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sabato 14 ottobre 2017

Ombre - 386

“Bacio Feroce Tour” su cartelli giganti adorna gli ingressi delle librerie Feltrinelli, re degli “Eventi”. Didascalia: “La paranza è tornata. Roberto Saviano incontra i suoi lettori”. I suoi fans, si direbbe alla Vasco Rossi. Suoi o della paranza (dei bambini)? Pedofili?

Si celebra Caporetto come se gli austro-tedeschi avessero vinto la guerra, mentre la persero. Si dice delle truppe che non combatterono e si arresero, infingarde e traditrici, mentre è noto che erano stanche di troppi impegni – la famosa brigata Catanzaro che si in subordinò, aveva fatto tredici campagne di fila - e demoralizzate dall’incapacità dei comandi. E poi non sono le stesse che vinsero al Piave?

World Watch List ha tenuto il conto dei cristiani uccisi o perseguitati dall1 novembre 2015 al 31 ottobre 2016, dodici mesi: 1.207 religiosi e fedeli assassinati, 1.329 chiese attaccate – distrutte o chiuse d’imperio. In cinquanta paesi. Tutti islamici – eccetto Messico e Colombia, dove i religiosi muoiono per mano del narcotraffico.

Come venire a capo del debito pubblico, che si mangia di soli interessi tutto quello che l’Italia risparmia ogni anno, e qualcosa di più – stiamo intaccando il capitale? Con un esercizio contabile. L’ennesimo, quest’anno come ogni anno dal 1992: il pil aumenterà al galoppo, l’inflazione ritornerà, e la bestia è domata. Ma è scommessa semplice che il debito aumenterà l’anno prossimo, per il semplice costo del debito stesso, e ancora l’anno prossimo.

Un debito che produce solo costi, in ogni bilancio, del buon padre di famiglia o del buon manager, viene tagliato, anche a costo di un sacrificio iniziale. Solo in Italia viene alimentato – magari sostenendo di no. Per arricchire i prestatori.
“Il debito è la rendita degli italiani”, dice Guido Carli. Di quelli che non capiscono?

Mons. Galantino, segretario dei vescovi italiani, avverte: “Sulla famiglia si gioca il nostro futuro”. Dell’Italia, della chiesa, dei preti celibi? Dell’umanità, come dice “Blade Runner 2049”?

“La Repubblica” illustra un’intervista sull’Ilva al cardinale di Genova Bagnasco con una foto di Bertone. Che è stato vescovo di Genova ma in passato. Un errore. Ma richiama quanto possono essere profondi gli odi tra persone sante, per esempio i cardinali Bagnasco e Bertone.

Niente funziona a Roma, il Comune non fa investimenti (viabilità, scuola, assistenza) e anzi riduce i servizi, con un bilancio in forte deficit fuori cosmesi contabile, ma la sindaca Raggi promette 8 mila assunzioni, ed è fatta. I sindacati sono ora 5 Stelle. Lauro era un grande politico?

L’Unione degli studenti del Balliol College a Oxford mette al bando le associazioni cristiane perché omofobe e neocolonialiste: le associazioni cristiane degli studenti non possono partecipare alla vita sociale del college. Bisognerà inventare il reato di demofobia, del politicamente corretto come una dittatura.

Punte di diamante degli schieramenti anti-Trump, facebook e google si sono dunque arricchite in campagna elettorale ospitando milionate di micro pubblicità a pagamento pro-Trump, almeno 50 mila e forse 100 mila al giorno, da parte della campagna elettorale di Trump. E dei famosi hacker russi, che dunque ci sono, ed erano ricchi. È tutto business.

Nessuna immagine di mille o duemila feriti a Barcellona nel giorno dell’indipendenza. Nemmeno una foto di Puigdemont in un qualche ospedale. Molti video di violenze della polizia spagnola riconosciuti per fake. La rivoluzione virtuale è fallita?

Lunedì il governo catalano dovrà dire che intende fare, pena la sospensione dello statuto di autonomia della Catalogna – l’applicazione dell’art. 155 della Costituzione spagnola. L’indipendenza si vuole vittimistica, come castrarsi?

Non c’era molta hispanidad residua in Spagna, orgoglio nazionale, nel paese delle 17 autonomie regionali. La presunzione dei catalani l’ha risvegliata, nella stessa Catalogna.

Tutti buoni credenti nel partitino di Alfano, tenuto insieme dai vescovi. Ma non hanno il coraggio di votare lo ius soli. Che non richiede coraggio: è la cittadinanza per chi la merita e vi ha comunque diritto. È proprio razzismo.

Irrisolvibile per la ragioneria generale dello Stato, la questione del debito pubblico perché non la risolve il papa? Sarebbe un miracolo, da canonizzazione immediata. Semplice anche: un’altra nazionalizzazione dei beni ecclesiastici.
La crisi finanziaria dello Stato unitario fu risolta negli anni 1860 nazionalizzando la manomorta.  Perché papa Francesco non la risolve con un motu proprio, con tutto lo spread, con un atto di generosità? Tanto più che vuole una chiesa povera.  

Il ritorno della madre, contro la clonazione

Nascituri invece che creature. Un plot semplice: il mondo dei cloni è a venire, ma le nascite? Il secondo episodio di “Blade Runner” è l’amore parentale – il “mistero” e filiale. Qui vissuto dal cacciatore di replicanti Officer K. Il plot è semplice, è un’agnizione, il più vecchio forse degli artifici narrativi, ma l’amore genitori-figli in questo millennio afono è sorprendente. 
Un “Blade Runner” perciò romantico, perfino sentimentale. Forse per questo, a correzione, virato spesso sul “catastrofico”, tra lampi, scoppi, crolli, voli, sotto un boato continuo. I dialoghi sarebbero bastati a tenere desta la tensione, affilati, “profondi”. Anche il filo del racconto, dopo tanta insistenza sulla clonazione: ci sarà un momento in cui vorremo, una donna vorrà, un figlio partorito, “nato” e non “creato”.  
Una sorpresa finale è prodroma di un terzo sequel: protagonista sarà una donna e capeggerà la rivoluzione contro la “creature” artificiali.
Denis Villeneuve, Blade Runner - 2049

venerdì 13 ottobre 2017

Problemi di base - 361

spock

Perché le cose sono sbagliate invece che giuste?

Perché le cose sono più spesso sbagliate che giuste?

L’errore è sempre volontario (Suarez, Descartes)?

Non c’è l’ignoranza nell’errore?

 E la stupidità?

O è Dio ingannatore (Descartes)?

Perché il papa non si prende una vacanza – Dio lo fece?

spock@antiit.eu

La Germania aveva vinto la Grande Guerra

Minuzioso, prolisso, vantone, il future maresciallo Rommel pubblicava nel 1937 le sue memorie di Guerra 14-18. Sei campagne a cui aveva preso parte, come sottotenente e poi tenente di truppe wuerttemburghesi, di fanteria e poi alpine, in Belgio e attorno a Calais, nelle Argonne, in Romania, nei Carpazi, a Tolmino (Caporetto),  e al Tagliamento. Lo stile è simile a quello di Junio Valerio Borghese, “Decima Flottiglia MAS”, che però veniva pubblicato a ridosso della sconfitta, nel 1950 presso Grazanti, e si leggeva come un libro di avventure. Qui il revanscismo è in ogni riga.
Per il resto è un po’ ridicolo. Nessuna menzione del Piave: nella sconfitta Rommel “non c’era”. Come “non ci sarà” alla disfatta della Germania hitleriana, benché da lui propiziata. Dapprima in Africa, la prima battaglia persa dalla Germania di Hitler dopo tre anni di trionfi. E poi in quella definitiva, al Vallo Atlantico  in Normandia – dove non c’era nel senso proprio: nei giorni dello sbarco il comndante in capo del Vallo era a Berlino al compleanno della moglie. 
Rommel, va ricordato, era il Silla di Jünger, quello che avrebbe salvato la “res publica” germanica,  e per questo si sarebbe suicidato dopo l’attentato fallito del 20 luglio 1944. Ma si suicidò tre mesi dopo l’attentato fallito. Ed era stato comandante della guardia di Hitler, in virtù della pubblicazione di questo libro. Meritandosi in quella posizione la promozione anticipata a generale.
Un libro che si segnala per il trionfalismo: è come se la Germania avesse vinto la guerra che stava perdendo. Un best-seller quando uscì, in clima hitleriano. Che riconfermava la convinzione profonda che la Grande Guerra era stata perduta per il “colpo alla schiena”, il tradimento dei democratici. Dimenticato per questo revanscismo nella Germania federale, vi è stato riedito due anni fa, nel ritrovato trionfalismo.
Il generale Fabio Mini, collaboratore di “la Repubblica”, “l’Espresso” e “Il Fatto quotidiano”, lo ha rieditato in italiano per farne un “guerriero asimmetrico”, cioè un rivoluzionario. Ma il maresciallo non era un uomo di idee: era un carrierista e un uomo d’ordine. Era anche razzista, ma questo è il meno.
La gloria di Rommel si fa ascendere a un’azione di guerriglia il 9 novembre 1917, quando da solo prese Longarone e novemila italiani prigionieri. Così l’ha raccontata, anche qui, agli astuti teutoni e storici britannici. Ma un po’ anche prima: col suo plotone, una trentina di uomini, e poi con la sua compagnia, un centinaio, sempre piomba sul nemico soverchiante, per quattrocento lunghe pagine, e lo immobilizza.
A Longarone si appropriò anche di un titolo di nobiltà, l’unico che poté vantare: alla tomba della famiglia Molino, pretese di aver trovato gli antenati della moglie Lucie Maria Mollin, emigrati sette secoli prima. Ma l’eroico maresciallo disprezzava l’Italia.
Erwin Rommel, Fanteria d’attacco. Dal fronte occidentale a Caporetto, Libreria Editrice Goriziana, pp. 427, ill. € 20

giovedì 12 ottobre 2017

Le chiocce sono tornate

Lo spazio è angusto ma l’affollamento non dà fastidio. Si chiachhiera anzi voluttuosamente a più voci, incrociando interlocutori e gruppetti. L’ottobrata romana mite lo consente anche di prima mattina, si arriva a scuola prima dell’apertura quasi pregustando il momento di conversazione. Le mani saldamente artigliate sulle spalle dell’infante, che sempre spinge per liberarsene e fare quattro salti coi compagni, i pochi liberi dalla cura parentale. Sono donne perlo più, che quando il cancello viene aperto accompagnano il pupo fin sulla soglia, e poi lo chiamano e richiamano salutando con la mano alzata, benché il figlio non senta o finga di non sentire.
Si ritrovano le stesse facce in pasticceria e alla frutteria - le vegane, per i centrifugati. È piacevole la pausa dopo la cura dei figli, ma senza dimenticarsene. I discorsi che si sentono sono sempre dei figli, vezzi, uzzi, dei loro tanti interessi, danza, volley, basket, scherma, canto, teatro, e dell’incaapcità che hanno a concentrarsi, e a scegliere.
A volte sembra il film di Moretti, “Caro diario”, dei genitori iperprotettivi che Moretti satireggia.  Diventati nel frattemo una patologia negli Usa che amano catalogare, l’overparenting. Del parent involvement che diventa un caso patologico: genitori ansiosi, insicuri, con la smania di prevalere, anche nei dettagli, a casa e fuori, a scuola, nel doposcuola, nelle riunioni, nemici spesso delle insegnanti, possedendo migliore pedagogia, esclusiva. A volte sembra una maniera come un’altra di passare il tempo. E forse è tutt’e due le cose.
Ilary svagata si legge stamani sul giornale che confida a Renato Franco: “Ho le paure che hanno tutte le mamme, ho un forte istinto di protezione”. Lo stesso Moretti è passato dalla satira all’inadeguatezza.

La mafia vincente nel Sussex

Il romanzo d’esordio di Greene, scritto a ventidue anni, dopo due romanzi rifiutati dall’editore, che lo consacrò all’uscita nel 1926 autore di successo. L’odio del padre conduce il protagonista a una serie di sconfitte. Compreso il primo e ultimo amore.
Greene lo riscrisse nel 1971, ma poi lasciò da parte la revisione, per non eliminarne “la sola qualità forse che possedeva, la giovinezza”. Il passo è lento per voler essere sicuro (autorevole). La narrazione è statica, articolata su tre-quattro grossi grumi teatrali. Per questo, forse, è un’opera non fortunata in traduzione: una sola ne è stata fatta, lontanissima, nei “Marmi” Longanesi. Ma di molteplici qualità. Una capacità quasi naturale di suspense, malgrado la staticità delle situazioni. Uno dei grumi teatrali è un legal thriller, in anticipo sul genere, molto effervescente. C’è pure un legame omoerotico, di dipendenza affettiva.
Anticipata è anche la figura del pentito, centrale al racconto. È un primo caso, si può pure dire, di mafia vincente, completa di omertà. Non viene chiamata mafia ma lo è: come è prassi per G. Greene, anche questo romanzo viene presentato come una storia di tradimento e persecuzione, ma è una storia di mafia.
Un romanzo di solitudini. Nel Sussex, un’Inghilterra di provincia alle porte di Londra, in cui l’ordine pubblico è ancora affidato ai Bowstreet Runners, gli antesignani delle moderne polizie. 
Graham Greene, The Man within, Vintage, pp. 223 € 11,20

mercoledì 11 ottobre 2017

Secondi pensieri - 322

zeulig

Lingua – Dev’essere comune, condivisa ampiamente, altrimenti non significa. Si fanno film in dialetto, due ore di dialetto, veloce, alla velocità del film – Carpignano, Botrugno-Coluccini. Ma poi, per comunicare, si passa naturalmente all’italiano. Si comunica solo in una lingua comune. Più stretto è il dialetto, che spesso è fatto di gestualità, e di silenzi (pause, omissioni), più circoscritta la comunicazione, fino alla mancanza di senso. Si può pensare al sardo come lingua veicolare. Ma in Sardegna. E nemmeno, in quale parte delal Sardegna?
Si diffonde per questo, nel revival dei dialetti, per esempio in ambito leghista, lombardo-veneto, l’uso dell’inglese.

Morte – Con la malattia, la povertà e la licenza, turbò Budda e Schopenhauer, che fino ai vent’anni le avevano ignorate. L’esperienza assottiglia la realtà? Ne disinnesca il terrore.
Il Duomo di Milano Stendhal trovava un gotico senza l’idea della morte”.

Hitler viene da lontano, le buone storie vogliono le cause remote. Ma non dal “Terzo Reich” di Moeller van den Bruck, che è del ‘22 ma è antirazzista. Semmai dall’Impolitico Mann di prima del ‘18, la cui divisa resta la “simpatia con la morte”, nel mentre che moltiplicava figli e romanzi. Viene dalla religione della morte: non la morte fisica attira i tedeschi ma la metafisica, nel mentre che si godono la vita. La Lenora di Bürger il fidanzato morto torna a prendersela su invito della donna, che infoiata vuole morire: “Il fuoco che mi arde, non c’è sacramento che lo plachi”. Novalis amava di più Sofia se la pensava morta. Perfino il limpido Heine paga tributo alla morte erotica, belles dames sans merci sono le sue donne dall’inizio alla fine, dai “Traumbilder” alla “Mouche”, nel loro vampiristico Kosen, il pettegolìo. La morte è un fatto etnico?
Piacciono morti in Germania perfino i bambini. Non solo al Rückert dei “Kindertotenlieder” di Mahler, che ne scrisse 428, anche Goethe ha un padre che parla col figlio morto. Necrofilia e spregio della libertà, “croce e sacrificio, sangue e morte” l’Impolitico Mann dice “il segno più certo della germanicità”.

La necrofilia teutonica è maschile, le poetesse l’amante lo vogliono in carne pure in Germania. La morte è un fatto di genere?

Natura – È buona in Fénelon, “Le avventure di Telemaco”, prima e meglio che in Rousseau – meglio, cioè sensato e significativo, non romantico, cioè idealizzato. Nell’educazione del duca di Borgona, futuro re di Francia, per il quale sono scritte le “Avventure”, Fénelon individua il “buono naturale”, da estrarre da ogni soggetto quale compito dell’educatore. Voleva costruire un’arte politica che si opponesse al pessimismo, per lui cinico, di Machiavelli, della natura tendenzialmente perversa del potere. Ma finisce per argomentarla con una citazione apocrifa di Socrate, da lui inventata: “Una riforma generale di una repubblica mi sembra infine impossibile, tanto sono sfiduciato del genere umano”.
Il “buono naturale” è singolo: principesco, regale.

Provvidenza – È sorprendente? Anche. Per esempio nell’incontro fra Scalfari e il papa argentino.
È ordinata e sorprendente anche in Manzoni. È tale, involontariamente, nel “Discorso sulla storia universale” di Bossuet che l’ha generata, ne ha generato il filone. Dove “tutto è sorprendente” nelle cause particolari della storia. Che poi, cause “apparenti”, si ritrovano in buon ordine nella causa “vera”, agli “ordini segreti della Divina Provvidenza”. Segreti, cioè imponderabili, e imprevedibili.

Realtà – È percezione? La percezione è tutto, fa i sensi e anche la cosa percepita? Ma è un rapporto. È necessariamente la percezione di qualcosa: un oggetto, una qualità, una sensazione. Che può modulare, e anche inventare, ma allora con riferimento a altro analogo, anche semplicemente immaginario.
È bipartita? Percezione e oggetto? Percezione e cosa diventano realtà peraltro nel linguaggio: la cosa non è inventata – non esiste – se non è detta. E in forma comunicabile, condivisa. La realtà è quindi tripartita – e un po’ anche quadripartita, dovendo il linguaggio essere condivisibile, traducibile.

Ricordo – È esclusione: ricordare è escludere. Fissare anche, ma per eliminazione.
Funziona, sembra funzionare, al contrario: il ricordo è una rete che raccoglie - la messe, il pescato, la serie di dati, che galleggiano - nella superficie remota e anche nel fondo. Ma è inevitabilmente selettiva, un rete coi buchi.: La memoria degli stessi dati, fatti, eventi è diversa nelle diverse occasioni, all’ingrosso e al minuto.

Storia – “Il racconto dei fatti dati per veri” è la celebre definizione che apre l’articolo “Storia” del “Dizionario filosofico” di Voltaire – testo ripreso da quello già scritto per l’“Enciclopedia”. Semplice, ma non come sembra. Voltaire stesso inquadra la sua definizione con due corollari. Bisogna distinguere la storia dalla “favola” - miracoli, prodigi, leggende: un fatto dato per vero non lo è necessariamente. Nelle “Osservazioni sulla storia”, 1742, aveva chiesto allo storico di “fare uso della sua ragione più che della memoria”: “Ciò che manca d’ordinario a quelli che compilano la storia è lo spirito filosofico. La maggior parte, invece di discutere dei fatti con degli uomini, fanno dei racconti ai bambini”.

Fuori dal tempo e dallo spazio l’hanno concepita i suoi primi teorici francesi, Fénelon e Bossuet. Entrambi established, anzi embedded con la corte. In armonia ma in opposizione col pessimismo di Descartes, che lo spirito umano dice portare in sé il suo cattivo genio.

Opera di un Dio ingannatore, secondo Descartes – se ne desume dalla prima “Meditazione”. Che ci ha lasciato per questo il libero arbitrio: ci ha lasciati liberi di sbagliare.

Non è effetto o costrutto della memoria. Che come la testimonianza, compresa quella oculare, è fallace, seppure inconsapevolmente. È certificazione di dati. Anche di testimonianze ma allora incrociate. E ricostruzioni, se non esulano dalle pietre di fondazione.
È beninteso racconto, ma certificato. 

zeulig@antiit.eu

Recessione - 68

L’Italia è il paese Ue con il tasso più basso di crescita del pil, Grecia eccettuata.

L’Italia è il paese della Ue più in ritardo con il recupero dei livelli di reddito pro capite di prima della recssione, meno 6 per cento.

Il debito pubblico aumenta per l’undicesimo anno consecutivo.

Il debito pubblico itaiano è il più alto in assoluto tra i paesi europei, avendo superato tre anni fa il debito tedesco, ch invece è in netta riduzione ogn anno.

Il costo del debito è stato nel 2016 di 66,5 miliardi. Meno degli 83,5 miliardi del 2012, record storico, ma molto di più della Germnaia (43,3 miliardi), e della Francia (41,9 miliardi).

Il peso degli interessi sul debito in rapporto al pil è stato nel 2016 del 4 per cento – dell’1,9 per la Franca, dell’1,4 per la Germania.

La disoccupazione diminuisce ma l’Italia ha la quota di occupazione più basse al mondo della popolazione adulta – ancora più ridotta per i segmenti donne e ventenni (Fomdo Monetario Internazionale).

La religione del sole

Un re stravolto, giusto un nome e un luogo per una storia. La storia del nuovo bene, che è il vecchio paganesimo da restaurare. Sotto forma di un bel giovane, che arriva incognito a corte e incanta prima la regina Rossana, poi lo stesso re, guidato e sorretto dal fido consigliere arabo Idrisi, malgrado avvertimenti e maledizioni della regina e dell’arcivescovo. Il re normanno, il primo della Sicilia, nelle intenzioni del compositore, rifà Penteo nelle “Baccanti” di Euripide: introietta lo scatenamento delle forze dionisiache.
I versi, dello stesso Szymanowski e di Jaroslaw Iwaszkiewicz, esaltano il culto solare di Dioniso, il bel giovane. Si è citato Nietzsche, ma non c’è contrasto: Dioniso è qui anche Apollo, un dio solare che non teme confronti, e non li incontra.
Il libretto è una sorta di cineseria, mielosa, attardata: dell’esotismo che è migliore, attraente, affascinante, immortale. Che la musica però riscatta, sognatrice e avventurosa. E la collocazione, in una Sicilia fiabesca – che però è anche storica, in certo modo: i Normanni si volevano il popolo del Sole, avendo cercato e trovato fortuna scendendo verso Sud, verso il sole. Una passione, quella per l’isola, che Szymanowski condivise col cugino Iwaszkiewicz.
Data in forma concertistica, l’opera è stata cantata dentro una scenografia-video. Di immagini create e proiettate da Masbedo, il duo Massazza-Bedogni, specialisti di video art e installazioni. Immagini molto “poetiche”, che i due artisti in parte proiettano in parte manipolano just in time. Che però curiosamente stridono con l’opera. Forse perché, suggestive in proprio, sono irrelate alla storia. Oppure la musica non tollera immagini, diversivi.
Karol Szymanowski, Re Ruggero, Concerti di Santa Cecilia, Parco dela Musica, Roma

martedì 10 ottobre 2017

Letture - 319

letterautore


Colombo – Un oscuro marinaio italiano, una figura minore delle esplorazione, un mercante di schiavi, uno sterminatore di indiani, una creazione degli americani, che sono tutti stupidi: Colombo non è più popolare negli Stati Uniti. Dopo avere fondato il sentimento americano, nel Settecento, contro il dominio inglese: l’indipedentismo si elaborò attorno al concetto di Columbia.
Ora, all’improvviso, non è più popolare ma per una serie di motivi e in modi controversi. Non è in regola col politicamente corretto, e col il diritto maggioritario delle minoranze. Di cui è campione oltranzista proprio un italo-americano, il sindaco di New York, De Blasio - forse in omaggio alla moglie afroamericana, come se Colombo fosse stato un mercante di schiavi africani. Ma la correzione politica è confusa.
“The Nation”, l’equivalente americano del “Manifesto”, cultore di tutte le minoranze, lo riduceva ieri, The Invention of Christopher Columbus, American Hero”, a “un mediocre marinaio italiano”, e lo fa “sterminatore di massa”. Un signor nessuno: “Prima del tardo Settecento era una nota a pie’ di pagina, senza collegamento con le 13 colonie”. Giustamente, si può dire: Colombo non era legato alle infamie che hanno creato gli Stati Uniti, lo schiavismo e l’eccidio degli indiani. Ne diventò l’emblema col partito indipendentista: “Era la pagina bianca su cui gli americani post-rivoluzione potevano proiettare le virtù che volevano vedere nella loro nuova nazione” – il coraggio, l’intraprendenza, la costanza, ma Burmila non le dice. Era niente e divenne tutto, spiega lo scienziato politico, sottintendendo “gli americani sono scemi”: “Colombo passò da una figura minore nella storia europea delle esplorazioni a eroe americano da un giorno all’altro”. I portoghesi e i vichinghi andavano a pesca già da tempo in America. E altri esploratori del tempo “hanno titoli migliori alla «scoperta»”: il britannico Henry Hudson, Giovanni Caboto, che anche lui navigava per conto della corona britannica, e Giovanni da Verrazzano – il quale, com’è noto, partì per l’America nel 1523, mentre Hudson arriverà solo un secolo dopo Colombo, e Caboto, che partì per il Canada appena cinque anni dopo Colombo, seguiva le sue intuizioni. Ma non c’è niente da fare: “Colombo non era un marinaio di particolare talento, né un successo nella fondazione di una colonia nel Nuovo Mondo”. Bartolomeo de Las Casas, “nella sua storia basata sui racconti degli equipaggi di Colombo, dipinse Colombo come uno per cui l’assassinio era un’attività di svago”. Fu solo l’autore  “delle atrocità inflitte alla popolazione delle Americhe durante la cosiddetta Età dell’Esplorazione” in Europa.
Sullo stesso tono lo stesso giorno la “New York Review of Books” sintetizza Peter Nabokov: “Colombo tornò dal suo secondo viaggio con oltre mille prigionieri, destinati al mercato degli schiavi a Cadice”. Ma l’articolo dice poi il contrario. Nabokov, aurore di numerose ricerche storiche e antropologiche sugli indiani d’America, recensisce una storia della seconda infamia su cui furono edificati gli Stati Uniti, l’asservimento e lo sterminio degli indiani, nella seconda metà dell’Ottocento – “Andrés Reséndez, “The other Slavery: the uncovered Story of Indian Enslavement in America”. Facendo precedere la requisitoria di Reséndez con lo schiavismo in Europa, a partire dal 1441, quando i portoghesi scaricarono un primo blocco di neri mauritani. Presto il commercio degli schiavi si diffuse in Spagna, e la cosa non poteva passare inosservata “a un imprenditore come Colombo”. Poi, sempre per non entrare nel merito del libro che recensisce, si dilunga sull’affetto e l’ammirazione di Colombo per gli indiani Taino delle Bahamas con i quali era entrato in contatto nel primo viaggio. Ne portò sei di ritorno a Barcellona, da presentare ai regnanti, come persone da ammirare, non “beni mobili”. Al suo secondo viaggio portò ai Caraibi, continua Nabokov, 1.500 coloni su 17 navi, che poco alla volta cominciarono a mettere all’opera i Taino. Ma più che i coloni i Taino dovevano temere le altre tribù caraibiche, i cannibali delle Piccole Antille: mangiavano gli uomini e tenevano le donne e i figli come servi….  .   

Colonna visiva – È “perturbante”. Per l’opera “Re Ruggero” all’Accademia Santa Cecilia, Pappano ha disposto un accompagnamento visivo, commissionato a Masbedo (Niccolò Massazza e Iacopo Bedogni), specialisti di video art e installazioni. Ma non è stata la stessa cosa che la colonna sonora di un film: critici e pubblico non hanno gradito perché “si distraevano”.. Per le immagini irrelate all’opera di Szymanowski, ma di più per la “prevalenza” dell’immagine sul sonoro. Tanto più per essere l’opera una novità praticamente assoluta, non nota.
L’immagine sopporta bene l’accompagnamento musicale, e anzi se ne avvale, la musica non sopporta l’immagine. All’opera è diversa, l’immagine è azione e l’opera è canto, canto in azione. L’accompagnamento visivo, la “colonna visiva”, è invece soverchiante – perturbante, si direbbe in gergo freudiano.

Fontane – È lo scrittore “prussiano” per eccellenza di Spengler, “Prussianesimo socialismo”. Ma fu un  tedesco anglo-francese. E il romanzo “L’adultera” concepiva in italiano. È vero che cominciò a scrivere tardi, il primo romanzo a sessant’anni.

Manzoni – È un allievo di Voltaire. È ben voltairiano – immodesto – l’ “Autoritratto” giovanile in versi: “Capel bruno, alta fronte: occhio loquace,\ naso non grande, e non soverchio umìle”. Un po’ audace, con  “l’occhio loquace”. Ma sicuro: “Lingua or spedita or tarda,\ e non mai vile”. Etc.
S’immagina beghino ed era volterriano. Non era irreligioso, cioè massone, ma questo è il lato debole di Voltaire: Un conservatore illuminato – oggi si direbbe “di sinistra”. Un high tory nella sociologia politica inglese. Un “vero liberale”.
Normalmente accatastato come “cattolico liberale, laico e avanzato”, fu un anticonformista sempre. Anche quando propugnava l’ordine, per esempio nel romanzo. Nella “Storia della rivoluzione francese”, per quanto “incompiuta”, cioè non portata a termine (dopo quasi 400 pagine), molto controcorrente nell’Ottocento, si pone “a destra”, con una critica “radicale” – in realtà molto equilibrata. Ma che ne avrebbe detto Voltare, che era un realista, della rivoluzione – il regicidio, la dittatura, la ghigliottina?
Manzoni aveva sicuro giudizio politico.  

Marx – Anche Marx Spenger voleva prussiano. Per questo aperto all’Europa: appassionato della Francia e quindi egualitario, residente a Londra e dunque mercantilista e moralista.

Turismo – Una volta si facevano le foto dei luoghi visitati e se ne compravano le cartoline. Ora si fa in selfie: il viaggiatore immortala se stesso.

Voltaire – Per sessant’anni, fino al 1752, fu uno dell’establishment reale, ben solido. Studia dai gesuiti, è segretario dell’ambasciatore all’Aia, frequenta la corte. Per aver ironizzato sugli amori di Filippo di Orléans, il reggente, passa alcune notti alla Bastiglia, ma subito poi, appena libero dall tutela,  il re Luigi XV gli fa accordare una pensione dalla regina. Si dedica a operazioni finanziarie, con successo. Per avere avviato la polemica anticristiana, comincia un rapporto stretto con Federico II di Prussia. Per lo stesso motivo  è costretto a lasciare Parigi, ma vive comodamente in casa di Mme du Chatelêt a Cirey in Borgogna, va a incontrare Federico II, e nel 1843 è inviato dal ministro degli Esteri d’Argenson, suo ex condiscepolo, a Berlino per sondare Federico II, alleato instabile della Francia nella Guerra dei Sette Anni. Al ritorno è nominato storiografo del re, ed eletto all’Accademia. Per uno scandalo di corte deve lasciare nuovamente Parigi e si reca a Lunéville, non lontano da Nancy, in casa dell’ex re di Polonia Stanislas Leczynski. Quindi a Berlino ciambellano di Federico II di Prussia per un paio d’anni. Espulso da Berlino a fine 1752, e interdetto di soggiorno in Francia, sempre per l’antireligiosità, diventa allora il Voltaire solforoso.

Torma uomo dell’ establishment vent’anni dopo, all’avvento al trono di Luigi XVI. Il ministro Turgot è suo amico – gli fa un editto per eliminare la dogana tra Ferney e Ginevra. A Ferney Votaire ha creato una fabbrica di orologi e una di calze, che si vendono in tutta Eropa. Il sostengo alla rivoluzione americana esprime con una stroncatura di Shakespeare. Passa gli ultimi mesi di vita a Parigi, tra cerimonie e visite importanti, mentre si fa l’edizione completa delle sue opere, su iniziativa di Beaumarchais.

letterautore@antiit.eu

La forza della tribù

Un formidabile racconto, benché senza trama e intessuto di vita quotidiana. E un – non involontario? – trattato di antropologia dal vivo, sul campo: di una tribù di zingari sedentari, degli “italiani”, degli africani stagionali nella tendopoli tra Rosarno e San Ferdinando. Ripreso alla Abel Ferrara, con primissimi piani, scuri, retroilluminati alla Caravaggio – bastano poche immagini fisse, qua e là, per situare l’azione. Ma dominato dal fatto linguistico: un uso sapiente dell’espressione sonora che caratterizza forse più che le immagini. Per la varietà delle espressioni nell’apparente uniformità, tutte individualizzanti, in ogni circostanza. Grazie all’uso – alla capacità di uso – estensivo del dialetto nelle sue forme caratteristiche: ellissi, affermative-interrogative, pause. Queste soprattuto: molto senso è nel non detto, pause e omissioni, molto potendosi dare per inteso - è il privilegio e la prigione dei nuclei chiusi, al modo degli Ik di Turnbull, “Il popolo della montagna”, il classico degli studi tribali.
Un racconto denso, e molto propositivo, di legami familiari, amicizia, abitudini, vizi, orizzonti chiusi. Personaggi e aneddoti non si dimenticano, sebbene caratterizzati al minimo, la cifra del racconto è l’understatement, E un ancora più robusto documento antropologico, seppure in forma di narrazione. Degli assetti familiari e tribali – gli Amato, gli “italiani” (i mafiosi), i “marocchini” (gli africani). Delle relazioni reciproche. Dei linguaggi.
Il linguaggio parlato, in aggiunta a quello visivo, è pregno – sono linguaggi finti poveri, più densi per questo. Per un uso meticolosamente realista delle espressioni, anche ordinarie. Fino alla cura degli accenti – come già fece Coppola nel “Padrino”, la parte seconda: vibrazioni impercettibili fra espressioni apparentemente identiche segnalano diversità sostanziali. Il dialetto di un posto non è quello dell’altro, per quanto contiguo e anche mescolato - è la norma nelle società chiuse, di clan o  tribù. O nello stesso posto di gruppi sociali diversi, qui tra gli Amato e gli “italiani”.
Filologicamente corretto anche nelle figurazioni: non c’è corporatura, camminata, espressione, posa, atteggiamento fuori posto, tutto vero. Specialmente meticolosa, aderente, realista, la scelta dei visi e le conformazioni fisiche. In una della decina di scene che compongono il film, del protagonista, il ragazzo Pio, che si avventura a rubare in casa di un “italiano”, questo viene inquadrato nelle foto sul comò in una successione che è il racconto di una vita: ragazzo confidente, giovane curato, sposino realizzato, uomo di panza di cui non vogliamo sapere, marito e padre diligente.
Il tutto è d’invenzione di Jonas Carpignano, soggetto, sceneggiatura, e regia - produttore Scorsese. Ma non è un film d’oriundo, le radici italiane di Carpignano sono sporadiche: niente sentimentalismi. Di passione civile forse, ma senza melensaggini – al politicamente corretto, anzi, il racconto può risultare razzista (probabilmente per questo se ne parla poco, non è “corretto”). “A ciambra”, filamento, rimasuglio, che si dice della carne in macelleria, il bordo nervoso o grasso che si ritaglia da dare in pasto agli animali, o la striscia informe rimasta fuori dai buoni tagli, è la borgata rom costruita lungo il Petrace, tra le marine di Gioia Tauro e di Palmi. Da dove la famiglia Amato – tutti attori del film, una trentina almeno di persone, in ruoli di varia incidenza, da Pio e la mamma matriarca onnipresenti, al padre, il nonno, i fratelli e le sorelle, piccoli e grandi, i nipoti. Zingari ladri, di elettricità e di rame, di macchine, nelle case, sui treni, e della refurtiva di altri ladri. Indifferenti al valore del denaro, dieci euro e novemila non fanno differenza. O ai telefonini, ai motorini, alle machine, a ogni cosa. Al carcere. Alla sporcizia. Dopo “Il popolo della montagna” si citerà “A ciambra”.
L’applicazione antropologica si dispiega anche comparativamente. Al confronto inevitabile degli Amato con gli “italiani”, e con i “marocchini”. L’accampamento degli africani stagionali tra Rosarno e San Ferdinando è un altro mondo, diverso radicalmente. Benché visto solo nel tempo libero, dela distenzione e la festa, è un mondo a sé, non sottomesso, non piagnone. Senza perbenismo: le donne equivoche si divertono come tutti. Senza vergogna: ognno è a suo modo curato e gode a divertirsi – è l’Africa.
Il film riprende due personaggi della prima opera di Carpignano due anni fa, “Mediterranea”, sugli africani di Rosarno. Con le due figure centrali di Pio Amato, il ragazzo, e Ayva, Khoudous Seihon, il nero che fa il ladro come il fratello di Pio ma vuole tirarsene fuori.
Jonas Carpignano, A ciambra

lunedì 9 ottobre 2017

Problemi di base bancari - 360

spock

Perché i fondi delle banche sono sempre in perdita?

E le assicurazioni inutili?

Perché la Borsa di Milano è così fraudolenta?

Perché lavorare per le banche?

Perché salvare le banche, non conviene ridare i soldi ai correntisti?

Perché la banca vuole essere truffaldina?

Ma la Bce vuole salvare le banche, oppure affondarle?

Perché la Bce punisce ogni pochi giorni le banche?


O vuole che si vendano, ma a chi – a Goldman Sachs?

spock@antiit.eu

La globalizzazione oltre i suoi (de)meriti

Singolare preveggenza di Martin Albrow nel suo contributo, centrato sugli effetti della globalizzazione negli Stati Uniti: rischia di avare, affermava, un effetto alienante sull’identità americana. Trump non è menzionato naturalmente, ma era previsto. La sfida è inedita, scriveva il sociologo politico britannico: nell’era globale gli Stati Uniti sono identificati dal grande mondo con gli stessi loro valori, avocandoseli. Per la prima volta nella storia, concludeva, gli Usa sono appropriati da mondi altri. Come dire anche: una sfida a armi pari. Opure: il mondo sfida l’America con le sue armi.
Non è la sola anticipazione: la raccolta di saggi, preparata prima ma uscita dopo l’11 settembre, necessitava di un aggioramento, e a questo I curatori hanno provveduto con la cateogia del “terrorismo globale”: globale è anche il terrorismo, già nel 2000.
Non è una rassefna rassicurate. E manca la globalizzazione dell’informazione attraverso internet e i social media, ben più potente e impegnativa (dissolutiva?) del commercio e della finanza.
C’è una filosofia della gobalizaazione? C’è piuttosto un’ideologia: libero è bello. Ma anche una filosofia, nel senso di razionalità: cosa è e cosa vuole la globalizzazione, l’ideologia imperante del mrrcato. E tuttavia c’è, sottotraccia, una filosofia dietro il concetto: che è forse troppo astrarre, poiché il concetto è storico – per lo stesso motivo che i curatori rifiutano i discorsi della “fine” che il pensiero unico in principio aveva tentato: “fine della geografia, della storia, della modernità, della politica”. Ma giungono anche loro a una fine, la globalizzazione, che è un fatto storico, recente, e già in crisi, assunto come un riassetto epocale, e non politico – tattico, strategico. Un salto senza ritorno, sembra di capire - come fu l’umanesimo nel Qattrocento, la scoperta nel Cinquecento, la scienza nel Seicento, l’illuminismo nel Settecento, e il romanticismo in una col nazionalismo dei primati nell’Ottocento, che si è prolungato per tutto il Novecento al coperto delle ideologie risolutive e salvifiche? Le “trasformazioni epocali” che i curatori adombrano, dei concetti base della civiltà moderna e contemponea, sono discutibili.
Non è il solo punto critico. La globalizzazione è fuori dell’Occidente, spiega Daniela Belliti. Ma è ben occidenale: voluta e governata dall’Occidente, per un “suo” modo di essere, dei bilanci aziendali e della finanza creativa.
È però vero che questi concetti base sono intaccati e trasformati: la razionalità, il progetto, il progresso – e si dovrebbe aggiungere la socialità.Non c’è più un razionale agire weberiano, orientate allo scopo, garantito dal patto tra Stato e individui che contemperi l’ordine politico e le soddisfazioni personali. C’è una deregulation anarcodie, a favore del più forte, un mercato si direbbe hobesiamo. Il controllo non è più possibile che fondava l progetto: per la stessa deregulation,  per la velcizzazione dei processi. L’idea di progresso, peraltro già in crisi, viene del tutto delegittimata dai nuovi milenarismi – i curator li prendono in senso positive, ma sono millenarismi, “nucleari, ambientali, virali”.
La globalizzazione non è un “mito”, certamente, è un fatto Ma niente di più: è un modio di essere (porsi) del commercio internazionale. All’insegna del liberismo. Non nuovo: è l’applicazione dei Navigation Act senza la Marina britannica. È lo scambio internazionale in buona misura ricardiano, riportato alle regole di Ricardo del vantaggio comparato, con l’abolizoone di dazi e contingenti.
Non risolve, ma non le jugula, le esigenze  di libertà e uguaglianza. Anzi le raffoza. In tutta l’Asia immensa, e in America latina – Perù e Cile, lo stesso Brasile, lo stesso Messico, e la in qualche modo anche la Colonbia e l’Argentina.
Né è da trascurare l’effetto constantiano, del commerio migliore – più produttivo – della guerra. La globalizzazione non è la pace universale, non si può presumere troppo, ma è stata ed è una forte disinnescatrice dei conflitti armati. Anche sugli Stati, come spiega nel suo saggio Saskia Sassen: l’effetto della globalizzazione è ancipite, ne diluisce e insieme ne accresce (moltiplica) i poteri, regolatori e di adempimento.
Più in generale, D’Andrea ne rileva l’ambivalenza. Perr il “postulato moderno di una soggetività atutonoma e gelosa della propria individualità, capace di decisione e di controllo sul mondo, che aderisce ora passivamente al dilagante conformismo e all’omologazione di un pianeta attraversato da processi di «macdonaldizzazione», salvo poi chiudersi nello spazio rassicurante delle culture e delle appartenenze locali”. Un paradosso che Elena Pulcini scioglie negativamente: la radicalizzazione patologica dell’Io postmoderno porta a crisi il legame sociale, nel menre che lo ricostituisce in forme “regressive e distruttive”.
Questo è vero, ma lo era prima della globalizzazione, e ne è indipendente – è la superfetazone degli individualism (protagonismi) con la crisi delle ideologie, e la metastasi dell’informazione. .
Dimitri D’Andrea-Elena Pulcini (a cura di), Filosofie della globalizzazione, Ets, pp. 294 € 18

domenica 8 ottobre 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (341)

Giuseppe Leuzzi

Arrivati al dunque, in Catalogna, gli interessi si mettono in salvo. Il leghismo è di facciata, una pratica promozionale, per vendere un’unità in più.
Una promozione odiosa, che si potrebbe facilmente contrastare comprando un’unità in meno. Ma non avviene: la prepotenza paga. È l’effetto peggiore del leghismo, l’induzione alla subordinazione.

“Se non siamo gangster non ci considerano”, riflette lo scrittore newyorchese Gay Talese alla vigilia del Columbus Day, la festa annuale degli italoamericani – una festa turbata quest’anno dal proposito del correttismo americano di eliminare ogni ricordo di Colombo. Considerare è la parola giusta: tenere in conto, temere anche. È la potenza del male? È un modo di essere dell’opinione pubblica, che si conforma sugli esiti forti, anche cattivi e malvagi.

Colombo non è uno sterminatore. Né uno sfruttatore. È un uomo intelligente e coraggioso. Ma l’America corretta trova comodo prendersela con lui, evitando di mettere in causa gli sterminatori di indiani nell’Ottocento, o i negrieri del Cinque-Seicento, i veri artefici della “conquista”.  Perché così ragiona un certo razzismo, del Nord e del Sud, e Colombo è uno del Sud, italiano, cattolico, con navi spagnole.

Pierluigi Panza con le sue ricerche, e la mostra a Roma a palazzo Braschi documentano un Piranesi attivissimo mercante di antichità che scavava e trafugava anche personalmente. A metà Settecento, malgrado le bolle papali interdicessero la vendita dei reperti. “Piranesi si è arricchito sopra 100 mila scudi”, calcolava sdegnato l’architetto Vanvitelli. Che era napoletano – certo, di origine olandese. Piranesi era veneziano.

Il dialetto come lingua
Non ci sono molti film sulla Calabria, una dozzina, più o meno, e forse per questo il film di Jonas Carpignano, “A ciambra”, dopo il non fortunato “Mediterranea” (lo ha proiettato solo Nanni Moretti a Roma, ma solo per un paio di giorni, non ne esiste nemmeno il dvd, che pure si fa di tutto), si staglia monumentale. Un film sul nulla, la vita quotidiana di un ladruncolo della tribù degli Amato stanziata al fiume Petrace, tra la marina di Gioia Tauro e quella di Palmi. Ma robusto, e anche memorabile, per all’uso – la capacità di uso – estensivo del dialetto nelle sue forme caratteristiche:  ellissi, affermativa-interrogativa, pausa, Questa soprattutto. Il film è parlato in dialetto stretto, non adattato a una pronuncia italianizzata, come è l’uso nei film, per una comprensione allargata. Filologicamente sempre accurato, nella dizione e nello spirito,  quella dei rom più contratta degli “italiani” (i mafiosi) - maniacale, si direbbe, nella precisione linguistica, e anche glottologica. Accurato pure figurativamente: non c’è corporatura, atteggiamento, gesto, passo, sguardo, segno di qualsiasi tipo, fuori posto, tutto vero. Nella stessa naturalezza rientra lo slittamento periodico all’italiano, in forma di ripetizione retorica in traduzione, o per una maggiore comprensione tra i dialoganti, soprattutto a suggello di un impegno, un accordo.
Non c’è un trattato sugli zingari sedentarizzati, che sarebbe invece interessante, oltre che utile. Né c’è, dopo Rohlfs, nessun ragionamento sui dialetti: la natura, l’estensione, il senso, la capacità (specificità) comunicativa. Molto senso del non detto, pause e omissioni, molto potendosi dare per inteso, è il privilegio e la prigione dei nuclei chiusi, del clan – la tribù del tempo di Colin Turbull mezzo secolo fa, “Il popolo della montagna”. Lo scherzo sempre, l’ironia, il gioco, anche crudele.
Il film di Carpignano ha indubbiamente un forte carica identitaria. In senso proprio, come la parola si intende oggi, su fondo razziale se non razzista: esclusiva, armata – alla maniera degli Ik di Turnbull,  vendicatori cupi affaccendati. Ma poi, per comunicare, la lingua è necessaria. Nel film si passa alla lingua per  slittamento inavvertito, ma sempre a suggello - di una promessa, un patto, un’intesa.
Il dialetto non è una corazza. È la lingua dell’essere, e il primo vincolo di socievolezza. Ma necessario, comunque utile, a favorire un’integrazione più vasta, in un quadro sociale più vasto che non quello tribale, nazionale, internazionale. Essere venuti al mondo senza una nicchia consente la stessa esperienza e forse una migliore? È possibile. Ma per chi viene da un gruppo chiuso non c’è altra possibilità di espressione se non il linguaggio del gruppo.

Liggio alla Rai
Camilleri ha un aneddoto, fra i tanti di “Esercizi di memoria”, su Luciano Liggio che dall’ergastolo fa chiedere un incontro per commissionargli uno sceneggiato sulle sue imprese, garantendogli novità importanti sui tanti delitti per cui è condannato – verità scomode taciute nei processi. Camilleri, elettrizzato, accetta l’incontro, ma dice all’intermediario che difficilmente la Rai programmerà un tale sceneggiato. In attesa trepido della convocazione, passano due settimane. Infine l’intermediario si rifà vivo ma per dire: “Luciano è desolato di averle fatto perdere del tempo, ma si è informato e ha avuto una risposta negativa”. Sbalordimento di Camilleri: “Scusi, su cosa si è informato?” “Sull’eventualità da lei accennata che la Rai non accettasse uno sceneggiato su di lui, e ha avuto la conferma del suo dubbio, la Rai non lo trasmetterebbe”. Liggio alla Rai ci arrivava prima.

Nani e fate
Mark Twain, in crociera nel 1867, arriva alle due di notte allo Stretto di Messina, d’inverno, ma “il chiaro di luna”, scrive, “era così brillante che l’Italia da un lato e la Sicilia dall’altro si vedevano così distintamente come se non fossero separate che dalla larghezza di una strada”.
Messina, cittadona oggi informe, di passaggio per il traffico col continente, Twain dice fiabesca: “La città di Messina, di un bianco di latte, stellata e scintillante di lampioni, era uno spettacolo fatato”.
A Istanbul invece ha un ricordo repentino: “C’è un’enormità di nani in tutta l’Italia. Ma mi è sembrato che a Milano la messe fosse eccezionale”. Dopo aver precisato: “Se volete dei nani – voglio dire, soltanto alcuni nani, per curiosità – andate a Genova. Se volete acquistarli a dozzine per rivenderli al dettaglio, andate a Milano”.

Napoli val bene un pregiudizio
 Due tratti caratteristici Mark Twain coglie nel sua esplorazione del Mediterraneo, “Il viaggio degli innocenti”: “l’aria subdola ma ossequiosa” degli innumerevoli postulanti, la crudeltà col cuore in mano. Fa il caso di una recita straordinaria al San Carlo cui ha assistito, di migliaia di persone che hanno pagato per spernacchiare una cantante, Frezzolini, un tempo bella e brava, molto ammirata. che vuole in vecchiaia una serata d’addio, E spernacchiandola si sono molto divertiti. “Uno spettacolo estremamente crudele, impudico, impietoso”: “Ogni volta che quella donna cantava, fischiavano e ridevano, il teatro tutto intero; e quando ha lasciato la scena, l’hanno richiamata con applausi. E come si divertivano quei mascalzoni ben nati…”.
Una curiosità Mark Twain aggiunge degna di nota. Spiega che il napoletano chiede due volte il dovuto, e quando lo ha ottenuto chiede di più. E lo esemplifica con un aneddoto probabilmente falso, molto napoletano. Un forestiero prende una corsa in carrozza che cosa 50 centesimi. Per vedere l’effetto che fa, paga con cinque lire. Il vetturino dice “no, no”, e rincara. Rincara fino ad arrivare a 7 lire, dopodiché chiede ancora di più. Il forestiero si fa ridare le 7 lire per darne 10, ma poi si limita a dare una moneta da 50 centesimi. Al che il vetturino ringrazia e chiede 2 centesimi di mancia “per una bevuta”.
Lo scrittore chiude commentandosi: “Si può pensare che ho dei pregiudizi. Forse ne ho. Mi vergognerei di non averne”. 
Napoli val bene un pregiudizio? Supera ogni logica.

leuzzi@antiit.eu

Il museo Piranesi è all’estero

Pierluigi Panza, già autore di “La croce e la sfinge. Vita scellerata di Giovan Battista Piranesi”, ritorna sul suo personaggio. Con dovizia di documentazione – oltre 400 illustrazioni. Per piranesiani e non: la ricostruzione degli affari dell’incisore si legge come un racconto a ogni pagina sorprendente. 
Piranesi fu ingenegnere, architetto, incisore, calcografo, e tombarolo, contrabbandiere di reperti archeologici. Un commerciante di antichità, con bottega a Trinità dei Monti, nei pressi. Molto abile, come venditore, e come apprestatore delle opere da rivendere. Un po’ contrabbandiere, stanti le reiterate bolle papali contro la dispersione o l’alterazione del patrimonio archeologico. Ma, poi, ognuno aveva libertà di scavo a Roma e negli Stati romani a metà Settecento: ben 64 cantieri Panza conta di scavi inglesi autorizzati.
Moltissimi reperti venduti da Piranesi andarono all’estero. Panza ne identifica 270: teste, busti, vasi, candelabri, bassorilievi, cippi. Oggi disseminati tra 43 musei e collezioni private. La raccolta più cospicua è a Stoccolma, dono del re Gustavo III. I sovrani svedesi a lungo furono di casa a Roma, fino al sovrano regnante, e Gustavo III in un solo viaggio si portò via 96 pezzi.
“Piranesi si è arricchito sopra 100 mila scudi”, calcolava sdegnato l’architetto Vanvitelli. Che era napoletano – certo, di origine olandese. Piranesi era veneziano.
Pierlugi Panza, Museo Piranesi, Skira, pp. 582, ill. € 45