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sabato 25 novembre 2017

Problemi di base kantiani bis - 374

spock

“Una donna giovane farà molto meglio la felicità coniugale con un uomo notevolmente più vecchio, se sano”?

“La donna vuole dominare, l’uomo essere dominato?”

“La donna vuole dominare - anche la donna “rosea”?

L’uomo è geloso quando ama, la donna lo è anche senza amare”?

La donna in amore deve apparire fredda, l’uomo per contro passionale”?

“Le proprietà del sesso femminile sono più delle maschili argomento di studio per il filosofo”?

Kant non traspirava mai, “né di notte né di giorno” (De Quincey)?

spock@antiit.eu


Stendhal incompiuto voyeur

Una delle tante raccolte di  testi narrativi non finiti oppure abbandonati in abbozzo. Romanzi incompiuti, anche per inconcludenza, romanzi falliti, abbozzi senza future, esercizi di “una penna all’improvviso private della sua maestria”. Ma preceduta da un ottimo saggio di Michel Crouzet, “De l’inachèvement”, dell’incompiytezza, e se guitar da note utili.
Perché Stendhal abbozzava tanto e si applicava poco. Effetto dell’ego? “Volendo essere «un po’ più intimo con se stesso di quanto non lo sia con se stessa la comunità degli Io», l’ego stendhaliano urta contro una specie di corpo estraneo che lo separa da sé”. O non è piuttosto l’isolamento, il mancato commercio letterario, con editori, critici, autori, specie nei lunghi anni in Italia? Ma Stendhal è sempre stato quello che fu da ragazzo, un provinciale a Parigi, fuori ruolo. Il che non gli ha precluso di scrivere a Parigi, nei quindici anni della Restaurazione e dell’isolamento politico, molto e bene.
Stendhal aveva anche il culto della perfezione, nota Crouzet. E anche questo può portare all’incompiutezza. Impiegò “lunghi mesi” a ricominciare “Lamiel”, senza effetto. Crouzet dice “Lamiel” fallito anche per “errori di mestiere”. Ma su questo aspetto, delle riscritture fallite, un altro aspetto è da mettere in evidenza: il rifiuto del cavallo di razza. Che va bene e benissimo ed è imprendibile, ma a volte imbizzarrisce, e non c’è verso di rimetterlo in corsa. Stendhal non era scrittore di mestiere, di ricette, di segreti artiginali.
Una curiosoa celebrazione in forma di limitazione: come e perché Stendhal scrisse poco – Stendhal è robusto abbastanza per avere deli “amici” che si applicano soprattutto si suoi limiti. In realtà scrisse molto. Fra diari, libri di viaggio o guide (musicali, artistiche), è smpre lo stesso, pieno di umori. I due romanzi che portò a termine – in realtà troncò – e i racconti non stanno a parte nell’opera di Stendhal.
Molto Crouzet recupera di un vecchio saggio di Jean Prévost, “La création chez Stendhal”. Di Stendhal prigioniero della sua stessa “mania di analisi”. E della dissertazione morale, da maestrino.
Si conferma il voyeurismo di Stendhal in materia erotica, anche in tutti questi abbozzi e aborti. Un erotismo che “schiva sempre la materialità del possesso”. Non angelico, ma mai fattuale.
Molto di questo “non finito” è peraltro un caso di ottima gestione testamentaria. Un culto sapiente. Creato con la pubblicazione sparsa delle carte del lascito. A cura degli happy few e di Romain Colomb, il cugino letterato, che hanno gestito con sapienza il lascito e il nome. Sono scarti come tutti gli scrittori ne hanno.
Stendhal, Romans abandonnés 

venerdì 24 novembre 2017

Ombre - 392

Di Maio scrive a Macron, Renzi gli chiede udienza, Parigi val bene un messa? Di uno che non fa che combattere l’Italia in ogni piega, Tim, Mediaset, i cantieri, e soprattutto in Libia. Bisognerebbe licenziarli solo per questo.
Di Maio addirittura scrive a Macron per giustificarsi: non siamo cattivi, siamo buoni.

Enzo Carra, che coi ferri ai polsi fu esibito a Milano quale immagine della corruzione della Repubblica, vuole il voto cattolico schierato con chi lo fece arrestare e esibire, gli ex Pci. Ai ferri stile Cayenna della foto immagine mancavano le catene alle caviglie, è vero.
E poi Carra è stato assolto, si capisce che si agiti.

Scalfari: “Berlusconi? Tra lui e Di Maio voterei lui”. Diluvio: rete scatenata, “la Repubbica” nei guai, precisazioni e marce indietro. Non si può dire la verità, che una Roma è già grillina, con una Di Maio al femminile, con effetti nefasti.


Interlocutore di Scalfari nella contestazione diventa Travaglio. E questo è anche peggio: non è più una querelle politica, ma un segno dei tempi. Del giornalismo del Millennio.

Uno studente russo viene invitato a parlare al Bundestag, per dire che i soldati tedeschi a Stalingrado erano “innocenti che non volevano combattere”. Il revisionismo non si dichiara ma è ben astuto: 1) i soldati tedeschi erano povere vittime di Hitler, 2) in realtà i tedeschi non furono sconfitti a Stalingrado.

“la Repubblica” si promuove, lanciando il restyling grafico, con Trump, “L’inizio o la fine?”, e Berlusconi, “Passato o futuro?”. I due nemici. Come un giornale del risentimento, vecchio, costante, stantio. Anche il marketing è nuovo? O è l’eutanasia che il giornale propugna?

Dimesso dai 5 Stelle a Roma il dg Ama nomInato dai 5 Stelle. Stefano Bina aveva avuto troppe pressioni per far fuori i dirigenti “poco fedeli” al movimento, e se ne era lamentato. Dov’è la novità? Che la Dc non lo avrebbe licenziato.

Crollano ogni anno, ogni mese, le vendita e la pubblicità sui giornali. Che non oppongono altro rimedio, dopo la femminilizzazione e la settimanalizzazione, che inseguire la rete. È sempre meglio che lavorare?

Non è preoccupata la Germania per l’impasse di Angela Merkel, sa che dopo di lei ci sarà qualcun altro a fare il governo. Nemmeno altrove se ne fa molto caso, solo in Italia: la possibilità che il dominio della cancelliera sia finito riempie molte pagine, drammatiche. Sarà il mammismo?

Il Pd non è scomparso a Ostia, e anzi è all’attacco. di Ostia subito all’attacco. Domenica ha eletto sindachina la 5 Stelle Giuliana Di Pillo, insegnante di sostegno. Martedì passa all’attacco: “Piano M5S aria ritta. Una mistificazione”. Domani è un altro giorno, certo, ma la coscienza? I Dem ci tengono, a essere puliti.

Dopo Ostia si può dire destra e sinistra “unite nella lotta”: corrono alla rovina. Sono infatti loro a far trionfare i grillini quando al ballottaggio concorrono con uno di sinistra oppure di destra. Dopo cinque anni, dopo Torino e Roma, se li ritroveranno ‘n coppa alle politiche? Sarà l’esito della loro pochezza – che allora è enorme.

Non c’è dubbio che l’arbitro Rocchi del derby romano fischia in favore della Roma: ammonizioni, rimproveri, rigori, tutti gli errori-non-errori sempre da una parte. Lavora per le scommesse? Lavora contro Lotito, il presidente della Lazio, che ora è contro Tavecchio, il presidente della Federazione Calcio che lui stesso aveva scelto?

Il giorno dopo Rocchi sarà giudicato dai cronisti sportivi il miglior arbitro della giornata, e forse della stagione. La sconfitta della Lazio ha pagato bene?  

La sindaca di Torino Appendino candida la città per l’Olimpiade invernale 2026. Che non potrà avere – che sa di non poter avere. Dopo che la sua compagna di partito Raggi ha affossato l’Olimpiade certa a Roma. La stupidità esiste, ma degli elettori.
Torino non può avere l’Olimpiade invernale perché l’ha avuta nel 2006. E perché la prossima sarà decisa a Milano, Italia, e l’Italia non può porre candidature.

Dopo il voto in Sicilia, “The New York Times” ospita un’opinione di Severgnini, come uno che sa scrivere in inglese, sui 5 Stelle. Di cui dice le verità che sappiamo, che è accreditato di un terzo del voto nazionale, anche se non si sa per che cosa verrà votato. “Ha una facciata di destra, su fondamenta di sinistra, e un tetto anarchico”, sintetizza Sevegnini. Ma poi dice male di Di Maio. Cioè dice quello Di Maio che è. Diluvio. I grillini non hanno ancora il governo ma sono già al culto della pesonalità. 

Joyce innamorato a Trieste

Renzo Stefano Crivelli, professore all’università di Trieste, scrittore in proprio, cura la traccia forse più raffinata, ancorché criptica, di Joyce nell’amata Trieste: il poema in prosa che lasciò inedito, sedici pagine autografe (sarà pubblicato nel 1968 dal biografo Richard Ellmann, col titolo “Giacomo Joyce”). Lo interpreta e lo ripropone in traduzione.
È il poema di un amore che non può essere. Che le biografie inviduano in una relazione platonica del Joyce insegnante privato di lingua con una delle allieve. Un insegnante imbranato. Francesco Binni, il curatore della prima traduzione italiana del poemetto, dava al Giacomo del taccuino i tratti che Joyce assegnava allo scrittore irlandese Charles Mangan, in un saggio del 1902 poi trasformato in conferenza all’università Popolare di Trieste nel 1907: “Un improbabile gallant «troppo timido,tropo critic, troppo inesperto delle affabilità del conversare», un character che ha bisogno di «excesses» per salvarsi dall’indifferenza e dal pericolo del congenito riserbo difensivo”.
Vent’anni fa una mostra a Trieste, a cura di Simonetta Chiabrando e Erik Schneider, esibiva tre fanciulle come possibili dedicatarie-protagoniste del poemetto: Annie Schleimmer, Emma Cuzzi e Amalia Popper. Emma e Amalia, tra le quali Crivelli oscilla, sono un po’ autocandidate. Ma Emma era del 1896,  troppo giovane allora per una relazione che Joyce intendeva seria. Contemplò, pare, pure l’abbandono di Nora, che aveva appena sposat, ma parlaimo del 1905, quando Emma aveva nove anni. Annie, figlia di commercianti tedeschi, cattolici, filoaustriaci, era del 1881: era una bella donna e un’ottima pianista, frequentò Joyce nel 1905, quando aveva 24 anni, ebbe con lui sicuramente una relazione, ed è indiziata per essere “l’altra donna” di una lettera di Joyce del 1905, quando accenna alla zia Josephine la possibilità di una divisione da Nora. Ma il “Giacomo Joyce” è la poesia di un amore che avrebbe potuto essere e non fu. Amalia Popper ha quindi i maggiori titoli a esserbe la musa.
Il dato più importante, che a Crivelli non interessa, è però, sia il poemetto del 1906-7 o del 1913-4, il mutamento di linguaggio. Verso l’asintattico e il suggestivo invece del regolamentare connotativo. E da questo punto di vista la seconda datazione è la più probabile. Nei primi anni in Italia, a Trieste e a Roma, Joyce scriveva i racconti di “Gente di Dublino”. Mentre nel 1913-4 c’era stato l’incontro, a Trieste, di Joyce con Ezra Pound, che sarà influenza determinante sul suo futuro di scrittore: sulla lingua, e sugli esiti editoriali.

Ellmann lo data con certezza “nello stesso periodo in cui lo scrittore stave terminando «A Portrait of the Artist as a Young Man» e iniziando «Ulysses»”, quindi 1913-14. Anzi, “la data più verosimile per la versione finale è luglio o agosto 1914”. Ed era sotto l’influsso, sostiene Ellmann, di “Senilità”: del “metodo narrativo di Joyce – autoriduzione seguita da autoredenzione per via d’ingegno”, e di un vecchio-giovane come sarà Bloom, in realtà solo trentacinquenne.
Renzo S. Crivelli, Un amore di Giacomo Castelvecchi, pp. 106 € 17,50


giovedì 23 novembre 2017

Secondi pensieri (327)

zeulig

America – Subisce da mezzo secolo ormai, dal Vietnam, rovesci e violenze, molte auto inflitte. Senza più l’innocenza, ma aggrappata persiste al dominio dell’immagine, essendo in segreto paese d’improsatori. Che ama la morte all’evidenza, nel vitalismo - qualcuno si tiene in salotto la Porsche insanguinata nella quale James Dean morì, che ha rubato al deposito giudiziario.

Anima - Le anime sono nella Bibbia, che dopo morte le considera esistenti ma inerti. Dio non se ne curava. Renard, scrittore non eccelso, ne ammette poche in paradiso: “È ammissibile”, di-ce, “che a un’anima di qualità inferiore sia concessa l’immortalità?”

Essere – È ambiguo. Conrad censisce una ambigua “disponibilità a essere ma anche a non essere”. C’è per questo un dovere di essere, dichiararsi, nominarsi – all’anagrafe, in conversazione e al confessionale?

Eterno Femminino – È nozione di Goethe legata alla sua opera poetica, ala Margherita del “Faust”, ma si senso metafisico, e anche storico. È la forza interna all’universo, che lo forma e lo regge. Dell’universo goethiano, senza colpa e quindi senza redenzione  senza il bisogno del pentimento. Ma con errori. O amore spirituale soprasensibile e ultraterreno, calato nel principio della femminilità. Della procreazione-creazione – amore, Liebe, è del resto femminile.

Hitler - “La cultura di Hitler non importa”, diceva Heidegger a Jaspers, “poiché ha bellissime mani”. Ma per trovare bello Hitler la cultura importa molto.

Islam – È forte per l’assenza del peccato, del male. O non ne è minato? È consolatore, in ogni circostanza, anche la più abietta, ma non è critico: è una debolezza o una forza?
Le sue strutture sociali e politiche, che a ogni criterio si direbbero obsolete e deboli, sono invece stabili, per essere un modo di vita consono a una escatologia non drammatica, non traumatica. Si è innestato su una società nomadica, e quindi tribale, e quindi agitata da continue lotte, che si è presto ammansita – o trova conveniente farlo – in questa non più concorrenziale metamorfosi comunitaria. Fino all’abulia, o accettazione passiva, che si rimprovera (rimproverava) politicamente al mondo islamico.
Il male l’islam ipostatizza e proietta all’esterno della comunità dei redenti. Ma solo nel mondo arabo (anche berbero), ancora estremamente competitivo di suo, come è di ogni civiltà nomade.

Morte – È infettiva. Chi se ne va si porta via un pezzo, di voglia, d’impegno.

Può fare di ognuno un eletto, anche della vita più riposta, nelle opere, nel ricordo.
C’è nella morte un aspetto buono: ognuno riprende la compostezza, non più sopraffatto dalle banalità della vita, nei suoi aspetti felici e beneaugurati, che può invocare. È questa l’essenza degli angeli, per i quali la vita non è che accidente.

Usa rappresentarla grifagna, per la cattiveria, ma è giovane - anche se ha una lunga storia, eterna: viene sempre troppo presto.

È, anche, una sfida: si sfida la morte, si corrono i pericoli, più o meno avventatamente. Ha fascino.
È nota l’eccitazione erotica che i partenti in guerra, e cioè incontro alla morte, hanno sempre suscitato.

Il dattilo, una lunga due brevi, tà-ta-ta, tà-ta-ta, Schubert, che lo praticava, diceva “ritmo dela morte”.
Kant ne fa l’argomento principe contro lo stoicismo, la dottrina del suicidio: ““la forza umana che non teme la morte è una ra-gione di più per non abbattere un essere dotato d’una potenza così grande”.

Non siamo che fugaci combinazioni, dell’assoluto se si vuole ma non di necessità: solo la morte è infaticabile e certa, lo stesso istinto a procreare si stanca.

“Nella paura della morte c’è qualcosa che fa pensare a un senso di colpa: con essa si manifesta forse la vendetta della vita non abbastanza amata. La morte è un pregiudizio” - Lou Salomé, che di Freud fu intima. Può essere: parlano di morte i preti e le beghine, astinenti.
Dio ha creato l’eternità, il tempo è degli orologiai. L’attesa, o paura, della morte è parte della storia degli orologiai – la nostra.

“La morte è la sorte comune degli uomini”, direbbe Montaigne. Ma il “muore giovane chi è caro agli dei” sarà stata la peggiore bestemmia di Leopardi, o Menandro. In un senso è vero, si muore sempre giovani, e tuttavia la premorte di chi abbiamo visto crescere o sbocciare è violenza aggravata e un insulto. Anche se la morte una qualità sempre ce l’ha: fissa le cose. Per il bene e per il male. Dà ai fatti e alle persone uno spessore, seppure nell’ambiguità tra vero e falso: l’amante morta, per esempio, è amante per sempre. E parla, eccome, ha l’eloquenza del silenzio, di “colui che parla senza dire nulla” che Chagall celebra. L’eternità sarà questo susseguirsi di baluginii.

Lo stesso Montaigne potrebbe peraltro essersi chiesto “che vuol dire che in guerra il viso della morte, che lo vediamo in noi oppure in altri, ci sembra senza paragone meno spaventoso che al chiuso delle case”. Ci sono morti che danno energia, rinnovata voglia di vivere. Bisogna essere stati per poter morire, aver lasciato una traccia. La vita è piena di senso in quanto è un susseguirsi di sparizioni e superamenti. Anche la verità, per quante difese uno metta in campo per farsene scudo. Perché subentra la memoria, dove le passioni sedimentano, la scena è chiara. Ognuno lascia una traccia, sia pure un grano di polvere. Ed è pure vero che si muore più volte nella vita, prima dell’ultima, certo, quando non si rinasce: si muore e si nasce a ogni istante.
Lo spiega Orienzio nel repertorio di Gourmont: “La nostra fine non ammette fine, la morte, che ci fa morire, muore perennemente. Per l’eterno moto l’uomo vivrà in perpetuo”.

Usa da qualche tempo la morte quale artificio rivoluzionario, più morti più purezza. In Occidente come in Oriente, in questo uniti nella lotta. Nelle specie - meglio ancora - del sacrificio di sé, dell’immolazione. Argomento folle. Non fosse una furbata, della cattiva politica.

L’“Essere-per-la-morte” di Heidegger è la parte ermetica del nazismo, la sua verità. E l’Umwälzung, la svolta, parola chiave di Heidegger e Hitler.

Silenzio – È una forma della conoscenza. È silenzio pure tacere per non dover dire.
“Il silenzio è il sonno che nutre la ragione”, dice Bacone, ma anche: “Il silenzio è la virtù dei folli”. È  l’“ascolto a distanza” che, secondo il maestro Furtwängler, fa grande la “musica tedesca”. Che al solito non significa nulla, a parte l’esistenza di una musica, chissà, “tedesca”, ma sapere da lontano in effetti si può e fa bene.

zeulig@antiit.eu

Quanta scienza in collegio dai gesuiti

Nel 1665, scavando il giardino antistante la chiesa per erigere un muro, i domenicani della Minerva a Roma rinvennero un obelisco piccolo. Il sovrimntendente alle antichità fu subito avvertito, ma essendo in partenza per un ritiro spirituale al santuario dela Mentorella a Tivoli, dove poi prevedeva di fermarsi per un periodo, ordindò a un suo collaboratore di rilevare i segni sulla pietra e mandarglieli. Per problem tecnici, l’obelisco non fu solevato, per cui il collaboratore del sovrintendte Kircher, Giuseppe Petrucci, poté mandargli le rilevazioni di tre dei quatro lati, promettendo il quarto lato in un momento successive. Ma si vide arrivare da Tivoli il quarto lato, con i geroglifici disegnati dal padre Kircher – il sovrintendente era un gesuita. Che poi riscontro essere uguali e nella stessa sequenza del lato ancora celato.
“Fu un avvenimento straordinario”, commenta Caterina Marrone, studiosa di semiotica, specialista dell’immaginario linguistico. Ma non era una divinazione: Kircher possedeva una doppia chiave di lettura dei geroglifici. Una, provata dai ritrovamenti e le riutulizzazioni recenti, era semplice: gli obelischi, monumenti votive e cerimoniali, recevano solitamente sui quattro lati gli stessi geroglifici, più o meno nella stessa disposizione. L’altra era l’interpretazione dei segni. Che non era quella giusta, poi elaborata di Champollion sulla stele di Rosetta, ma non inattendibile. Athanasius Kircher l’aveva desunta e ricostruita sui testi copti, di cui fu ricercatore e collezionista, come quelli che soli perpetuavano la tradizione dell’antico Egitto. Il metodo era giusto, anche se non sufficiente.
L’obelisco, poi chiamato Alessandrino, verrà eretto due anni dopo il ritrovamento nella stessa piazza antistante la chiesa della Minerva, a opera del Bernini, sul dorso di un elefantetino, posto su un masamento rettagolare. Una raffigurazione incongrua che Bernini trasse da una delle xilografie che ornavano la “Hypnerotomachia Poliphili”, racconto fantatico del domenicano Franceso Colonna.
Un’occasione per riscoprire un personaggio che fu efttivamente al centro di vari rami dele scienza nel Seicento, poi dimenticato. Marrone ne ricostuisce uno dei suoi segmenti di riecrca, l’origine delle lingue, della lingua. Mettedone in risalto le notevolissime conoscenze, anche se non sempre comprovabili: “Il maggior orientalista del momento, forse il più famoso erudito e enciclopedista dell’Europa seicentesca”. Tedesco di origine, che del Collegio Romano dei gesuiti nella piazza omonima aveva fato un grande museo e un laboratorio di ricerca.

Caterina Marrone, I geroglifici fantastici di Athanasius Kircher, Stampa Alternativa & Graffiti, remainders, pp. 166, ill. € 7,50

mercoledì 22 novembre 2017

La rivoluzione contro “Il Capitale”

La rivoluzione sovietica Gramsci bollò, 24 novembre 1917, esattamente un secolo fa, “la rivoluzione contro il Capitale”, il “Capitale” di Marx. C’erano incomprensioni da subito. Che poi si sono mutate al rovescio: incomprensioni che hanno portato a un’adesione cieca, anzi a un asservimento, non c’è altra parola, a Mosca - fa orrore pensare oggi che Togliatti è stato testimone di migliaia di assassinii, e fose anche esecutore.
Passa sotto silenzio il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, derubricata a presa leninista del potere. E non perché così vuole il cattivo Putin. La “Corazzata Potiomkin” restaurata è la sola iniziativa, non di successo. Tantissimi libri, articoli, rievocazioni, convegni  su Caporetto e la Grande Guerra, niente su Lenin – giusto Ezio Mauro, ma a scopi commerciali.
Resta invece curiosamente intatto il potere “sovietico” sui media, i tg e grandi giornali. Di censura e livellamento: il linguaggio è uguale, i “tormentoni”, i pool di giornalisti. Anche se non fanno più l’opinione. Che rifugge dai media, sui social, oppure nel disinteresse. La crisi della politica è in larga misura crisi dell’informaione. E la crisi dell’informazione è in larga misura la persistenza dela lingua di legno.

Problemi di base kantiani - 373

spock

“Gli schiavi rossi, gli indiani d’America, non lavorano i campi perché troppo deboli”?

Gli indiani d’America “hanno le mani fredde, pur abitando in climi caldissimi”?.

“Il caraibico, per la sua innata indolenza, è libero dalla noia. Egli può stare seduto per ore con la canna in mano senza pescare niente”?

“I negri sono molto vanitosi, ma a modo di negri, e così chiacchieroni che bisogna cacciarli col bastone”?

“I negri dell’Africa non hanno dalla natura alcun sentimento che li elevi al di sopra di uno sprovveduto candore”?

Kant insegnò per trent’anni l’antropologia?

spock@antiit.eu

Uccidere i padri

Abbie Hoffman e Jerry Rubin proponevano nel 1968 di uccidere i padri e cancellare all’anagrafe chi compie trent’anni. Posavano beffardi a rivoluzionari, giusto in linea col ritrovato freudiano, e invece erano radicati nella storia: si faceva una volta. Eva Cantarella, studiosa del diritto e della storia classica della famiglia, ne ricostuisce i tortuosi statuti dell’epoca romana – “Genitori e figli da Roma a oggi” è il sottotiolo. Dalle leggi dei Sette Re di Roma, a metà del V secolo a.C, fino a Giustiniano, al suo codice civile , 529-534. . Quando i padri potevano senza colpa abbandonare i figli, e anche venderli schiavi, nonché ucciderli, liberamente. E i figli, se uccidevano il padre, potevano non risponderne.
Ma non mancano mai gli argomenti. L’ex marine Rubin e il comunista Hoffmann un governo volevano di Roboam, dove, dice la Bibbia, i giovani comandano sui vecchi. Un limbus patrum. Accusare i padri era titolo di merito nella Russia sovietica per i ragazzi. La storia si ripropone al coperto dell’etanasia o buona morte: quando e come dichiarare finita la vita dei vecchi, specie se malati. La pratica è del resto sempre stata diffusa nel mondo.
Gli svedesi trogloditi, i nomadi dell’antico Egitto, i sardi, usavano un tempo uccidere gli anziani a colpi di clava o pietra. Gli indiani del Brasile uccidevano così gli infermi. I massageti e i derbicciani uccidevano gli ultrasettantenni. E i càtari pii di Monforte d’Alba o Asti, che le endura abbreviavano alla fine, i suicidi dei saggi anziani per digiuno, per evitare loro i patimenti dell’agonia. Gli abitanti dell’isola di Choa, dove l’aria pura dà lunga vita, ci pensavano invece da soli: prima dell’ebetudine o la malattia i vecchi prendevano la papaverina o la cicuta. Analogamente l’eschimese che, prossimo alla fine, inutile alla famiglia, esce dall’iglù e si perde nel pack. Fra i batak di Raffles, esploratore fededegno, che sarebbero i dagroian di Marco Polo, i vecchi erano mangiati: “Un uomo che sia stanco di vivere invita i figli a divorarlo nel momento in cui il sale e i limoni sono a buon mercato”.
Limbus patrum, o sinus Abrahae, è nella scolastica il posto sottoterra, non paradiso né inferno, dove chi ben meritò in base al futuro Nuovo Testamento, patriarchi, profeti, restò fino alla vittoria di Cristo su Satana, distinto dal limbus infantum, dei neonati non battezzati. Il consiglio di Roboam è nel libro dei Re.
Ora il problema semmai è di definire l’età giusta. Anche perché l’aspettativa di vita cresce. E ognuno, come ha scoperto Nietzsche, fa la filosofia caratteristica della sua età, l’età anagrafica
Eva Cantarella, Come uccidere il padre, Feltrinelli, pp. 139 € 14

martedì 21 novembre 2017

Problemi di base - 372

spock

Ci sono più possibilità di errare che dire-fare il vero e il giusto?

E com’è possibile?

“Si può sia amare troppo la virtù, sia comportarsi male in un’azione giusta” (Montaigne)?

“La frase che segue è falsa. La frase che precede è vera” (Antonio Tabucchi)?

“Se azioni cattive, ingiuste, mostruose sono tenute in onore, a che onorare gli dei?” (Sofocle)

“Se l’ingiustizia è più potete della giustizia, non si può più credere agli dei” (Euripide)?

“Esiste una logica della storia?” (O.Spengler).

“Per chi esiste una storia?” (Id.)

spock@antiit.eu

Robinson fa l’amore con la terra

Robinson fa naufragio un secolo dopo quello di Defoe. Si dispera e poi si organizza: costruisce una villa castello, con fortificazioni e monumenti, promulga una costituzione e un codice penale, avvia il censimento delle tartarughe, inaugura un ponte di liane su un burrone, “governatore, generale, pontefice”. Costruisce, legifera, semina, addomestica, insomma la vita di tutti ogni giorno. Confrontandosi con la Bibbia, spesso – per un po’ pure con Benjamin Franklin. Ha anche un’intensa attività sessuale.
“Desolazione”, il nome che ha dato all’isola dove la tempesta l’ha sbattuto, ribattezza Speranza, “nome melodioso e pieno di sole che evocava il ricordo assai profano di una giovane italiana” conosciuta all’università di York. Con Speranza, con l’isola, farà l’amore, dentro l’alveolo di una caverna. E poi lo fa spesso, con una quillaja abbattuta dal vento e con la madre terra, finché non s’innamora di una cumba rosa, che impregnata fiorisce, e presto s’infioretta di mandragore.
Un racconto costruito, di un processo di disumanizzazione e di riumanizazioe. Della riscoperta delle cose semplici. Noi siamo gli altri. La faccia deperisce senza scambio, visivo, verbale. Si perde il senso, nonché la nozione, del tempo nell’isolamento. Il linguaggio deperisce. La riscoperta, insomma, che l’uomo è un animale sociale. E viceversa, quando nell’isola sbarca Venerdì, un araucano del Cile che riesce a sfuggire alla condanna a morte della tribù, di cui Robinson si fa lo schiavo: l’insipienza, la ribellione, la gelosia (proprio, la gelosia d’amore), la sopraffazione. L’imprevedibile della “natura”. E l’evoluzione – qui accelerata, materiale oltre che spirituale: Venerdì acquista la libertà, la parola, Robinson impara a non fare nulla, e a camminare sulle mani.
Con effetti speciali. La moltiplicazione dei suoni come effetto del silenzio – la sensibilità ai suoni, anche minimi. Il ridicolo del profondismo – che però era già in Savinio, più spiritoso. Il denaro “spirituale” – che era di Schacht, il banchiere di Hitler, che Tournier sicuramente non ignora. Al centro, una tipica agudeza di filosofia tedesca: “Il soggetto è un oggetto squalificato”. È su questo asse che ruota il racconto. Riqualificare il soggetto. Si ragiona sull’essere. E sull’e-sistere”, secondo la lezione tedesca.
Un racconto filosofico, nella tradizione settecentesca francese. Ricco di molte terminologie settoriali, specie di mare e ittiche, ma anche silvestri e zootecniche, e naturalistiche, precisine. Ma di filosofia tedesca, accigliata più che umorale. Tournier è tedesco di formazione e usi come è francese di nascita e lingua, formato alla filosofia tedesca nelle università tedesche subito alla fine della guerra, senza odi né rimostranze. Di Defoe resta il nome – e probabilmente la noia dell’originale, se integrale. Un esercizio di virtuosismo, piuttosto freddo. Piaceva a Calvino - che però poi non ne ha scritto (ne aveva scritto ma non ha ripreso larticolo nellantologia dei propri scritti letterari da lui stesso curata, Una pietra sopra”: nomina Tournier e il suo Robinson incidentalmente, nel contributo su Filosofia e Letteratura per una serie del Times Literary Supplement intitolata Crosscurrents)..
Fa cinquant’anni la riscrittura filosofica del “Robinson” di Defoe a opera di Tournier, che all’uscita fu subito un classico, analizzato e popolarizzato da Calvino, Deleueze, Genette, Colin Davis tra gli altri. Ma non se ne parla – la Francia solitamente non trascura i suoi autori. È in effetti più combinatorio (ragionato, costruito) che narrato, come lo presentava Calvino, che subito lo fece tradurre: “Una appassionante avventura in cui non vengono meno gli elementi di suspense, di esotismo, di ignoto”.
Qualche inconguenza in tanta perfezione non lo salva. L’acciarino che si accende al primo colpo dopo il naufragio. Quaranta tonnellate di polvere da sparo in grandi botti scaricate con la mano sinistra da Robinson fino al centro dell’isola. Le avventure straordinarie di Venerdì, il selvaggio.
Si ripubblica con la vecchia traduzione di Chiara Lusignoli, forse più precisa delloriginale, e una nuova introduzione di Giuseppe Montesano. A volte Tournier sembra divertirsi - al successo inatteso, dirà che ha voluto un Robinson rovesciato, terzomondista, e per questo lo ha intitolato Venerdì. Più tardi diverrà narratore affabile, qui racconta molto per se stesso, con un vocabolario ricercato, situazioni che forse lui, almeno, avranno dilettato.
Michel Tournier, Venerdì o il limbo del Pacifico, Einaudi, pp. X VIII-253 € 19


lunedì 20 novembre 2017

I 150 anni, tristi, dell’Europa

Centocinquant’anni fa, nel 1867, si riuniva a Ginevra un Congresso Internazionale della Pace e della Libertà, un congresso in realtà europeo, che si pose il problema della pace in Europa, e concluse che la soluzione era la federazione, gli Stati Uniti d’Europa. Il congresso creò una Lega Internazionale della Pace e della Libertà, e la dotò di un bisettimanale, “Les États-Unis d’Europe”, che sarà pubblicato fino al 1939, alla seconda guerra civile europea indotta dalla Germania.
Fu un Congresso che fece scalpore. E innescò grandi novità: l’arbitrato internazionale, la Croce Rossa, il premio Nobel per la pace. Promosso e in parte vissuto da grandi personalità: Bakunin, Dostoevskij, Herzen, Victor Hugo, Louis Blanc, Quinet, John Stuart Mill – Garibaldi ne fu il presidente onorario.
Domani la ricorrenza si celebra al Parlamento europeo con un convegno. Organizzato da David Sassoli, l’ex conduttore del Tg 1. Con quattro professori universitari: Frétigné di Rouen, Malandrino di Alessandria, Moos di Zurigo, Schirmann di Strasburgo.


Il mondo com'è (324)

astolfo

Apostoli – Erano ignoranti, si dice. E infidi. Ma furono predicatori, persuasivi, e scrittori. Di cose nuove e quasi da inventare, non codificate.. Alcuni subirono il martirio. E tutti furono santi, quindi qualche merito dovettero averlo. Per non dire che crearono dal nulla un Messia ignoto ai più, crocefisso nella disattenzione, una religione di grande e duraturo successo, e una chiesa. Dapprima per cooptazione, quindi per giudizio loro, no dovevano esserne sprovvisti. E per opera di convinzione, a cominciare da san Paolo, personaggio non da poco.

Impegno – È stato il tema degli intellettuali nel dopoguerra e fino alla caduta del M uro: se impegnarsi in politica, sottinteso per il comunismo. Dibattuto per qualche tempo in Italia, fino a un dibattito celebre fra Moravia e i Sartre in visita a Roma, apostoli, sia lui che Simone de Beauvoir, dell’impegno.
Secondo Sartre “il Partito non ha bisogno di te, sei tu che hai bisogno del Partito”.. Anche se, aggiungeva, “in ultima analisi è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare la marcia dei popoli”. Ma presto, a fine anni Sessanta, attorno al Sessantotto parigino, confuso, uno per il quale “tutte le attività sono equivalenti e tutte sono votate allo scacco”. Fu peraltro infaticabile organizzatore di pronunciamenti e lotte intellettuali, con manifestazioni, proteste e manifesti. Lo scrittore-poeta greco Vassilikos raccontava nel 1968 che l’anno prima seppe di essere stato incarcerato dai colonnelli greci al potere ad Atene da un appello pubblicato con molte firme in Francia. Lesse l’appello a Roma, mentre prendeva il cappuccino. Telefonò ad alcuni dei firmatari e seppe che Sartre aveva una delega in bianco per lanciare appelli.
Moravia, che nel 1960 contestava Sartre su questo aspetto, sarà poi impegnato e impegnatissimo – nel 1984 fu anche eurodeputato per il Pci.

L’impegno dei compagni di strada fu inventato e organizzato da Willi Münzenberg. Personaggio dimenticato ma nei due decenni tra le due guerre mondiali l’organizzatore di eventi per conto del Comintern, il coordinamento dei partiti comunisti di Mosca.

Tribù Era tribale la società ateniese, alle origini della democrazia. Né la Catalogna è un’eccezione oggi, o le Fiandre in Belgio. Il razzismo è scandaloso. Era scandaloso l’apartheid, o sviluppo separato, in Sud Africa, ma non del tutto – era scandaloso in quanto discriminava. Ma il tribalismo è un fatto. Agli onori ancora nel diritto internazionale – anche nella divisione dei popoli in base a ideologie: due Irlande, due Coree, due Vietnam, due Cine (e due Europe fino a recente, due Germanie). Lo stesso hitlerismo, l’autoaffermazione del popolo tedesco, non è isolato: ogni azione di difesa è aggressiva, e perfino distruttiva.
La partizione per credo religioso e politico, invece che biologica, ha una connotazione diminutiva. Ma è robusta, derivata dalla razionalità puritana: il bene èdiviso dal male. Insomma dalla mentalità del ghetto, estesa al sociale con la divisione in classi.
Il cosmopolitismo non è del resto più naturale del tribalismo, l’assimilazione culturale non migliore della tradizione. La varietà culturale salva la pedagogia, per l’ovvia esigenza di non traumatizzare l’infante e svilupparne le potenzialità. E migliora l’integrazione sociale - i marranos, porci giovani, non sono mai stati sudditi leali - e lo sviluppo economico. L’America ha tenuto in vita, più a lungo, più dettagliato, con danni minori che in qualsiasi altro luogo o epoca, e anzi produttivamente, un sistema di separazione etnica minuta e rigida, tra bianchi e neri, tra anglofoni e latini, germanici, slavi, e tra anglofoni d’Inghilterra e d’Irlanda, tra ebrei orientali, o sefarditi o di Babilonia, e ebrei occidentali, o ashkenaziti o di Gerusalemme. Fatta salva l’eguaglianza dei diritti.

Wahabismo – Verrà dall’Arabia Saudita la “modernizzazione” dell’islam, a opera del giovanissimo principe ereditario, Mohammed bin Salman, 32 anni? Una meteora nella tradizionalissima politica saudita, monopolio per un secolo del fondatore Abdelaziz Ibn Seud e dei suoi figli, o meglio un meteorite. Il principe ha concesso il diritto di guidare l’automobile alle donne, e simultaneamente la cittadinanza a un robot antropomorfico. Ha anche varato un piano da 500 miliardi di dollari per la realizzazione della prima città al mondo “pulita”, al Nord, nell’area desertica con la Giordania e l’Egitto, a energia solare, auto senza conducente, gestione in automatico a intelligenza artificiale.
Mohammed bin Salman è di fatto il governante del paese, poiché il re suo padre è molto in età e ha problemi di salute gravi - con la testa, si dice. Ma è evidentemente in attrito con l’estesissima famiglia regnante, di circa duemila principi – l’evidenza nasce dal fatto che ne arrestati un paio di centinaia, con l’accusa di corruzione. E di più con il suo stesso islam, il wahabismo.  
L’islam praticato e diffuso dall’Arabia Saudita, dove è fiorito nel secondo Settecento, è una dottrina rigorista e tradizionalista pre-greca, che si rifà cioè all’islam anteriore di prima della sua permeabilizzazione da parte della cultura greca, nei secoli IX-X. Con proibizioni radicali che l’islam ortodosso non considera, del caffè e il tabacco, e di ogni culto. Compreso, in anni non recenti, quello di Maometto, che li portò a distruggere la sua tomba a Medina.
È dottrina recente, opera nel primo Settecento di un riformatore dei Banu Tamin, una vasta tribù, Mohammed Abdel-Wahab, un ortodosso ultraconservatore che ebbe subito vasto seguito nella penisola arabica, compreso il Qatar. Molto esclusivo anche: chi non pratica l’islam secondo le sue regole è, sia pure pio mussulmani, un pagano nemico dell’islam. È la matrice del fondamentalismo o radicalismo islamico che infuria da un venticinquennio, e si esercita con più determinazione e vittime in ambito islamico, contro moschee, scuole, mercati. Di formazione wahabita sono i Talebani in Afghanistan, ed era Osama Bin Laden. È forte anche nell’India mussulmana. Ma s’identifica bizzarramente con la dinastia saudita. Coi regni modernizzatori dei figli di Ibn Saud – e finora anche con i loro lussi stravaganti, compreso il gioco d’azzardo.
Il regno si classifica come sunnita wahabita. Dopo la graduale espansione delle tribù wahabite dell’interno contro sufi, sciiti, zaiditi, e altre minoranze delle regioni costiere e urbane alla fine dell’Ottocento. Ma la dinastia regnante, sicuramente sunnita wahabita, si impose quando negli anni 1930 il fondatore, Abdelaziz Ibn Seud, stroncò con centinaia di esecuzioni la Fratellanza Wahabita, l’ala radicale che si espandeva a partire dall’Iraq e dalla Giordani.  Ridando libertà di culto alle minoranze. E soprattutto, all’Est del paese, agli sciiti – di cui invece ora il principe ereditario è il nemico mortale. Nonché ai vari “infedeli” che popolavano il paese per l’industria del petrolio. A Gedda, la capitale diplomatica, e a Dammam, la capitale del petrolio, si dava conto delle celebrazioni festive cristiane oltre che islamiche, c’erano dei cinema pubblici, si davano concerti, le donne potevano mostrarsi anche poco velate.
Tutto è poi cambiato col boom del petrolio, e col khomeinismo. Dopo di allora, nel quasi mezzo secolo successivo, i regnanti si sono ritagliati l’economia del regno, mentre il fondamentalismo wahabita ha invaso il paese, anche le città, in tutti gli aspetti della vita associata: giustizia, scuola, costume. Creando nuove frizioni con  le minoranze, soprattutto con gli sciiti, che ora hanno come riferimento la potenza esterna, e concorrente, dell’Iran. Un pese sonnacchioso di tribù sparse per i suoi deserti, più spesso ancora in tenda, è divenuto rapidamente, in un paio di decenni, uno dei maggiori player internazionali della ricchezza, e patrono e finanziatore dell’espansione islamica in Africa e nel Sud-Est asiatico. Con investimenti, per scuole coraniche e moschee, di molti miliardi di dollari. Dall’Indonesia alla Malesia, e fino a Culver City negli Usa. In parallelo, radicalizzò il dormiente fervore religioso wahabita il khomeinismo. Nel 1984, quattro anni dopo l’avvento di Khomeini, che in Iran aveva debuttato rovesciando lo scià, un movimento analogo agitò l’Arabia Saudita. Militanti sunniti wahabiti presero d’assalto la Grande Moschea della Mecca, il luogo santo per eccellenza dell’islam, e proclamarono un nuovo regime invece del saudita, sotto un Mahdi, un redentore.
Le forze wahabite fedeli alla monarchia contrattaccarono e ripresero la moschea. Ma il contrattacco fu diplomatico più che militare: un accordo per cui il controllo sulle donne (spostamenti, sempre con accompagnatore, e abbigliamento, sempre in nero) veniva passato alla polizia fondamentalista,  e cinema e teatri-concerti venivano chiusi. L’accordo che oggi il principe ereditario sta rovesciando.

astolfo@antiit.eu 

Il Citati liberato

Una raccolta di elzeviri scritti per “la Repubblica” (senza indicazione dell’origine, Citati non ha gradito l’allontanamento dal suo quotidiano), e di altre prose sparse. Tutte o quasi animate, estrose. Anche se in spirito passatista, ancora in polemica con i consumi di massa. E con molto buon tempo antico. Ma non guasta: testi agili, senza sentenziosità. Con molti fermenti vivi. Come se Citati, lo scrittore di altri, si fosse autoliberato, con la stessa eccitazione. Nel quadro, più spesso, di uno sciocchezzazio che progettava con Marc Fumaroli, e poi evidentemente non hanno realizzato.
In fatto di pedagogia - il gruppo iniziale delle prose, folgorante – la critica del presente, in tutti gli ordini di scuole e nelle famiglie, non è misoneista, nessuno gli darà torto: infanzia e adolescenza sono conculcate oggi. Citati fa un ragionamento a ogni pagina convincente. I millennial sono generazioni perdute dai genitori, a opera loro, che accudiscono invadenti, non crescono i figli e non li rispettano – li occupano: otto ore di scuola, tre di attività varie e tre di tv e videogiochi, ai quali non partecipano.
Sulla scuola la requisitoria è di un “bambino” che sappia scrivere, niente di più, ma sagace, salace: l’infanzia è uno dei massimi doni dell’esistenza. Senza sopracciò: il tema no il riassunto sì, “il bambino deve vincere semrpe”, la lettura, la lettura, la lettura, il bambino è avido di sentire raccontare. Altri “pezzi” sono affascinanti. Su Calvi, il banchiere suicida. Sull’organizzazione Medici con l’Africa, di cui nessuno dice nulla. Perfino in tema di politica estera, sui wahaniti sauditi che governano il radicalismo islamico e scompaginano il Medio Oriente. Su Berlusconi – di cui Citati si finge compagno al liceo – è memorabile, un pezzo da antologia, se se ne faranno sul politico imprenditore. Un incredibile ritratto di papa Ratzinger ne anticipava lo sconforto (la prima edizione della raccolta è del 2011): “Tutti i cattolici osservano da tempo la condizione di inquietudine e d’angoscia che occupa la mente di Benedetto XVI”.
Una radicale rasatura del comunimso-bolscevismo, da Togliatti in giù, ha destinato la raccolta al silenzio, le redazioni culturali sono ancora nostalgiche. Ma la sovversione del linguaggio a opera di Stalin merita un monumento – ancorché da assortire col personaggio che tra le due guerre rifece il linguaggio internazionalista e l’immaginario dei compagni di strada e si vuole obliterare, Willi Münzenberg.
Pietro Citati, Elogio del pomodoro, Oscar, pp. 266 € 9,50

domenica 19 novembre 2017

Letture - 324

letterautore

Dante – “Un Dio per noi”, lo dice Leopardi nei “Pensieri”, “un mostro per li farncesi”. Che però ne hanno disponibili una mezza dozzina di traduzioni, anche in edizione econimuica a larga tratura, che si rimovano ogni pochi decenni. ben tre (v.) traduzini in cmercio, traduzini nuove, di Jacqeline Risset, .Hanno una Société d’Études Dantesques a Nizza, molto attiva, e una Société Dantesque de France a Parigi, che edita una “Revue des études dantesques”. Fanno convegni, promuovono specializzazioni.  

Inquinato da “antico rozzore” lo trovava Lorenzo il Magnifico, che ne scrisse a Federica d’Aragona.

È scettico, a giudizio di Giuseppe Renzi nella sua professione di scetticismo, “La mia filosofia (Lo scetticismo)”. Pur riconoscendolo “di sua natura trasmutabile per tutte le guise”, ne mette in rilievo il “potente individualismo”: “Proclamando che la mente umana deve star contenta ai puri fatti (il quia), perché con le sole sue forse non può penetrare le ragioni ultime, afferma un pirronismo positivista pascalianamente colorato”.

Femminismo – Ha un precursore d’eccezione, Spengler. Nell’imponente “Tramonto dell’Occidente” Spengler stabilisce il primato della donna al culmine della sua trattazione, il capitolo Quarto, “Lo Stato”. Alla radice di esso, tra “caste, nobiltà e sacerdotalità”: La lotta dell’uomo contro l’uomo avviene sempre in nome del sangue, della donna. È per la donna, concepita come simbolo del tempo, che esiste una storia politica”. A un breve elenco di donne che hanno fatto la storia, Caterina Sforza, Elena, Carmen,Caterina II, Désirée, premette: “La donna di razza ciò lo sente. Essa è il destino, essa ha la parte di destino”.

Maria – È celebrata da Goethe nel “Faust” forse più che da Dante nella “Divina Commedia” – il richiamo è meno scontato, meno canonico anche. Al culmine del poema, con un crescendo corale, se ne invoca l’intercessione per la salvezza: “Tutto il caduco\ è solo simbolo,\ l’insufficiente è qui perfetto;\  l’inesprimibile\ si fa realtà; \ l’Eterno Femminino\ in alto ci trae”. In una cioè con la celebrazione del principio femminile, non si una Vergine Maria sottomessa obbediente. Un’influenza del viaggio italiano di Goethe: la salvezza per intercessione è molto cattolica. Ma senza pentimento – senza senso di colpa. E senza Cristo: Goethe riduceva il cristianesimo a “fallita rivoluzione politica”, tramutata in rivoluzione morale. Del Cristo diceva “la più potente manifestazione dell’Altissimo che sia concessa ai figli della terra”, ma come il sole – al sole e al Cristo non dedicando culto divino, adorazione. E lo derubricava a “Amleto peggiore” - peggiore per non aver saputo  impedire ai suoi di tradire.

Pazzia- La sua frequenza tra i poeti avrebbe una ragione fisica? Rensi, “La mia filosofia (Lo scetticismo)”, ha questo aneddoto: “Lombroso racconta in qualche luogo che in una casa di salute  due paranoici redigevano un giornale, di cui era redattore uno affetto da manie di grandezza e di persecuzione, il quale in un giorno era capace di scrivere cinque lunghi articoli in versi non scadenti, mentre il compagno correggeva, migliorava, rinnovava all’occorrenza”.
Lombroso fu direttore per pochi medi del manicomio di Pesaro nel 1872, per il quale chiese e ottenne dall’amministrazione provinciale che gli affidava l’incarico una serie di miglioramenti, “al modo di Germania e Gran Bretagna”. Tra i quali la redazione di un giornaletto, che intitolò, “Diario di San Benedetto”, pensato e redatto dagli assistiti.  

Petrarca – Il primo e più radicale scettico di tutti lo proclama Rensi nella breve storia “Lo scetticismo in Italia” che conclude “La mia filosofia (Lo scetticismo)”: “Lo scetticismo in Italia si formula nettamente col Petrarca (indice dell’indole scettica del quale è già il suo appassionato amore per Cicerone) che nel “De sui ipsium et multo rum aliorum ignorantia” oppone all’onniscienza dello scolasticismo e al dogmatismo dei teologi l’incapacità socratica di sapere e il concetto pragmatistico della superiorità dell’azione (della condotta virtuosa) sulla speculazione intellettualistica”..

Pirandello – Non si dice, ma ebbe dopo la guerra alcuni decenni di oscuramento. Ancora attorno al 1970 veniva rappresentato soltanto a Parigi, e a Parigi sempre dagli stessi, i Pitoëff. In Italia ne parlava solo Macchia, un francesista. Anche dopo non ha avuto grande lustro, malgrado i tanti titoli al glamour. Niente è stato preparato e niente si fa per i contocinquant’anni della morte – non se ne ricorda nemmeno la Sicilia, che pure ama le celebrazioni, specie della sicilianità. Come di un autore minore, o trascurabile.
Era robusto, Pirandello, sportivo, occhi chiari, naso importante, fronte da gigante, capelli fluenti ben pettinati, a suo agio a casa e lontano da casa. Studiò in Germania, tirava di fioretto, costruì case. Un personaggio, e uno scrittore comico. Non ultimo per la vicenda del Nobel, che ebbe alla fine perché prima doveva andare alla Deledda – la quale, laureata, molti viaggi fece a Stoccolma per sconsigliare Pirandello, suo nemico dacché ne aveva sbeffeggiato il ruolo in famiglia nel romanzo “Suo marito”.
Non l’ometto calvo con la barbiccia grigia e le borse alle guance della ritrattistica, estenuato dal secondo e terzo lavoro a tavolino, sfiancato dalla gentile Antonietta Portolano sua moglie e dal senso del decoro. Per cui non poteva neppure innamorarsi, l’amore della moglie lo aveva seccato. Si capisce che l’operosa milanesina Marta Abba se lo sia fatto amante col vincolo della castità.
Formato in Germania, più cosmopolita per gusto e cifra del tardo decadente D’Annunzio, che scimmiottava a Parigi la poesia di mezzo secolo prima, compresa l’affettata depravazione – un po’ alla Benjamin, che fumava per scriverne. Forte realista, fine analista politico. Antonietta candida, la moglie che ebbe presto problemi psichiatrici, ne fece un grande, le energie concentrandone sul proprio nulla.
Fascista, nel fascismo identificava già nel 1923 la sua arte, e Mussolini lo fece accademico. Ma ne censurò le commedie e lo rovinò da impresario, come un personaggio pirandelliano. Sempre gli dei perdono chi amano.

Viaggio – “La disgrazia dei viaggi è che danno il gusto di viaggiare”, Dumas al figlio il 5 novembre 1858, da un accampamento all’incrocio delle strade di Vladikavkaz e Derbent, oggi Ossezia, nella Russia meridionale.

leuzzi@antiit.eu

L’impero assiro, il primo, si celebra in morte

“La preistoria dell’imperialismo” è il sottotitolo, degli Assiri come inventori-promotori degli strumenti -  concettuali, legali, militari degli imperi futuri. L’espansione, il dominio, lo sfruttamento, o comunque un vantaggio comparato, e l’annullamento (assoggettamento, colpevolizzazione, anche distruzione) del nemico, quello che fa l’imperailismo, emerge per la prima volta, documentalmente, nella storia dell’antica Assiria. L’imperialismo è più vecchio naturalmente, per esempio in Cina, e probabilmente va con la storia. Liverani ne tratta da specialista emerito delle civiltà mesopotamiche e in specie degli Assiri, con impegno sul dato.
Ma gli Assiri vengono in argomento oggi piuttosto per la loro fine, voluta e insistita, programmata, come civiltà e perfino come popolo – un mondo “tagliato”, più che una lingua o un’esperienza. Gli Assiri come gli Armeni, altra comunità cristiana del Medio Oriente. A opera dei curdi, che li hanno letteralmente massacrati. L’ultimo europeo che li ha avvistati è stato probabilmente Viktor Sklovskij, ma è già quasi un secolo. Pochi ne sopravvivono in Iraq, come caldei.
La storia era stata lunga. L’impero ebbe 116 re, più di quello romano, e viene per questo divisa in tre parti, paleoassira, medioassira e neoassira, ma finisce nel 612. Avanti Cristo. Resterà nella Bibbia, per avere conquistato il regno di Israele. Nonché poi - con l’eversore Nabuccodonosor II, re di Babilonia - Gerusalemme e il regno di Giuda. Avevano la passione delle biblioteche, con centinaia di migliaia di esemplari. La biblioteca di Assurbanipal a Ninive ebbe per l’antichità il valore mitico della biblioteca di Alessandria oggi. Ma erano dei duri. Nei palazzi di Khorsabad, Babilonia, Susa scolpivano scene di guerra, sfilate di prigionieri, corpi fatti a pezzi, città distrutte. Il mondo di Assur, riemerso a metà Ottocento, fu innanzitutto una civiltà militare. A Tell Asmar, non lontano da Bagdad, è immortalato un gigante tagliatore di teste. Erano uomini che non sorridevano. E c’è questa coincidenza, forse fortuita: gli animali gli assiri raffiguravano a cinque zampe, come il cane dell’Eni – o il cane ne ha sei? Il primo impero semita si allargò a Babilonia, Urartu, Fenicia, Palestina, Egitto, dove Assurbanipal conquistò nel 643 Tebe. E fu la fine: medi e babilonesi invasero l’Assiria e distrussero Ninive. Come l’Europa, l’Assiria correva troppo.
Poi i curdi li cacciarono. Sklovskij li ritrova quando non ebbero altra scelta che mettersi coi bolscevichi. Dimenticati dai turchi tra i monti attorno al lago di Urmia, in lite coi curdi, seppure muti, appoggiati dagli americani, oltre che dai bolscevichi, e armati di vecchie carabine senza otturatore. Così “marciano le truppe locali degli assiri” davanti al giovane commissario politico russo. Il lago, “più salato delle lacrime”, è per questo motivo privo di pesci, ma è allietato dai fenicotteri, che fanno il cielo rosato quando volano. Attorno “i torrenti sfrigolano sulle pietre, come fornelli a petrolio, di notte splende una pazza luna”, tra “le ombre degli archi scoscesi di ponti distrutti mille anni fa”.
Gli ultimi assiri si vedono a Persepoli: tributari, soldati, funzionari ascendono i bassorilievi dello scalone che la follia di Alessandro non riuscì a distruggere. Altri, dispersi tra l’Europa e le Americhe, si riconoscono, simili ai copti che si negano, dai nomi, i suoni, le fisionomie, e grazie ai possenti archivi Usa dello stato civile. Si danno nomi diversi, siriaci, aramaici, caldei, othoraici, e sono di religione ortodossa, nestoriani – questo il loro nome nell’impero ottomano - o giacobiti. Oppure cattolica: caldei, melchiti, maroniti. Possono essere pure protestanti, si sono aggiornati. E si organizzano in tre chiese, Madinha, Siriana e Caldea, oltre alle piccole chiese riformate. Ma non sono padroni neppure dove sono più numerosi, attorno a Ninive.
Per ultimo i turchi li cacciarono dal ventilato altopiano. Verso le paludi malariche dell’Eufrate, dove furono di nuovo massacrati nel 1933, dal capo iracheno Bakr Sedqi, e verso le sabbie roventi della Siria e della penisola arabica. Nell’Alta Mesopotamia se ne contavano, alla vigilia del 1914, oltre un milione. Uno dei pochi sopravvissuti nella Bassa Mesopotamia aveva il volto buono di Saddam, che lo mandava nelle capitali a parlare, il ministro degli Esteri Tareq Aziz.
Mario Liverani, Assiria, Laterza, pp. XVIII-384, ril., ill. € 22