Giuseppe Leuzzi
Sudismi\Sadismi
“Per
noi che siamo beduini, gli accordi sono un fatto di sangue”.
“Io
sono calabrese, ed anche per me, per la regione da cui provengo, conta il
sangue”.
È
il resoconto dell’incontro tra il ministro dell’Interno Minniti e i capi tribù
libici, convocati al Quirinale per un tentativo di pacificazione. Lo racconta
“L’Espresso” faceto, ma questa era la cronaca del quotidiano milanese “Libero”
il 4 aprile – solo di “Libero”.
Il pezzo di carta
Non
ci si laurea prima dei trent’anni, in media, in molte università del Sud
secondo le graduatorie del Miur pubblicate dal “Sole 24 Ore”. Per essere più
precisi, le università dove l’età media dei laureandi è sui trent’anni sono tutte
del Sud: Camerino 27,8, Teramo 28,9, “Dante Alighieri” di Reggio Calabria, 29, Link Campus di Roma (iscritti in prevalenza
meridionali) 34,2. Tutti esamifici, peraltro, più che centri di studio e
formazione, anche se pubblici come istituto, a Teramo e Camerino. La “Dante
Alighieri” di Reggio è una università privata per stranieri, come l’analoga di
Perugia (che viene poco sotto per l’età media dei laureandi: 27,7), ma è aperta
agli italiani – ha un migliaio di iscritti.
Analoga
la graduatoria a rovescio per quanto riguarda la durata “media” dei corsi di
laurea: il peggio è al Sud – eccetto una altrimenti ignota “Humanitas
University”, mezzo latina e mezzo inglese, di Rozzano in provincia di Milano. Alla
“Parthenope” di Napoli, l’ex Istituto Navale, oggi legato per Ingegneria a
Apple, ci vogliono 8,6 anni. Seguono la “Dante Alighieri” di Reggio, con 7
anni, e l’università della Basilicata, 6,5.
Dietro
questi lunghi corsi di studio si immaginano molte spese per viaggi e soggiorni
fuori sede, molte bugie, esami passati per caso, e infine una laurea senza valore
– in molti casi neppure legale. E una pratica sociale più sciocca, nel 2017,
che arretrata: oggi s’immaginerebbe che tutti sappiano che gli studi hanno
valore se danno una professione e una specializzazione. In sé, sopratutto se subiti,
contro ogni interesse e volontà, sono uno spreco, di denaro, che per molte
famiglie è raro, e di opportunità: uscire dall’università, tanto più se
fantomatica, a trenta anni con un pezzo di carta inutile segna a una vita da
niente. Da disadatti. Senza studi, in realtà, e senza un mestiere.
Di
questa folle vaghezza del pezzo di carta fanno le spese anche alcune università
pubbliche, per il numero elevato, e il relativo costo senza ritorno, degli
abbandoni. Tutte, anche queste, meridionali - a parte la solita “Humanitas University” di Rozzano.
Dopo Rozzano, dove “si laurea” solo il 2 per cento degli iscritti, viene Napoli
II (ora “Luigi Vanvitelli”), con un 11,5 per cento di laureati sul numero degli iscritti. Terza
la “Magna Graecia” di Catanzaro, seconda università calabrese per numero di iscritti,
12,2. Quindi la Basilicata, 12,8. E Salerno, 14,1.
La minoranza si
vuole superiore
Degli
Albanesi venuti al seguito di Catriota, si operò con insistenza la
latinizzazione. “I vescovi cattolici”, racconta l’“illuminato” Bartels nelle “Lettere
dalla Calabria”, “gelosi dei Greci che si formavano sotto di loro, si unirono
ai baroni, i quali mal sopportavano che un numero consistente di loro sottoposti
fosse esentato da ogni imposta, com’era il caso soprattutto degli abitanti della
città di Corone fatti venire da Carlo V, e dei preti con le loro mogli e i loro
figli”. Gli Albanesi erano di rito greco.
Ma
presto, più che l’ortodossia, preoccupò Roma “l’ignoranza crassa che si era
diffusa” tra gli Albanesi di Calabria, continua il viaggiatore tedesco, futuro
borgomastro a vita di Amburgo. Clemente XII creò allora un collegio greco,
“Benedetto Ullano”, perché vi si temessero corsi di morale e di teologia per i
preti-pope. “Il primo istitutore fu monsignor
Rodotà (il bibliotecario vaticano, n.d.r.), nominato arcivescovo in partibus ma sottoposto al vescovo di
Bisignano. Dopo la morte di Rodotà, continua Bartels, “il collegio è decaduto;
e se prima, grazie alla sua opera, un po’ di civiltà penetrava tra questi montanari,
ora non v’è nemmeno l’ombra”.
E
tuttavia – conclude Bartels: “E tuttavia gli Albanesi si credono superiori, e
non di poco, al resto dei Calabresi”. Come tali sono risentiti nei comuni
limitrofi e in quelli misti.
L’antimafia
manzoniana
Una
megastruttura balneare a Nord di Reggio Calabria, l’Oasi di Pentimele, è stata
oggetto per anni di “atti vandalici”, il nuovo nome che si è deciso di dare ai
vecchi “avvertimenti” mafiosi – il genere: se non paghi sarà sempre peggio.
Tutti denunciati all’autorità giudiziaria. Senza esito. Finché un anno fa il Prefetto
non ha notificato ai gestori una interdittiva antimafia. Provvedimento di
natura “cautelare e preventiva”, secondo i codici, che però ha effetto immediato:
esclude i gestori da ogni contatto con la Pubblica Amministrazione, e quindi dal
rinnovo annuale della concessione.. Senza nominare un supplente o commissario ad acta, per i necessari adempimenti burocratici
della struttura. E senza avviare procedimenti penali contro i gestori stessi.
Gli
“atti vandalici” invece hanno continuato a essere perpetrati. Con danneggiamenti
di varia entità. Ma cadenzati; cioè non
casuali, per ubriachezza, teppismo, dispetto. Senza alcun accertamento penale
da parte degli inquirenti.
Il
Prefetto ha “messo le mani avanti”, si è premunito. Ma Manzoni, che pure ne ha
analizzate tante, dei predecessori del Prefetto, di questa si sarebbe
meravigliato.
Sicilia
Garibaldi
si apprestava a liberarla già nel 1848. Passato in Svizzera dopo il fallimento
del ’48 a Milano, era rientrato nel regno sabaudo, a Genova. Dove, dice Dumas,
“accettò la proposta della deputazione
siciliana di recarsi in Sicilia per sostenere la causa della rivoluzione”. È il
primo schema dei Mille. Ma come sarebbe andata nel ’48, sarebbe stata un’Italia
repubblicana? Un’Italia che si sarebbe liberata partendo dal Sud?
Garibaldi
era anche partito per la Sicilia: “Con trecento uomini si diresse a Livorno”,
dice Dumas. Ma al momento d’imbarcarsi seppe della Repubblica Romana, e cambiò itinerario.
Fa
grande caso Dumas nelle sue opere più tarde - specialmente ne “I garibaldini”,
dove lo ritrova tra i sobborghi marinari (allora) di Messina, dai nomi
beneauguranti di Pace e Paradiso - del capitano Arena, persona e personaggio
del suo romanzo di viaggio “Lo speronare”, insieme col giovane militare
francese esule De Flotte: un siciliano dal “volto buono, sempre sereno, anche
nella tempesta”. Una figura che avrebbe servito molto all’immagine, oltre che
alla psicoanalisi, del Siciliano. Ma in Sicilia, dove pure si ama il feuilleton, il Dumas sicilianofilo è
snobbato, praticamente sconosciuto.
Anche
la Sicilia ha il suo “miracolo Shangai” quest’anno, come la Calabria. Anzi più
miracoloso: l’università di Palermo è classificata dall’Arwu (una sorta di
Anvur) dell’università Jaotong di Shangai “tre la prime cinquecento in tutto il
mondo”. Cinquecentesima (è la sedicesima tra le università italiane )?
Prefazionando
la mostra che la Rai venticinque anni fa dedicò ai grandi scrittori siciliani
fotografi, Verga, Capuana e De Roberto, Sciascia caratteristicamente li
diminuisce: erano dilettanti, comunque incapaci di leggere l’immagine, non come
Barthes, o come questo o come quello. In genere, come i francesi. Per esempio
Zola: quando Capuana a Roma spiegò a Zola come la fotografia fosse utile alla scrittura,
Zola, dice Sciascia, lo compatì, come se gli offrisse delle foto spinte. E
anche lui compatisce Capuana, non Zola – la cui moglie Alexandrine invece aveva
capito benissimo, e lo ha anche scritto.
Non c’è paragone tra Sicilia e Calabria
per l’accoglienza. La qualità dei servizi, la pulizia, la continuità, la cura -
degli spazi pubblici, della casa e dei borghi, della cultura, dell’innovazione,
dell’agricoltura, dei manufatti, specie artigianali. Per tutto. Eppure un
siciliano ritiene un calabrese uno alla apri, e viceversa, la Calabria spesso
pensa di surclassare addirittura la Sicilia. Effetto di una vecchia tradizione
– i Normanni arrivarono in Sicilia dopo un secolo in Calabria, nel Trecento? O
dell’emigrazione: ancora nel Quattrocento, molte maestranze erano a Palermo
calabresi? O del Risorgimento - i moti, carbonari, massonici, liberali,
partirono a Reggio prima che a Messina? O della nuova specialità, le mafie?
Ma c’è - per la contiguità territoriale?
per il comune dialetto latino? - una comunione bizzarra tra estremi molto diversi.
Reggio e Messina si scambiarono molti patrioti nei moti del 1848 e precedenti.
Francesco Stocco, il più eminente tra essi, messinese, fu condannato a morte per
aver fomentato l’insurrezione dei reggini nel ’48 – fu poi organizzatore dei
Cacciatori della Sila e in genere dei volontari calabresi nell’impresa dei
Mille (da comandante della cosiddetta “compagnia dei Savi”, perché ebbe come
soldati e ufficiali futuri deputati, senatori, ministri).
Rosario Crocetta, presidente uscente della
Regione, ha cambiato 47 assessori in cinque anni. Ma il motivo è semplice,
dice: “Sono stai i partiti (quelli che lo sostengono) a fare pressione… Prima hanno
voluto i tecnici. Poi i politici. Infine, sono entrati i deputati regionali, ed
è tornata la quiete. Chissà perché”.
Nel dicembre 1972 si temeva a Palermo un
convegno di studi normanni importante, preparato da tempo, Che si aprì nell’imbarazzo,
racconta lo storico inglese Abulafia: era appena crollata un’ala del palazzo
della Zisa, la quale era stata chiusa per restauro dal 1955, cioè da
diciassette anni.
Il
Tribunale di Enna può contare, caso quasi unico, sulla piena copertura
dell’organico, di giudici e cancellieri. Ed è il Tribunale con più arretrato.
“Palermitani
con la valigia. Ogni mese partono in mille” - “la Repubblica-Palermo”. Non
sono pochi. Per lo più diplomati o laureati.
leuzzi@antiit.eu