immagini. La fotografia avendo incoporrato subito, da giovane, nella sua attività di architetto urbanista, e storico dell’urbanismo. Dalla Porto Empedocle di Camilleri, difficilmente immaginabile quale era nella realtà, nei primi anni 1950, al quartiere popolare san Basilio a Roma, votato all’emarginazione sin dalla costruzione. Solo l’Appia Antica, dei suoi progetti di inclusione-conservazione, si è salvata, in parte.
Le immagini in mostra di Insolera sono poche. Ma danno l’idea.
La mostra è gratuita, pagando l’ingresso al Museo di Roma in Trastevere - con le collezione di Ettore Roesler Franz, Trilussa, Mario Carbone, Emilio Gentilini. Ma l’ingresso si raddoppia per la contemporanea mostra di Vivian Maier, pregiatissima, in memoriam, fotografa dilettante del Nord America, molto di maniera (Walker Evans, etc.) – dell’estetica dell’arcaico.
Italo Insolera, il bianco e nero delle città. Immagini 1951-1984, Museo di Roma in Trastevere

domenica 14 maggio 2017

Ombre - 366

Attaccare le istituzioni di tutto il mondo con i codici rubati alla National Security Agency americana è una pirateria e, come pare, un ricatto di mafia. Ma è anche un pernacchio molto sonoro a chi deteneva le chiavi per entrare nei segreti di tutto il mondo. Una denuncia in piazza del Grande Fratello americano - che i media solerti si affrettano a coprire.

Dice e non dice il capitano dei Carabinieri Scafarto e questo è il peggio di tutto. Non dice: “Ho sbagliato”. Non dice: “È un caso d’imperizia”. Oppure: “Le intercettazioni noi non le sappiamo fare”. Dice e ripete: “Ho condiviso tutto con il giudice Woodcock”. Cioè ricatta. Non dice infatti: “Woodcock mi ha detto e io ho fatto”. Aspetta.

Il capitano Scafarto – o il giudice Woodcock, a sentire Scafarto – non aveva attaccato soltanto Renzi, ma anche mezza arma dei Carabinieri. Che tace.

“I titoli di Stato dovrebbero avere implicita, fin dall’emissione, la possibilità di una ristrutturazione”, Wolfgang Schaüble, intervistato da Tonia Mastrobuoni su “la Repubblica”. Elementare – non c’è altra salvezza:

Davanti ai cinque-sei milioni che vedono “Striscia la notizia”, e magari non sanno chi è de Bortoli, e nemmeno l’attapirata Boschi, questa si sgrava con una risata: “Almeno abbiamo capito a cosa è servito il libro di de Bortoli, a prendersi il Tapiro”. Una lacrima per Ferruccio?

Ma il libro serve a ben altro, in tutt’altra chiave: serve a sconsigliare l’inchiesta sulle banche che  Renzi ha in mente, dalle casse rurali alla Banca d’Italia. I suoi collaboratori Boschi e Delrio sono “avvertiti”. Siamo cioè in chiave mafiosa – l’“avvertimento”.

Sarà un bel match tra Maria Elena Boschi e Ferruccio de Bortoli con gli avvocati Severino, l’ex ministra, e Zeno Zencovich che patrocinano la ministra. Zeno Zencovich, specialista del diritto all’informazione, si era segnalato vent’anni fa col libello “Alcune ragioni per sopprimere la libertà di stampa”. Un tentativo di fermare la deriva dei media verso l’inutilità.

Più giornalista dei giornalisti, Zeno Zencovich non medita di querelarsi contro de Bortoli, ma di averlo semmai testimone a discarico. De Bortoli infatti, da Gruber e altre tv, si è detto stupito dello scandalo, e che semmai Boschi aveva il dovere di interessarsi della banca del suo elettorato, etc. Perché allora quelle tre righe, che altro senso hanno?

Se anche Ferruccio fa gossip ammazza-istituzioni, tradizione pingue da Camilla Cederna in poi, e al “Corriere della sera” da troppi anni ormai, contro Berlusconi e non solo, che dire di Milano? Senza speranza.

Un gruppo di donne si mobilita in fretta, che si dicano derelitte ma non molto – “il nuovo presidente aggiusterà le cose”. C’è il presidente della Camera di un paese lontano, l’Italia, una donna, che vuole incontrare delle donne, e il governo nigeriano, gentile, gliele fa trovare.
Non c’è molto da dirsi, la presidente Boldrini vuole solo passare alcuni giorni in Nigeria per farsi fotografare dai giornalisti al seguito. E spendere un po’ d’influenza – si spera solo quella – in favore di una Ong amica. È la cooperazione allo sviluppo.

Menano fendenti e calcioni i giocatori del Monaco, soprattutto l’ex torinista Glik, contro i calciatori della Juventus, impuniti. L’arbitro Kuipers vede e interviene ma per unire e ammonire le vittime. Perché protestano: l’arbitro punisce non l’offesa ma la protesta - l’offesa alla sua autorità. La giustizia è assoluta, cioè slegata – è un fatto di potere.
  
“Festa della Lazio, Olimpico pieno a metà”, Corriere dello Sport”. Non più “semivuoto”? Quando qualcuno va allo stadio è festa.

Obama torna in scena a Milano e stabilisce: “La politica si fa fuori dai partiti”. Tecnocratica? Populista? Che libertà stiamo vivendo nel mondo a una dimensione?

Trumpism: it’ coming from the suburbs. Racism, Fascism, and working-class Americans”. Dopo sei o sette mesi il settimanale anti-Trump “The Nation” scopre la verità: “Il trumpismo viene dalle periferie. Razzismo, fascismo, e gli americani lavoratori”. Ma sempre con la puzza al naso: il populismo sarà un fiume torbido ma ha sorgenti scoperte.

Melissa Mayer, ceo per cinque anni di Yahoo dove ha fallito tutti gli obiettivi, viene liquidata con187 milioni di dollari. Morale?

Il plebiscito che si celebra per Macron ha molte faglie: ha avuto due voti su tre al ballottaggio, ma ha avuto solo 20,7 milioni di elettori sui 48 aventi diritto. Ne aveva avuti appena 8 e mezzo al primo turno. Un francese su quattro non è andato al ballottaggio, che in Francia registra sempre partecipazioni elevate - è vissuto come un “mano a mano”, un duello. E uno su otto dei votanti ha messo nell’urna scheda bianca.

“Se dai un lavoro, ti procuri un ingrato e 99 scontenti”: ha idee chiare Franco Alfieri, il sindaco di Agropoli che doveva portare i sì al referendum con le “fritturine di pesce”, secondo il suo sponsor De Luca. Il sindaco re delle preferenze sa di che parla. Solo che non il lavoro procura il politico, procura il posto – Alfieri non  ha visto Checco Zalone. 

Heidegger si fa l’autoritratto

Materiali minimi - articoli e poesie giovanili, interventi, elogi, commenti radiofonici, commemorazioni - raccolti dallo stesso Heidegger nel 1975 per il volume XIII delle opere. Un volume poi pubblicato dal figlio Hermann, curiosità non insignificante, per il novantesimo compleanno della madre Elfride, dalla quale ha saputo di non essere figlio di Martin. L’ultimo scritto, altra curiosità, riletto il giorno della morte, invita a meditare se l’autenticità, qui “terra nostra”, sia possibile “nell’epoca della uniforme civilizzazione tecnica”.
C’è di tutto. Anche un appello all’amicizia con la Francia, con l’Occidente. Nel 1937. In un numero di “Alemannland”. Nella raccolta poetica del 1947 che dà il titolo al volume c’è anche il famoso-famigerato: “Chi pensa in grande, deve errare in grande”. Che Hermann fa precisare in nota allo stesso Heidegger, con quest annotazione sul suo esemplare personale della pubblicazione: “(La frase) non è intesa in senso personale, bensì riferita a quell’erramento che domina nell’essenza della verità, ed al quale soggiace ogni pensiero che in qualche modo si dispone a seguire il comando dell’essere”.
Il primo scritto, su Abraham di Santa Clara, è del 1910, Heidegger aveva 21 anni e studiava teologia – un resoconto giornalistico delle celebrazioni per un settimanale di Monaco, “Allgemeine Rundschau”. Heidegger voleva fare il giornalista. Seguono le prime poesie, che sono come le successive: elegie, idilliache. E poi un po’ tutti i suoi motivi: il sentiero di campagna, la vita a Todtnauberg, la campana la mattina di Natale, col dialetto, il focolare, gli usi paesani. E le letture che a strapaese si conformano: molto Hebel, forse un terzo del volume, il “poeta di casa” - di Hebel non si parla, ma si meritò di Heidegger almeno cinque saggi, come Hölderlin, alla cui anamnesi è anzi propedeutico: il radicamento è tema di Heidegger preminente. Hölderlin, il poeta che non “poetava”. Stifter: “Mostrare nel piccolo ciò che è davvero grande, aprendo la visione sull’invisibile”.
Con verità a volte chiare. Nell’autocelebrazione che la “Neue Zürcher Zeitung” gli propose per i settant’anni, nel numero del 27 settembre 1959, partendo da un Nietzsche del 1886, “La confutazione di Dio confuta in realtà soltanto il Dio della morale”. O a chiusura di “Cenni”, il volumetto di poesie che fa stampare nel 1941, in guerra:  “Il pensiero dell’essere è la cura per l’uso del linguaggio”. Molto c’è sulla poesia. Anche sulla scultura: “La scultura sarebbe il farsi-corpo dei luoghi”, pregnante e non isolante.
In questa chiusa è conciso e chiaro, nei toni dell’elegia che lo contagia sempre come poeta - in mezza pagina c’è tutto Heidegger: 
“Il pensiero dell’essere ha superato la fine della «filosofia». Ma l’opposizione ai «filosofi» non lo scalza dall’amicizia per i pensatori.
“Il pensiero dell’essere non assalta mai la verità. Ma ne aiuta l’essenza. Tale aiuto non sortisce alcun successo, ma è aiuto come semplice esser-ci. Il pensiero, in ubbidiente ascolto dell’essere, gli cerca la parola.
“Ma se il linguaggio dell’uomo è nella parola, soltanto allora esso è «a piombo». Quando è a piombo, gli fa cenno il sicuro procedere delle fonti nascoste. Queste sono le prossimità dell’inizio.
“Il pensiero dell’essere è la cura per l’uso del linguaggio”.
Una specie di selfie, in evidenza quasi deformata, da fish-eye: c’è tutto lo heideggerismo. La capziosità. Nel dialogo filosofico, malgrado tutto,“Per indicare il luogo dell’abbandono” col pensiero non-pensiero, il volere non-volere, “l’impossibilità di descrivere la cosa detta” – e quindi di parlare, di pensare? . L’elegismo, quasi sentimentalismo, nei versi e anche in prosa: della tribù, il provincialismo, il dialetto, la solitudine, il silenzio. Il misticismo implicito ma rifiutato, l’“abbandono”, che deriva all’esoterismo: “Pervenire a quell’assenza del pensiero di cui finora non si è fatta esperienza”, “la trascendenza (che) oltrepassa la percezione degli oggetti”. In Attesa, all’Aperto, dell’Aperto. Dagli ossimori affascinato del misterico Trakl, che ritrova fino in Rimbaud – del “sapere ignorando”, del “nominare tacendo”, e “il non parlare” come “un aver già detto”. Ossimori che ripetono la dialettica appena insolentita – “la dialettica è la dittatura dell’ovvio”.
Guardiano del linguaggio, sospettoso, arcigno. Uno degli ultimi testi della raccolta, “Linguaggio”, 1972, indirizzava a Raimon Panikkar, il prete teologo indo-catalano, il 18 marzo 1976 in questi termini: “Il presente testo si rivolge al tempo stesso contro la diffusione in ogni dove della linguistica, che mette l’essenza del linguaggio a disposizione del mondo dominato dalla tecnologia – a disposizione del computer - operando di fatto la distruzione del linguaggio”.
Nell’ultimo o penultimo testo, “La mancanza di nomi sacri”, è tutto se stesso, chiaro e conciso. Sofistico. Il metodo del pensare e le vie del pensiero argomentando diversi: “Questo fatto si lascia dire nominare nel modo più chiaro nella lingua\ greca, sebbene la seguente proposizione non ricorra\ in alcun luogo del pensiero dei Greci:\ La via (non è) mai un metodo”. Salvo, poi, concedere: “La via non conosce nessun metodo, \nessun dimostrare, nessuna mediazione”, scoprendo di sapere di non sapere. Socratico. O un neóteros della sofistica. Perché sapere è “l’esperienza della mancanza”. O: “«Oblio dell’essere» nomina di primo acchito\ una mancanza, una negligenza. In verità\ questa parola è il nome dell’invio del diradare\ dell’essere, in quanto questo può farsi palese solo come\ presenza”.
Un gran lavoro di Carlo Angelino, che molto ha operato con la sua editrice per Heidegger nella giusta misura.
Martin Heidegger, Dall’esperienza del pensiero (1910-1976), il melangolo, pp. 210€ 20