astolfo
Imperialismo
–
È categoria politica in disuso. Obliterata con la caduta del Muro,
dell’impero sovietico, e con la globalizzazione. Dopo essere stata al centro della
storia europea per almeno due secoli. Come dominio coloniale, come amministrazione
diretta, e come dominio di potenza, per influenza politica o, soprattutto,
militare.
L’inglese
ne registra l’apparizione nel 1832, come “dottrina dei partigiani del dominio
imperiale”, ma di più a partire dal 1878, quando si facevano alleanze, intese e
congressi per gli imperi europei nel mondo, mediante accordi di divisione si
sfere d’influenza e per evitare collisioni fra i disegni delle metropoli o fra
gli eserciti di conquista, in Africa e in Asia.
Altre categorie di sfruttamento sono
subentrate, anche se non se ne fa la classificazione (teorizzazione). L’Africa,
a mezzo secolo dalle indipendenze, è solo un luogo da cui fuggire. Nessuno dei
cinquantaquattro governi africani può vantare un record di buone opere, anche
se solo alla sommatoria, di buono e cattivo: giustizia, istruzione, produzione.
Molti sono regimi a vita, anche se con elezioni periodiche. La corruzione è la
norma, con conti in Svizzera - pratica altrove desueta ma in Africa
praticatissima, dall’Angola alla Nigeria e allo Zimbabwe. Lo sfruttamento pure. E le
uniche produzioni attive sono di tipo monoculturale, le vecchie
specializzazioni coloniali.
Alla sommatoria, il colonialismo, con tutte le
sue colpe, ha costruito più che le indipendenze, in Africa e anche in alcuni
paesi dell’Asia, in Sri Lanka, in Birmania.
Italia – La politica vi è salvifica?
Calvino lo diceva a proposito dei comunisti negli anni 1960, in un articolo
su”la Repubblica” il 13 dicembre 1980
(“Quel giorno i carri armati uccisero le nostre speranze”): “Noi comunisti
italiani eravamo schizofrenici. Sì, credo proprio che questo sia il termine
esatto. Con una parte di noi eravamo e volevamo essere i testimoni della verità,
i vendicatori dei tori subiti dai deboli e dagli oppressi, i difensori della
giustizia contro ogni sopraffazione. Con un’altra parte di noi giustificavamo i
torti, le sopraffazioni, la tirannide del partito, e Stalin, in nome della Causa.
Schizofrenici. Dissociati. Ricordo benissimo che quando mi capitava di andare
in viaggio in qualche paese del socialismo, mi sentivo profondamente a disagio,
estraneo, ostile”. Ma quando il treno mi riportava in Italia, quando ripassavo
il confine, mi domandavo: ma qui, in Italia, in questa Italia, che cos’altro
potrei essere se no comunista?” Al punto da passare per questo sopra a ogni
esigenza di coerenza, di verità – anche personalmente: Calvino scrisse corrispondenze
affettuose a e ammirate dall’Urss per “l’Unità”.
O
la dissociazione non deriva da un bisogno di assolutezza (purezza)? Anche
perché non è condizione unicamente comunista, ogni fede politica, si può dire,
la condivide in nuce, in radice..
Della politica non concepita non come buona amministrazione, capacità delle
persone, bontà dei programmi. Come avviene nei paesi anglosassoni, che votano
da molto tempo, ma anche i Germania.
Mentre in Italia è vissuta, non concepita: umorale e passionale, e assoluta. È
esito sacrale e assoluto, ancorché indistinto, un’escatologia.
Questo
sentimento è comune anche al corpo informe del voto cosiddetto confessionale,
dovunque si collochi, si esprima esso per la vecchia Dc, o per Berlusconi, o
per Renzi: una passione magari intermittente ma totalitaria. E alla
indigeribilità di Berlusconi, una vera e propria guerra ormai di trent’anni, con
mobilitazione di polizie, tribunali e redazioni. I socialisti, che proponevano
una politica delle cose, sono stati spazzati via, fin nella memoria. Grillo,
che non sa che cosa vuole, ma la vuole per sé, con passione, è invece una droga
per molti, a prova di giudizio – soprattutto per le “vecchie guardie” comuniste
e fasciste.
Una
politica totalizzante la diceva Calvino, che spesso per essa compiva – o non: a
cui spesso si chiedevano? – “operazioni abusive e mistificanti”. Mussolini ha
perso la guerra, ma per il resto rispondeva alle attese. L’Italia è nell’impasse
politica da trent’anni da quando il comunismo morendo le ha inoculato
nuovamente la politica della non politica.
Italia-Europa
– Si può
dire l’Italia vittima dell’Europa.
Si lamenta, nel senso comune, e perfino nel
governo, che ne è in gran parte il responsabile, un complesso d’inferiorità
dell’Italia nei confronti dell’Europa. Grande e piccola. Una dissimmetria, che
non corrisponde alle dimensioni demografiche, produttive, di conoscenze, e di
patrimonio culturale, dell’Italia in Europa.
In effetti è così: la dissimmetria non è
l’esito di una disparità dimensionale, di ampiezza, territoriale, demografica,
produttiva. Anzi, la posizione geografica farebbe naturalmente dell’Italia una
potenza europea, la potenza europea nel Mediterraneo. È una dissimmetria che
parte da lontano, è millenaria. Ed è di tipo imperialistico.
Si addebita l’“inferiorità” dell’Italia al
frazionamento politico, che si è ricomposto solo con l’unità, nel 1860. Dopo
aver favorito, e anzi invitato, intromissioni straniere di ogni tipo: per oltre
mille anni l’Italia, pur colta, ricca, intraprendente, avventurosa, è stata il
truogolo di ogni gigante e nano d’oltralpe e d’oltremare. Questo è risaputo, ma si dimentica nell’Italia
contemporanea. Anche perché la Repubblica in troppe occasioni si è asservita e
si asservisce – da ultimo nelle regole bancarie, dal bail-in agli npl, questioni
solo apparentemente specialistiche.
Ma – è questo il punto nodale – mai l’Italia si è intromessa, in nessun
modo, oltralpe e oltremare. Mentre è sempre stata invasa e occupata. Dalla
Germania dapprima, fino al Barbarossa. E dagli arabo-berberi del Nord Africa. Poi
dalla Francia, a partire dai Normanni, e dalla Spagna, che se la divisero. Poi dai
Borbone e gli Asburgo, legati all’impero d’Austria. E nell’Otto-Novecento è
intervenuta anche la Gran Bretagna, in Sicilia e Calabria e, sulla rotta per il
Medio Oriente, e più ancora dopo il Canale di Suez.
Il tardo colonialismo del Novecento, in Libia e
in Etiopia, non muta la dissimmetria.
L’imperialismo europeo in Italia è stato sempre
anche molto violento. Il frazionamento si era ricomposto a metà Quattrocento,
con la pace di Lodi tra le signorie, ma Carlo VIII e i suoi vassalli, i Borgia per primi, la fecero naufragare con
sconquasso – illudendo Machiavelli, che cercava una dinastia unificatrice,
fallito il concerto dei signori, e pensava di averlo trovato nel “Valentino” (vittima
forse più del fascino del palazzo Ducale di Urbino, dove lo aveva incontrato da
emissario giovane della Repubblica, che dal personaggio).
Tra Italia e Francia, in particolare, la storia
è a senso unico: di occupazioni e intromissioni. Sempre della Francia in Italia,
mai all’inverso – se non per l’avventura di Mussolini nella guerra di Hitler
(in certo modo benefica per la Francia occupata dagli italiani, che beneficiò
di clemenza rispetto alla repubblica di Vichy). Senza mai neppure un diversivo.
Sì, Nizza e la Corsica di Mussolini, ma non c credeva nemmeno lui.
Le intromissioni non si sono ridotte con
l’Unione Europea, di cui pure l’Italia fu una delle prime e più convinte
assertrici. Della Germania, che si è messa sempre di traverso in tutti i
rapporti dell’Italia con l’Est Europa, petrolio, gas, tubi, trattori,
automobili, perfino le pellicce. E più ancora della Francia. Nei rapporti col Medio
Oriente, dal Libano all’Iran, e in Nord Africa. Fino alla Libia, di Sarkozy e
ora di Macron: una sovversione antitaliana perfida, tanto più in quanto
perdente.
Solo a metà Ottocento l’Italia ha raggiunto la
rispettabilità, in termini di codici d’onore della potenza, con l’unità: una
vera rivoluzione, e più per l’Europa si può dire che per l’Italia. Ma anche l’unità
fu raggiunta sotto il patronaggio della Francia al Nord, contro l’Austria-Ungheria
– dopo che la stessa Francia aveva abbattuto la Repubblica Romana, l’inizio di
una nuova Italia, senza giustificativo. E dell’Inghilterra nella guerra ai
Borboni. E per una stagione breve. Già con Lissa e Custoza la credibilità si
era dissolta.
Non conta in realtà la divisione, anche la
Germania era divisa. Ma si è presentata all’unità con la Prussia. Una staterello
che non era più grande, come dimensioni e popolazione, del Regno di Sardegna,
ma aveva acquisito nel Settecento con le guerra vincenti alla Sassonia e all’Austria,
di Federico II il Grande, e poi nelle guerre napoleoniche, statuto di potenza
europea. E da sola unificò la Germania, sempre vincente.
Nessun principe italiano ha avuto disegni, nemmeno
perdenti, oltralpe. Ma, più che delle divisioni, si può dire l’Italia vittima
della sua mancata forza militare, non altro. Quello che il cardinale di Rouen spiegò
a Machiavelli nel corso della sua ambasciata alla corte di Luigi XI in Francia –
o Machiavelli si fece spiegare dal cardinale, di cui riferì nelle relazioni a
Firenze e tredici anni dopo poi rielaborò al capitolo terzo del “Principe”: gli
italiani non contano perché non s’intendono di guerra.
È questa l’origine della dissimmetria, che è in
realtà una dipendenza. Anche oggi che non si combatte con le armi - l’Europa è vaselinesca.
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