Giuseppe Leuzzi
Dopo
tanto leghismo, o in armonia col nuovo corso del leader Salvini, Milano si
ritriova anche meridionale. Si era dimenticata la storia dei Longobardi, “un
popolo che seppe cucire le differenze”, e una mostra russa ora gliela
ricorda.
Ma
il “popolo che seppe cucire le differenze” è formula di Amedeo Feniello,
storico che suona partenopeo. Che del resto ci voleva già tutti mussulmani.
Salvini
leader di Milano non è male.
Sudismi\sadismi
Il
“Corriere della sera” sposta il suo Umkhonto we Size che ha fatto grande Mandela,
la sua punta della Lancia, Gian Antonio Stella, dalla Calabria alla Sicilia. Per
vituperare l’isola. Ma che scopre lo Specialissimo nell’isola? Il teatro dei
pupi. Leggere per credere:
http://www.corriere.it/politica/17_settembre_01/da-orlando-grillo-giostra-siciliana-va-scena-teatro-pupi-1f9d6b00-8e92-11e7-ae8d-f3af6c904a41.shtml
“Da Orlando, a Grillo la giostra siciliana. Va
in scena l’opera dei pupi”.
Milano
non si stanca mai?
Socrate
a Milano. È in Sicilia l’infermo di Platone nel “Fedone”: non ne dubita Mauro Binazzi
su “La Lettura” del 20 agosto. Non solo, la Sicilia è tutto: “La Siciliia non è
più soltanto la sede mitica degli Inferi: diventa l’allegoria e il simbolo del
mondo intero”. Anzi, Platone era Pirandello: “D’improvviso, la Sicilia di
Platone si popola di personaggi pirandelliani”. E come? Personaggi “chiusi
nelle loro stanze (in Pirandelo è «tutto un seguito di stanze», ha osservato Giovanni
Macchia), come gli altri erano prigionieri nella caverna” – quelli di Platone.
Di
più: Mattia Pascal è Socrate, o il filosofo nella caverna. Entrambi sono
infatti “posseduti da una febbre dialettica, sempre pronti a discutere,
arrovellandosi come avvocati, cerebrali e raziocinanti”. “Come avvocati” è una caduta
di stile, ma la scoperta è di rilievo. Ora, Bonazzi non è nemmeno siciliano, è
milanese, dice il suo profilo alla Statale, dove insegna la Filosofia. E
dunque, è vero che c’è un morbo Sicilia, che la “linea della palma” sale ogni
anno di qualche chilometro? Ma che abbia conquistato anche Milano?
Calabria nonchalante
“Povera,
bella, nonchalante” dice la Calabria “M”, il mensile di “Le Monde”, a fine
agosto: noncurante, indifferente. Un’aggettivazione sorprendentemente realistica,
oltre che evocativa. Il corrispondete da Roma Jérôme Gautheret evoca “”il suo
patrimonio archeologico inestimabile e misconosciuto, la sua cucina succulenta
e le sue spiagge paradisiache, il tutto a prezzo modico”. Tutto vero, con
l’aggettivazione indovinata – per prima la Calabria non conosce la sua storia. E
il disinteresse, o l’incapacità, di mettere questi tesori a frutto. Con ordine,
con giudizio.
Gautheret
e “Le Monde” si occupano della Calabria peraltro marginalmente, per presentare
la mostra fotografica che Simone Donati inaugura sulla Calabria “interiore” –
dal titolo anch’esso indovinato e vero, “There’s Nothing Here”, qui non c’è
niente. Una tappa del viaggio ormai decennale intrapreso dal fotografo
fiorentino per “documentare i luoghi di aggregazione delle persone, ritraendo i
crismi e le liturgie della massa”. Qui fatti dire (rappresenare), spiega
Gautheret, dai candidati all’emigrazione,
“per studiare, trovar e un lavoro,o semplicemente sottrarsi alla fatalità”.
Nulla
di nuovo, cioè la Calabria d’uso. Di non luoghi che Donati illustra con un palo
della luce, su una catasta di tronchi al bordo della strada in attesa di
trasporto, e una macchina semiarrugginita che sembra un’Alfasud – senza targa:
sarà stata abbandonata in mancanza di uno sfasciacarrozze? Che intitola “No
man’s Land alla periferia di San Nicola”. Che se è San Nicola Arcella è un
posto in realtà di paradiso.
Gautheret
ne sa però di più. Come del resto tutti. “Scorrendo paesaggi e ritratti, si è
colpiti da un’assenza: quella dello Stato italiano, che sembra avere, stanco di
guerra, deciso di abbandonare la Calabria a se stessa”. Con un’ “altra entità”
di cui “si fatica a discernere le tracce: la sua (dello Stato, n.d.r.) rivale
locale: la ‘Ndrangheta”. Ma della ‘ndrangheta, osserva ancora il giornalista,
ce l’aspetteremmo: “Di essa la sua più grande forza non è d’aver saputo restare
discreta?”
Con
un’approssimazione nello snodo centrale: “Il prodotto interno lordo per
abitante, meno di 16 mila euro, rappresenta appena la metà della media nazionale”,
nota il corrispondente di “Le Monde”. Ma non compra molto di più – anche della media
nazionale? Un impiegato comunale in Calabria è ricco, mentre a Milano combatte
l’ulcera per pagare il mutuo.
Ma
a ben riguardare anche l’annotazione tra Stato e ‘ndrangheta è approssimata. La
malavita non è discreta in Calabria, minaccia e aggredisce ogni giorno a tutti
i livelli. È lo Stato italiano che le consente l’anonimità, confrontandola
ancora, come da centocinquant’anni, con schieramenti militari invece che non
con qualche detective, un po’ più furbo.
La piovra contro
Montalbano
Per promuovere il suo “Suburra”, serie netflix, quindi girata in
fretta, produzione a basso voltaggio, Placido attacca i film di Montalbano.
Opponendo loro “La piovra”, che propone a vero baluardo contro la mafia. Se non
che i film di Montalbano si rivedono ancora per la quarta e quinta volta, “La
piovra” no. E dunque: siano senza armi contro la mafia?
È la “Suburra” di netflix, che Placido annuncia violentissima,
come la “Gomorra” di Sky, il vero
antidoto alla mafia? È dubbio. La violenza per la violenza può piacere – fare
spettacolo. Ma nessuno ricorda un personaggio o una situazione della “Piovra” -
di “Suburra” ancora non si sa, ammesso che si vada a vederlo entusiasti in streaming. Dove si spara a tutto e
sempre, impunemente, argomentando di fatto che la mafia è universale e
imprendibile, non c’è nessuna lotta, solo confusione. È questo che lo
spettatore, inconsciamente, rifiuta, dopo averlo visto soggiogato dal dover
essere e dalla pubblicità – il dover essere, il politicamente corretto,
purtroppo è per il tutto è mafia.
Una
chiave è che Montalbano non avrebbe sentito il bisogno di attaccare “Suburra” –
non lo ha sentito contro “La piovra”: sono due mondi separati. Ma “Suburra”
evidentemente non può vivere se non facendo secco Montalbano.
Processioni assolte
Dove
è stato processato, in Calabria e in Sicilia, l’“inchino” di santi e madonne ai
boss mafiosi è stato assolto: niente mafia, anzi il fatto non sussiste. A San
Procopio, Rc, si processava per l’inchino Edoardo Lamberti Castronuovo, politico
prodiano rispettabile e rispettato, nonché editore di una tv locale, assessore
provinciale alla legalità. Che non c’entrava nemmeno con la processione, ma
aveva preteso, laico, di difendere l’onore della Madonna del suo paese: aveva
sfidato con una lettera aperta il corrispondente calabrese del “Corriere della
sera”, che ne aveva scritto suggestionato da un video dei Carabinieri, a
provare l’inchino. La Procura di Reggio Calabria l’aveva per questo incriminato
di calunnia – non si è capito se nei confronti del giornalista o dei
Carabinieri.
Sarà
stata, quella di due anni fa, l’estate dei Carabinieri. O dei vescovi, che subito
hanno proibito le processioni, specie i vescovi calabresi. Sarà stata l’estate
delle caserme, o delle sacrestie?
Dei
video diffusi dai Carabinieri non si sa. Dei vescovi, depurata la questione dal
sensazionalismo mafioso, la questione si chiude come una manovra per
appropriarsi delle processioni. Non del culto, o della purezza del culto, che
al contrario in molti casi hanno perfino raddoppiato, inventandosi madonne
nuove, della Pace, dell’Anima, della Salute, e nuove virtù dei santi. Per
appropriarsi al contrario dell’organizzazione. Delle offerte, che sono quello
che resta della festa, della devozione. Passando senza scrupoli sopra la
buonafede dei fedeli, e la buona fama, quello che ne restava, delle comunità da
loro amministrate.
La
processione è un rito sicuramente religioso. Ma è una delle manifestazioni
della festa. Che prende il nome dal santo o dalla Madonna ma è un rito sociale
e non religioso. Popolare e comunitario. Intitolato al santo perché la vita
attorno alla chiesa-parrocchia ha preceduto e ha più continuità di quella
comunale o amministrativa. Specie al Sud, che non ha avuto una storia di
Comuni. Una festa di musica, balli, botti, anzi elaborati fuochi d’artificio,
luminarie, bevute, mangiate. In gestione autonoma o privatistica. Ma, e qui
entra in gioco la chiesa, la festa si finanzia attraverso le offerte. Non al
santo o alla madonna, quelle sono di pertinenza della chiesa, ma alla festa
stessa. Dov’è il cambiamento dopo l’offensiva degli inchini? I comitati
promotori sono ora quelli del parroco o del vescovo, e anche le offerte per la
festa passano dalla chiesa.
Quanto
alla festa, la nuova si segnala per essere lugubre. La processione è una
corsetta veloce attraverso le strade del paese, non più tutte, non più solenne
e minuziosa. Spoglia, dimessa. Senza labari e gagliardetti, senza confraternite.
Ugualmente assediata da masse di nerboruti poco raccomandabili come portatori,
certo ora scelti dal parroco. Canti da chitarrate. Niente preci né
giaculatorie.
Calabria
Il
tuffatore De Rose, di Cosenza, che non ha soldi per continuare la preparazione
e si trasferisce a Trieste, dove fa il cameriere, gareggiando per la locale
Società di tuffi. La stessa storia di “Ringhio” Gattuso. Sembrava una favola
nel “Ragazzo di Calabria” di Comencini trent’anni fa, è un fatto, e di
attualità: la disattenzione per i poveri nello Stato sociale, e anzi patronale.
Francesco
da Paola, “il santo italiano più europeo”, fu costretto dai re di Francia a
spostarsi alla loro corte, come parafulmine contro le malattie – di Luigi XI,
in successione, il Prudente, o il Ragno Universale, il famigerato Carlo VIII
della discesa in Italia, e Luigi XII. Approdato in Provenza nel 1483, ebbe sede
a Tours, dove visse fino alla morte, nel 1507, nel locale convento dei Minimi, l’ordine da lui fondato. Fu
santificato a tamburo battente, nel 1519. Nel 1562 gli ugonotti ne profanarono
la tomba, bruciandone i resti. Un santo energico e mite, mitissimo.
S’incontra
ovunque un Pci girando per la Calabria, sui manifesti e nelle cronache, con un
Pcd’I, che sono quelli storici, Rifondazione
Comunista, e un inedito Comunisti Italiani. Una manifestazione di
longevità, di fantasmi?
Brucia
un palazzo fatiscente a Cosenza, abitato da persone in estremo bisogno, coi
cartoni alle finestre invece dei vetri rotti, e con esso il palazzo accanto,
storico, Ruggi d’Aragona, restaurato dal privato proprietario, Roberto Biliotti.
Che ospita – ospitava – nelle sue sale le prime pubblicazioni di Telesio,
Parrasio, Quattromani e altri cosentini illustri, con molte altre cinquecentine,
con arredi d’epoca, e una pinacoteca. Tutto andato, più o meno, distrutto dal
fuoco. C’è pietà per i tre poveretti vittime del fuoco. Della distruzione di palazzo
Ruggi d’Aragona quasi non si parla.
C’è
molta sensibilità “di classe”, si sarebbe detto un tempo, antiborghese. Che però
è più spesso insensibilità: le tre vittime avrebbero potuto essere salvate, con
una vita decorosa, in una struttura sociale. La vera sensibilità è
indivisibile, quella che si esibisce è odio di classe, da tempo ormai ridotto a
invidia.
Il
fruttivendolo di un borgo di montagna ha una cesta di lime – produce of New Zealand. “La metà li abbiamo già
venduti”, dice, “lo usano per i
cocktail”. Per le caipirinhe, il turismo in Brasile si deve essere diffuso, sessuale e non.
Il
bergamotto, che la Calabria produce in esclusiva, ottimo sostituto del lime in tutti i suoi utilizzi, è sconosciuto in
Calabria, per i cocktail e non solo.
“Qui
fu issato per la prima volta il Tricolore, il 29 agosto 1847”. Non è vero –
neanche come anticipo del ’48: del tricolore i patrioti facevano già largo uso.
Ma a Santo Stefano d’Aspromonte piace festeggiare così. Dappertutto in Calabria
si celebrano patrioti e attività risorgimentali. Non c’è tanto patriottismo
altrove.
I
calabresi Giovanni Fiore da Cropani, “Della Calabria illustrata”, distingueva
nel Seicento tra Brezzi, abitanti della Calabria Citra, o Nord, e Greci, della
Calabria Ultra, o Sud. La prima caratterizzava come “sofferente, a gran cuore,
pronta alle vendette dell’ingiurie, quasi tutta armigera”. La seconda,
derivando “li costumi da’ greci”, diceva di gente “delicata nel vivere, splendida
nel lusso, gonfia di sé medesima, poco stimatrice degl’esteri”, benché
ospitale. Odiernamente i violenti, nella Locride come nella Piana di Gioia
Tauro e a Reggio Calabria, sarebbero i secondi. L’Idealtypus, o i caratteri nazionali, non sono primari, mutano con
le circostanze e i contesti.
Spesso,
come è possibile nel caso di Fiore, si privilegiano le realtà esterne e in
qualche modo concorrenti.
Il
“Quotidiano di Calabria” celebra a tutta pagina il “successo” di Unical, l’università
della Calabria, a Cosenza-Rende: “Unica università italiana tra il 700mo e
l’800mo posto nella classificazione Shangai”. Tacendo di quelle che vengono prima del 700mo posto.
La
Calabria è più che mai le Calabrie. Si attraversa la parte Nord della provincia
di Cosenza con l’impressione di trovarsi
in un paesaggio toscano. Pulito, ordinato, anche nei casali. Con distinte
proprietà “toscane” - urbanistiche, architettoniche - in alcuni centri urbani,
per esempio Altomonte. E la ragione è probabilmente che questi erano i Casali
di Cosenza che il Granduca di Toscana acquistò in feudo dalla Corona nel 1649, per
la produzione della seta. Basta poco per cambiare i costumi, un poco di
buongoverno.
I
Casali – una sorta di ente territoriale longobardo, creato nel secolo X, a
protezione dalle incursioni dell’emiro Abulcasimo (Abdul Kassem), che nel 975 e
nel 985-986 saccheggiò Cosenza.
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