sabato 2 dicembre 2017

Letture - 326

letterautore

Aneddoto - Il petit fait vrai di Stendhal, più che il personaggione centrale, Barthes dice che “fa sentire il reale” – il Barthes delle “Mitologie” quotidiane: il dettaglio che fa l’emozione.

Cortazàr – Dimenticato, ma aveva con “Rayuela” il racconto che si racconta da sé: ritagli di giornali, pezzi di diario, di note di servizio…., il collage.

Dante – La sua poesia come canto “entêtant” ha lo storico medievista Bouchardon, “Léonard et Machiavel”: avvincente, stordente.

Fu orientalista? Non poteva, quello che si sapeva ai suoi anni dell’Oriente lo sapevano, anche bene, diffusamente, i francescani, ma non circolava: non ne scrivevano, non lo hanno documentato. Qualcosa però sapeva, della mistica orientale, e in qualche modo del Budda. Prendendo lo spunto dal viaggio del papa in Birmania, per incontrare i monaci buddisti, Silvia Ronchey porta nuova luce (“Buddha, Dante e il segreto di Francesco”, “la Repubblica” di giovedì 30) sul passo oscuro del  canto XI del “Paradiso”, dove Dante fa rimare “frange” e “piange” con Gange”, per dire di san Francesco: “Nacque al mondo un sole,\ come fa questo talvolta di Gange”. Un altro sole essendo l’innominato Budda, chi altri? Dante non ignorante di mistica orientale è ipotesi non peregrina, opina la studiosa.  

Docufiction – Capuana la anticipava nel 1882.nei “Saggi di letteratura contemporanea. Seconda serie”, a proposito della biografia di Gavarni a opera dei fratelli Goncourt: “Si legge con l’avidità di un romanzo: forse è un primo saggio di quello che sarà il romanzo futuro: un semplice studio biografico fatto su documenti intimissimi”.

Giallo – È genere semplificatore, nell’intrigo che pure il genere pretende. Alleggerisce, e non accresce, l’ansia del lettore – del lettore ansiogeno. Per il suo meccanismo cardine, di cercare la soluzione: rispetto a ogni altro genere narrativo, fantasy compresa, il thriller ha il vantaggio di confortare il lettore a ogni indizio che escogita, giacché ne ha accettato in partenza il postulato:– il colpevole sarà punito - anche solo scoperto, basta. È come un monumento che si rifinisce, non si costruisce.

Libro - L’Arnheim di Musil i bibliotecari deliranti di Borges: la meraviglia è indotta dalla materia più esanime.

Machiavelli – Sempre molto letto – studiato – in Francia, ma sempre lungo le due linee, del’accettazione o del rifiuto, disegnate nel Settecento. Rousseau, che ha letto anche i “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” e le “Istorie fiorentine”, lo lega alla causa repubblicana, “Il Principe” leggendo come una parodia del potere tirannico, o come combatterlo. Diderot invece, limitandosi al “Principe”, l’aveva liquidato come un manuale dell’“arte d tiranneggiare”. Letture entrambe, curiosamente, un po’ affrettate, semplicistiche.

Molière O della verità doppia e tripla, relativa, elusiva – anche Montaigne. Umoresca ma malinconica.  In personaggi e situazioni in difetto e insieme nel giusto.

Punto di vista – È o dovrebbe essere il vigile che dirige il traffico. Ma è anche nella narrativa, come nella saggistica, più spesso il demiurgo. Sotto le vesti del “conduttore”, il Pippobaudo, majeutico più che assertivo. Si legge come guidati per mano, in condizione fanciullesca.

Romanzo – Esige una “willing suspension of disbelief”, una complice sospensione dell’incredulità, oggi come ai suoi albori, con Coleridge. Quasi come la divinità, Dio.
Anche “avvenimento inaudito realmente avvenuto”, come Goethe  pretendeva con Eckermann.

Ma soprattutto è forte del vecchio trucco della morte\resurrezione, - le reincarnazione, l’eterno ritorno, la vita oltre la morte. La quale s’intende sempre come “vita nova”, diversa cioè e buona.

Tolstòj – “Il più grande realista che sia mai esistito” è per Calvino - “Natura e storia nella letteratura”, una conferenza del 1958 che ha poi ripetuto negli anni 1960 in Italia e all’estero, negli Istituti italiani di cultura, ora in “Una pietra sopra”. “Guerra e pace” il “libro più pienamente realistico che sia mai stato scritto”.

letterautore@antiit.eu 

Nabokov si diverte, di se stesso

“A Julia piacevano gli uomini alti con le mani forti e gli occhi tristi”. Il racconto procede così: la terza persona non basta a Nabokov, vuole oggettivare ancora di più.
Una sorta di autofiction per gioco di specchi – affidata per la pubbliacazione nel 1972, cinque anni prima della morte, al figlio Dmitri. Seppure al modo suo, tutto in esterni, si direbbe al cinema.   
Dedicato, come tutto di Nabokov, a Véra, la moglie manager, editrice e tradutrice, ma questo con più senso, il  racconto è del pensiero proibito di chi nella coppia si rivede solo, per un qualche incidente della vita. In Svizzera, paese di elezione, che il protagonista vede e rivede quattro volte, da ragazzo in vacanza, da giornalista per un’intervista, da marito quasi criminale, e da ultimo per una riflessione sulla vita, la sua e quella di tutti. Sorridente, anzi sornione, nome una parodia del “Nabokov”. A effetto paradossale: di ritrovarsi ingombro dell’altro, sempre nella sua compagnia, per quanto colpevole e non accidentale sia stato l’evento separatore..
Tradotto con la stessa eleganza dell’originale da Dmitri Nabokov, il figlio ora scomparso, che cantava da basso ed era fine italianista. C’è nudo il “metodo” di Nabokov, del tutto visto dall’esterno, senza l’artificiosità della École du regard, ma con lo stesso effetto straniante: lo scrittore non s’immischia nella psicologia dei suoi personaggi. Con, forse, un piccolo autoritratto, come romanziere russo a Ginevra, in viaggio, “novantuno, novantadue, forse novantatré anni fa”, verso l’Italia, con “i fogli sparsi di un embrionale romanzo dal titolo provvisorio Faust a Mosca”. Pieno di ardori ma confuse o poco passionale, al debutto in amore “nella sua cttà natale aveva corteggiato una madre di trentotto anni e la di lei figlia di sedici”” – “Per ragioni ottiche e animali l’amore sessuale è meno trasparente di molte altre cose ben più complicate”.
Un libro di divagazioni in realtà. La matita scorrre per tre apgine come nel famoso sketch di Tognazzi e Vianello, sul “troncio” etc. da cui l’esile manufatto viene fuori. E pensieri sparsi: “La notte è sempre un gigante”, etc.
Vladimir Nabokov, Cose trasparenti

venerdì 1 dicembre 2017

Il fascino della persona senza qualità

In una giornata media le tv nazional fanno spettacolo ospitando circa 300 italiani comuni, gente cioè non del mestiere, non di spettacolo: “I fatti vostri”, “Forum”, “La vita in diretta”, “Ci vediamo in tribunale”, “L’eredità”, “The Wall”, “Soliti ignoti”, le tante “Prova del cuoco”, almeno un talk-show serale, il teatrino della politica con giornalisti, politici, economisti, e  uno spattacolo serale di talenti. Almeno100 mila l’anno.
Lo fanno perché costa meno. E per fare nazionalpopolare, fare parlare l’uomo della strada. Anche per la curiosità, di tante esperienze e passioni bizzarre. Ma con una predilezione, non necessaria, per le questioni e i linguaggi bassi: litigi per lo più, insofferenze, cattiverie, al limite grigiore. E sempre sofferenze.
Fare spettacolo col grigiore è in realtà la chiave: ributtare l’uomo comune nella sua ananke. Non prospettargli un’ora, un giorno di meraviglia. La meraviglia è apparire sul piccolo schermo, è la fine dell’ambizione.
Il paese si specchia nella mediocrità. Se ne inorgoglisce. Ci guadagna anche soldi.

Ombre - 393

Renzi onora della sua presenza il tour promozionale di Fabio Volo col suo nuovo libro. Si penserebbe a un colpo di fortuna, e invece Volo abbandona la sala. La sala dove si parla del suo libro. Non è una gag da ridere, è successo: è il nuovo galateo del “mi si nota di più se…”.

Jovanotti torna , “vulnerabile e fragile”, di prepotenza, ne siamo invasi. Lui umile riconosce: “Come diceva Joe Strummer: «Il futuro non è stato ancora scritto»”. Strummer dei Clash? Ma è il privilegio dell’analfabeta, reinventare tutto.

Striscia su Sky Tg 24 in evidenza, su fondo giallo, per un’ora almeno, la notizia “ULTIM’ORA – Ruby-ter: Berlusconi a giudizio a Siena”. Alternata a “Ruby-ter: Berlusconi a processo per corruzione”. Sembra uno spot elettorale.

Lo spot è confermato la mattina dopo dai giornali radio Rai con un elenco impressionante – non critico, quasi esultante - dei processi “risvegliati” dopo la nuova “discesa in campo” di Berlusconi, – messi o rimessi in moto. Se bisognava convincere i berlusconiani ad andare a votare, è fatta.

Scende in campo anche il capo della Polizia Gabrielli, per dire che lui non ha bisogno dei militari, che alle mafie di Ostia ci pensa lui. Era ora, non ci poteva pensare un po’ prima?

Anais Ginori, da Parigi, informa su “la Repubblica”: “La ministra Marlène Schiappa contro il collega Bruno Le Maire, colpevole di aver presentato una sottosegretaria  chiamandola «Delphine» senza cognome. Abitudine sessista, ha detto, e su twitter ha ironizzato chiamandolo «Bruno»”. I macroniani sono in effetti sorprendenti.

Macron in Burkhina Faso tiene una lezione di due ore agli studenti dell’università. Per condannare il colonialismo. Ma due ore di lezione, più una di dibattito, quasi obbligatorio, richiedono un polso molto duro – coloniale.

Grasso si candida per unificare la sinistra, e dei cinque movimenti che la compongono ne lascia fuori tre. D’Alema lo incorona “uomo della Provvidenza”. Non dice propriamente così, ma lo dice “un valore aggiunto, è persona che gode di grande considerazione, e sa comandare”. Che è tutto, e quanto basta, per guidare la sinistra politica.

Il giudice Woodcock si è querelato per diffamazione contro la giornalista Annalisa Chirico e ha perso la causa. Questa in effetti è una notizia, un giudice che perde una causa contro un giornalista.

Giusto prima della estromissione dalla Congregazione per la dottrina della fede, “il Papa mi confidò: «Alcuni mi hanno detto anonimamente che lei è mio nemico»”. Senza più. Alcuni anonimi. Il cardinale Müller dice anche: “Io resto con papa Francesco”.Ma che poteva dirne di peggio?
San Francesco ascoltava gli anonimi?

La Leopolda di Renzi a Firenze “un tempo aveva senso” per Pif. Un tempo, cioè un anno fa. Poco prima della “tramvata” presa da Renzi al referendum. Ora, s’intende, non più: i comici devono essere tempisti.

Conti sballati, previsioni sballate: incredibile messe di spropositi, di Fubini e del “Corriere della sera”, sul sistema pensionistico. Lettura sballata dei bilanci Inps, confusione incredibile tra assistenza e previdenza, previsioni terroristiche. Non per difetto di competenza, inimmaginabile. Dev’essere la sindrome Boeri: le pensioni non ci sono più, sottoscrivete polizze con le assicurazioni.

 “Il viaggio ufficiale di Ivanka in India irrita i diplomatici: «Perché parte lei?». Quando partiva Michelle invece nessuno bofonchiava? Il “Corriere della sera” scomoda Pino Sarcina per una pagina su un pettegolezzo strafatto – è difficile che un pettegolezzo non sia curioso. Poi dice che nessuno compra i giornali. Dirci chi è Trump e cosa fa no?

Prosegue imperterrita Danièle Nouy, cioè la Vigilanza della Bce, a favorire la speculazione sui debiti incagliati, a danno delle banche vigilate, danni anche gravi. Senza nessuna censura, nemmeno un rilievo, sempre per la solfa del mercato. Che qui è palese, ma dalla parte sbagliata.

Gli Npl vanno visti storicamente, e anche nazionalmente, alla luce della tradizionale gestione in house, cioè dell’esperienza. Arriva la Bce e impone di regalarli agli anonimi del recupero crediti, a prezzi stracciati. In effetti, lascia senza parole. 

Profumo di donna nel Superuomo di Nietzsche

Si celebra per gli uomini eccezionali cui si è accomagnata, Nietzsche, Rilke, Freud. Se ne legge la biografia come di una allumeuse, quali andavano ai suoi anni tra le donne di mondo, ricche o intellettuali, comunque belle, in mostra nelle capitali del momento, Roma, Parigi, Berlino, e perfino di bella horizontale, facile a letto. Ma questa di Peters, mezzo secolo fa, ne restituiva la figura a parte intera – poi consolidata con la traduzione delle sue opere, nessuna banale: il personaggio fa aggio sull’opera, che invece non demerita. Di donna anzi non facile, innamorata solo del giovane Rilke, la metà dei suoi anni, poco meno, che poi lasciò perché potesse “crescere”, acquisire esperienze, esprimesi liberamente.
Un libro denso, di una vita piena. Non “liberata”, non se ne poneva la questione, ma libera. Fino al  matrimonio “in bianco” col barbuto professor Andreas. La giovane russa fu a ogni momento arbitra della propria vita. Scelse di vivere castamente con Paul Rée, “fratello e sorella”, a preferenza del focoso Nietzsche,  senza alcun calcolo di convenienze, per seguire l’impulso a un rapporto di amicizia. Così come con altri, tra essi Rilke, visse e viaggiò in intimità. Da Rée al marito un pattern si può stabilire, non lusinghiero: di un ancoraggio maschile solido per una serie capricciosa di relazioni passionali. Ma non diminutivo.
Al centro logistico del libro una non peregrina lettura di Nietzsche nell’opera centrale “Così parlò Zaratustra”:  il superuomo è una rivalsa, dell’amore rifiutato, della sconfitta con Lou. Non un pettegolezzo, come può sembrare. Nietzsche si appropria di Zaratustra, che non è quello storico, lo svuota, lo fa il se stesso infelice, che in pochi giorni del febbraio, 1883, dopo aver deciso con l’opera precedente, “La gaia scienza”, di prendersi un riposo per riesaminare la sua filosofia, scrive “un libro per tutti e per nessuno”. Linguaggio grandioso, allusioni bibliche a iosa, e una professione di superiorità in acuto contrasto col suo personale strato di prostrazione. Per una vindicatio che subito Nietzsche proclama il suo capolavoro. Il rifiuto di Lou era stato grave perché Nietzsche, notava Peter Gast (e Nietzsche stesso scriveva alla madre e alla sorella), “vedeva in lei qualcuno del tutto straordinario; l’intelligenza di Lou, così come la sua femminilità, lo portavano al colmo dell’estasi”.   
H.F.Peters, Mia sorella, mia sposa. La vita di Lou Andreas-Salomé


giovedì 30 novembre 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (346)

Giuseppe Leuzzi

La storia medievale e moderna dell’Italia si distingue per la grande quantità di fonti: contratti notarili, istruzioni diplomatiche, annali (urbani, feudali, conventuali, familiari), registri dei conti, regesti. Non per il Sud. O le stesse fonti esistono da Napoli in giù e non sono analizzate? Sono il fondamento dell’identità.

A Bagnoli “600 milioni al vento e la bonifica tutta da rifare” – “la Repubblica”. È vero che Napoli supera ogni immaginazione. 

Reggio Calabria, pur essendo una delle ultime (105ma) per servizi culturali nella classifica del “Sole 24 Ore” per qualità della vita, è fra le prime per connettività: al 13mo posto per connessioni con banda larga da 30 Mb. Lo sviluppo può essere opera da poco.

C’era uno “Sport e mafia” già cinquant’anni fa, di un Lorenzo Artioli, per Bompiani. Una mode che parte da lontano. Ci sarà stato anche un “Cinema e mafia”, perché no. Anzi, proprio un “Moda e mafia”. Se non c’è, ci dovrebbe essere, troppi grandi della moda a Panarea e Pantelleria.

Il cordax o cordace, danza che si apparenta alla tarantella, Umberto Eco fa ballare in “Baudolino” a una prostituta, in chiesa. Un prestito, dirà dopo (nella raccolta che ora si pubblica di conferenze “Sulle spalle dei giganti”, da Dimitrij Merezkovskij, il prolifico autore di romanzi storici di fine Ottocento, da lui letto d a ragazzo, “Giuliano l’Apostata”. Ma in chiesa si balla, si ballava fino a ieri (al 2015, a Polsi, come nell’antica Grecia si ballava nel recinto del tempio.


“35 morti accoltellati in Inghilterra e Galles nei primi undici mesi, di cui 24 solo a Londra”. È una notizia ma non uno scandalo, è la “normalità”. la violenza urbana, metropolitana. La violenza non è uguale.


“Sirene”, dopo “I bastardi di Pizzolfalcone”, su Rai Uno, colorata, gentile, oleografica, “Gomorra” implacabile su Sky, senza luce, violenta fin nella parlata: non c’è una Napoli “normale”, una metropoli che pure s’ingegna e fatica. Napoli vuole essere esagerata, fuori della realtà. 

La questione dell’oppressione
La questione meridionale opprime i meridionali. Li fa:
avidi
corrotti
fannulloni
sporchi
brutti
incapaci
malavitosi
omertosi
ora anche mafiosi, anziché vittime della mafia
peculatori
traffichini
imbroglioni
abusivisti
evasori
aggressivi
cinici
Ne uccide la speranza. Li disintegra.
E se qualcosa ne resta ne corrompe la coscienza: nell’immagine riflessa, nessun meridionale riesce, neppure per un attimo, se non con sforzo, e con spreco polemico, a pensare bene di sé. Anzi, introiettando le accuse, i meridionali sono diventati gli alfieri di questa devastazione. Dai radicali Salvemini e Sciascia agli emigrati a Roma e Milano, a una buona metà dei residenti. È raro sentire al Sud una conversazione che non sia afflittiva.
È un meridionalismo indotto da una furba “Milano”, leghista in petto – subentrata da almeno un secolo al Piemonte nella gestione dell’opinione, esaurita con la Grande Guerra la centralità dei Savoia (il fascismo fu anche questo: il passaggio del bastone da Torino a Milano). Che per accrescere la subordinazione si prospetta:  
proba
operosa
virtuosa
ingegnosa
generosa
caritatevole
disinteressata
Al confronto il meridionale non è nulla. Anzi, è peggio di nulla: è cattivo, distruttivo, sperperatore del pubblico denaro, e un po’ sporchetto.
Tutto questo non è invenzione – paranoia, complottismo. Sono il “Corriere della sera” e “la Repubblica”, l’opinione “giusta”.

Se la sicurezza è mafia
La città meno sicura d’Italia è per la classifica annuale del “Sole 24 Ore” sulla qualità della vita Milano, l’ultima fra le 110 città capoluogo di provincia. Al 109mo posto Roma. Lo stesso l’anno scorso, non è un errore di stampa.
Reggio Calabria viene invece a mezza classifica, al 69mo posto. Subito dopo Torino.  Meglio anche di F irenze (106ma), Rimini (101ma), Venezia (77ma), Pisa(89), Brescia (86), Genova (84), Perugia (85), La Spezia (89), Grosseto (80), Lucca (99), Savona (97), Pescara (102), Imperia (98), Massa (75), Pistoia (82).
Roma e Milano, la Toscana e la Liguria sono i luoghi delle mafie? No. L’indice del Sole” censisce i furti, di auto e in casa, scippi e litigiosità. Una criminalità che va con la dimensione urbana, e con la ricchezza relativa. Verrebbe facile anche dirla esclusa dalle mafie: dove ci sono le mafie i ladruncoli sono pochi e lavorano poco. Ma questo non è il caso di Napoli, dell’asse Napoli-Caserta, dove lo scippo e il furto dell’auto non fanno eccezioni (ma Salerno,100ma, è peggio di Napoli, 96ma, nella classifica del “Sole”). O a Roma nei quartieri dominati dai clan, i Casamonica a Sud-Est, gli Spada e i Falciani sul litorale.  

Il puntiglio
Non si è finito di votare in Sicilia, che le liti sono scoppiate come petardi di strada. I giudici di Messina non sanno più chi incatenare per evasione fiscale, a partire dal neo-eletto Cateno De Luca, arresto forse d’obbligo dato il nome. E dal ventenne Luigi Genovese, altro neo-eletto. Anch’esso arresto forse d’obbligo in quanto figlio di Francantonio, il deputato nazionale Pd già condannato. Cateno e Genovese jr sono del centro-destra, ma questo non vuol dire. A Palermo arresti sono stati subito decretati per qualche esponente della sinistra. Il punto è il puntiglio – si sa già che i processi non ci saranno o finiranno nel nulla.
L’arresto ha scatenato Cateno De Luca. Che non passa giorno che non infilzi i Procuratori della Repubblica della sua città. I quali non parlano, ma lo caricano di altri delitti. Prima e dopo il voto, l’isola e l’Italia sono state occupate dalle dichiarazione di Crocetta. Un presidente di regione di cui non è stata possibile la ricandidatura per i troppi fallimenti, che però ritiene d essere nel giusto, in ogni singola piega. E insiste.
Più che virulenza, è umoralità. Fuori da ogni logica, anche solo di convenienza. Anche in affari di giustizia. Che si decidono a chi è più puntiglioso. Avvocatesca forse, ma aperta a tutti: tempo e energie sprecati. Di cui non si può nemmeno chiedersi “cui prodest?”: il puntiglio non vuole calcolo, è una esibizione di sé, ma in forma autodistruttiva, del tipo vagamente biblico che si dente così spesso citare, del “muoia Sansone con tutti i filistei”.

leuzzi@antiit.eu

Napoli immaginaria

Nella compiaciuta rievocazione del libro all’uscita, premessa a questa riedizione nel 2011 per i cinquant’anni, La Capria ricorda che il libro fu subito dei lettori. Benché complesso e anzi arduo.
Con argomentato sostegno critico (una corposa appendice riporta quello di Pampaloni, più una serie di altri recenziori, Pomilio, Starnone, Perrella Magris, Colombati), ma limitato.
Un primo modo di autofiction: I dieci anni dal 1943 al 1954 di un personaggio-narratore, per frammenti e flash, come di chi ricordasse: di un giovane napoletano che vive anche a Roma, e di un suo amore a mare irraggiungibile. Come la giovinezza trascorsa, “la bella iurnata”, ricorderà complice Magris, come il mare perduto. Dieci anni dopo l’esordio del La Capria narratore, una radicale curvatura a U.  C’era stato intanto Arbasino, coi racconti di “Anonimo Lombrdo”, la tecnica è quella: la scrittura asintattica, allusiva, di cose narrate-viste, con pennellate impressioniste - dette joycianamente epifanie.
O anche il romanzo di Napoli – “una città che ti ferisce a morte o t’addromenta”. Se ne vorrebbe un altro destino, meglio che addormentare, ma su Napoli La Capria è probabilmente imbattibile. Napoli quand’era snob – ci sono arbasiniane “mezzecalzetterie”. Che aveva lavoro ma lo disprezzava, mentre gli epigoni oggi se lo arraffano. Se non che tutti, locali e stranieri, si sf ilano il sotto del bikini – ma c’era allora il bikini, attorno al 1950? – sullo scoglio, e la cosa sembra scomoda. In mezzo alla città poi: gli scogli sono quelli artificiali di villa Peirce, che si è vista nella serie tv “Un posto al sole”, a Posillipo in fronte al mare ma villa tipicamente villa urbana, all’epoca villa Lauro. E anche questo è cambiato: allora c’era Lauro a Napoli, oggi?
Cosa resta? Un racconto d’epoca. Anni 1950 più che 1960. Da melodramma dolce vita.
Raffaele La Capria, Ferito a morte, Oscar, pp. 219 € 8,50

mercoledì 29 novembre 2017

Stupidario classifiche

Si sta male a Roma, anche se meglio dell’anno passato: la capitale è al 67mo posto per qualità della vita (Osservatorio La Sapienza Roma).

L’anno scorso si stava a Roma quasi peggio che nel resto d’Italia: la città era all’83mo posto, su 110. Niente scuole, niente ospedali, nente parchi pubblici? Niente.

Anche a Milano non si sta granché:¨poche scuole, pochi ospedali, etc. La città è a metà classifica, al 56-57mo posto.

E Torino? Sta ogni anno peggio, ora è scesa al 77mo posto, su 110.

Per l’analogo indice del “Sole 24 Ore” Milano è la città meno sicura d’Italia, al 110mo posto per Giustizia e Sicurezza.

Ma a Roma, per “Il Sole 24 Ore” si sta molto meglio: la capitale è al 24mo posto. E stava anche meglio, non fosse stato evidentemente per la sindaca Raggi: nel 2016 era al 13mo posto.

Anche a Milano, per “Il Sole 24 Ore”, si sta bene: la capitale lombarda è all’ottavo posto. E nel 2016 vi si stava benissimo: Milano era al terzo posto – dietro due città piccole e di montagna, Aosta e Trento. Smetteranno i milanesi d andarsene ogni settimana venerdì a pranzo?

La favola di Leonardo, Machiavelli e Cesare Borgia

Come Leonardo e il giovane Machiavelli si sono incrociati nei primi anni 1500. In molti posti e per molti affari, senza mai nemmeno nominarsi. Alla corte di Cesare Borgia, a Urbino e a Imola, e a Firenze, nei circa due anni che Leonardo vi trascorse, reduce da Milano, dopo che i francesi – alleati del Borgia – vi avevano rovescito il suo patron, Ludovico il Moro. Senza mai nominarsi l’uno con l’altro quasi di proposito, pur essendo entrambi scrittori e annotatori minuti del giorno per giorno. Tra Leonardo e Machiavelli l’autore disegna “la conversazione muta della «Camera degli sposi»” a Mantova: “Due uomini senza dubbio si parlano, ma noi non li sentiamo”.
Su questo mancato “incontro”, che non può non esserci stato tra le persone, ma non se ne trova traccia sulla carta, lo storico medievista e moderno francese Boucheron costruisce un racconto affascinante. Non il solito giallo, come è d’ordinanza, ma una rappresentazione dal vivo dei due personaggi. Di Leonardo nella sua aggrovigliata personalità, e del giovane intraprendente, grande cronachista se non grande diplomatico, Machiavelli. Attorno a quello che avrebbe dovuto essere e non seppe essere, il creatore di una regno d’Italia. All’inizio e alle origini del secolo fatale per l’Italia che fu il Cinquecento, con le “discese” in un primo momento dei francesi, di Carlo VIII e di Luigi XII. Il Cinquecento, nota anche Boucheron, è il momento in cui l’Italia abbandona il suo “sogno di potenza”.
Altre imprese Leonardo e Machiavelli condivisero negli stessi primi anni 1500. Lo scolmatore” dell’Arno, il primo, nel 1504, impresa fallimentare, malgrado una enorme spesa: voluto da Machiavelli per portare i ribelli pisani alla resa, e confidato a Leonardo. E nello stesso anno l’appalto per la “Battaglia d’Anghiari” a Palazzo Vecchio, altra impresa fallimentare. Qui, finalmente, si ritrova la firma Machiavelli in calce a un documento di Leonardo, il contratto di affidamento dell’opera – un evento su cui tra i due c’è palese discordanza: Leonardo nel cartone preparatorio lo drammatizza, Machiavelli nella “Storia di Firenze” lo mette in burla.
Ma altri colegamenti, più sottili e vividi, sono ricavabili. Come il “tutto vivente” di Leonardo, concezione singolare, che il cap. VII del “Principe” ripete. Con un’ipotesi verosimile sull’icomprensibile fascino che il Valentino esercitò sul malizioso Machiavelli: che fu l’unico attore sulla scena, l’unico protagonista, con cui Machiavelli ebbe scambi diretti. Personali, ripetuti, distesi, di notte, senza l’ingombro degli affari e dei cortigiani, a Urbino più volte e a Imola.
Un Leonardo nuovo, l’esploratore tenace e inquieto della vita - dell’acqua, l’aria, la luce, le ombre, i mineali, e di ogni essere animato E il Machiavelli di sempre, operoso, lo scienziato, il primo che abbia osato avventurarvisi, ribaltando i principi aristotelici, della politica – Boucheron ha la “velocità machiavelliana”, di scrittura, di concezione, di soluzione. Unospirito analtiico, incessante, e uno pratico: “Machiavelli travolge la tipologia che Aristotele fa dei  regimi (e che fonda, ancora oggi, la saggezza politica) perché è l’idea stessa del fondamento che lo orripila. Descrivere la politica è figurare la battaglia”.
Un ‘altra versione deI fatti, volendo, rispetto a quella ora dimenticata ma a lungo famosa di Merezkovskij, il romanziere Fine Ottocento amato da Freud, nel diffusissimo “Leonardo da Vinci”. La vita romanzata dello scrittore russo era centrata sulle conversazioni e le dispute tra i due grandi toscani alla corte di CesareBorgia. Lo storico evita il romanzesco, ma non se ne priva: scrivendo in punta di penna, Boucheron muove i due personaggi come in un racconto di fiaba, come si addice all’epoca e ai luoghi. Ma con ausilii precisi, dei poligrafi Leonardo e Machiavelli e dei loro contemporanei. Il giusto, senza farsene soverchiare, e senza le noiose note di precisioni.

Patrick Boucheron, Léonard et Machiavel, Verdier, pp. 219 € 7,20

martedì 28 novembre 2017

Il mondo com'è (325)

astolfo

Imperialismo – È categoria politica in disuso. Obliterata con la caduta del Muro, dell’impero sovietico, e con la globalizzazione. Dopo essere stata al centro della storia europea per almeno due secoli. Come dominio coloniale, come amministrazione diretta, e come dominio di potenza, per influenza politica o, soprattutto, militare.
L’inglese ne registra l’apparizione nel 1832, come “dottrina dei partigiani del dominio imperiale”, ma di più a partire dal 1878, quando si facevano alleanze, intese e congressi per gli imperi europei nel mondo, mediante accordi di divisione si sfere d’influenza e per evitare collisioni fra i disegni delle metropoli o fra gli eserciti di conquista, in Africa e in Asia.
Altre categorie di sfruttamento sono subentrate, anche se non se ne fa la classificazione (teorizzazione). L’Africa, a mezzo secolo dalle indipendenze, è solo un luogo da cui fuggire. Nessuno dei cinquantaquattro governi africani può vantare un record di buone opere, anche se solo alla sommatoria, di buono e cattivo: giustizia, istruzione, produzione. Molti sono regimi a vita, anche se con elezioni periodiche. La corruzione è la norma, con conti in Svizzera - pratica altrove desueta ma in Africa praticatissima, dall’Angola alla Nigeria e allo Zimbabwe. Lo sfruttamento pure. E le uniche produzioni attive sono di tipo monoculturale, le vecchie specializzazioni coloniali.
Alla sommatoria, il colonialismo, con tutte le sue colpe, ha costruito più che le indipendenze, in Africa e anche in alcuni paesi dell’Asia, in Sri Lanka, in Birmania.

Italia – La politica vi è salvifica? Calvino lo diceva a proposito dei comunisti negli anni 1960, in un articolo su”la Repubblica”  il 13 dicembre 1980 (“Quel giorno i carri armati uccisero le nostre speranze”): “Noi comunisti italiani eravamo schizofrenici. Sì, credo proprio che questo sia il termine esatto. Con una parte di noi eravamo e volevamo essere i testimoni della verità, i vendicatori dei tori subiti dai deboli e dagli oppressi, i difensori della giustizia contro ogni sopraffazione. Con un’altra parte di noi giustificavamo i torti, le sopraffazioni, la tirannide del partito, e Stalin, in nome della Causa. Schizofrenici. Dissociati. Ricordo benissimo che quando mi capitava di andare in viaggio in qualche paese del socialismo, mi sentivo profondamente a disagio, estraneo, ostile”. Ma quando il treno mi riportava in Italia, quando ripassavo il confine, mi domandavo: ma qui, in Italia, in questa Italia, che cos’altro potrei essere se no comunista?” Al punto da passare per questo sopra a ogni esigenza di coerenza, di verità – anche personalmente: Calvino scrisse corrispondenze affettuose a e ammirate dall’Urss per “l’Unità”.
O la dissociazione non deriva da un bisogno di assolutezza (purezza)? Anche perché non è condizione unicamente comunista, ogni fede politica, si può dire, la condivide in nuce, in radice.. Della politica non concepita non come buona amministrazione, capacità delle persone, bontà dei programmi. Come avviene nei paesi anglosassoni, che votano da molto tempo,  ma anche i Germania. Mentre in Italia è vissuta, non concepita: umorale e passionale, e assoluta. È esito sacrale e assoluto, ancorché indistinto, un’escatologia.
Questo sentimento è comune anche al corpo informe del voto cosiddetto confessionale, dovunque si collochi, si esprima esso per la vecchia Dc, o per Berlusconi, o per Renzi: una passione magari intermittente ma totalitaria. E alla indigeribilità di Berlusconi, una vera e propria guerra ormai di trent’anni, con mobilitazione di polizie, tribunali e redazioni. I socialisti, che proponevano una politica delle cose, sono stati spazzati via, fin nella memoria. Grillo, che non sa che cosa vuole, ma la vuole per sé, con passione, è invece una droga per molti, a prova di giudizio – soprattutto per le “vecchie guardie” comuniste e fasciste.
Una politica totalizzante la diceva Calvino, che spesso per essa compiva – o non: a cui spesso si chiedevano? – “operazioni abusive e mistificanti”. Mussolini ha perso la guerra, ma per il resto rispondeva alle attese. L’Italia è nell’impasse politica da trent’anni da quando il comunismo morendo le ha inoculato nuovamente la politica della non politica.

Italia-Europa – Si può dire l’Italia vittima dell’Europa.
Si lamenta, nel senso comune, e perfino nel governo, che ne è in gran parte il responsabile, un complesso d’inferiorità dell’Italia nei confronti dell’Europa. Grande e piccola. Una dissimmetria, che non corrisponde alle dimensioni demografiche, produttive, di conoscenze, e di patrimonio culturale, dell’Italia in Europa.
In effetti è così: la dissimmetria non è l’esito di una disparità dimensionale, di ampiezza, territoriale, demografica, produttiva. Anzi, la posizione geografica farebbe naturalmente dell’Italia una potenza europea, la potenza europea nel Mediterraneo. È una dissimmetria che parte da lontano, è millenaria. Ed è di tipo imperialistico.
Si addebita l’“inferiorità” dell’Italia al frazionamento politico, che si è ricomposto solo con l’unità, nel 1860. Dopo aver favorito, e anzi invitato, intromissioni straniere di ogni tipo: per oltre mille anni l’Italia, pur colta, ricca, intraprendente, avventurosa, è stata il truogolo di ogni gigante e nano d’oltralpe e d’oltremare. Questo  è risaputo, ma si dimentica nell’Italia contemporanea. Anche perché la Repubblica in troppe occasioni si è asservita e si asservisce – da ultimo nelle regole bancarie, dal bail-in agli npl, questioni solo apparentemente specialistiche.
Ma – è questo il punto nodale – mai l’Italia si è intromessa, in nessun modo, oltralpe e oltremare. Mentre è sempre stata invasa e occupata. Dalla Germania dapprima, fino al Barbarossa. E dagli arabo-berberi del Nord Africa. Poi dalla Francia, a partire dai Normanni, e dalla Spagna, che se la divisero. Poi dai Borbone e gli Asburgo, legati all’impero d’Austria. E nell’Otto-Novecento è intervenuta anche la Gran Bretagna, in Sicilia e Calabria e, sulla rotta per il Medio Oriente, e più ancora dopo il Canale di Suez.
Il tardo colonialismo del Novecento, in Libia e in Etiopia, non muta la dissimmetria.
L’imperialismo europeo in Italia è stato sempre anche molto violento. Il frazionamento si era ricomposto a metà Quattrocento, con la pace di Lodi tra le signorie, ma Carlo VIII e i suoi vassalli,  i Borgia per primi, la fecero naufragare con sconquasso – illudendo Machiavelli, che cercava una dinastia unificatrice, fallito il concerto dei signori, e pensava di averlo trovato nel “Valentino” (vittima forse più del fascino del palazzo Ducale di Urbino, dove lo aveva incontrato da emissario giovane della Repubblica, che dal personaggio).
Tra Italia e Francia, in particolare, la storia è a senso unico: di occupazioni e intromissioni. Sempre della Francia in Italia, mai all’inverso – se non per l’avventura di Mussolini nella guerra di Hitler (in certo modo benefica per la Francia occupata dagli italiani, che beneficiò di clemenza rispetto alla repubblica di Vichy). Senza mai neppure un diversivo. Sì, Nizza e la Corsica di Mussolini, ma non c credeva nemmeno lui.
Le intromissioni non si sono ridotte con l’Unione Europea, di cui pure l’Italia fu una delle prime e più convinte assertrici. Della Germania, che si è messa sempre di traverso in tutti i rapporti dell’Italia con l’Est Europa, petrolio, gas, tubi, trattori, automobili, perfino le pellicce. E più ancora della Francia. Nei rapporti col Medio Oriente, dal Libano all’Iran, e in Nord Africa. Fino alla Libia, di Sarkozy e ora di Macron: una sovversione antitaliana perfida, tanto più in quanto perdente.
Solo a metà Ottocento l’Italia ha raggiunto la rispettabilità, in termini di codici d’onore della potenza, con l’unità: una vera rivoluzione, e più per l’Europa si può dire che per l’Italia. Ma anche l’unità fu raggiunta sotto il patronaggio della Francia al Nord, contro l’Austria-Ungheria – dopo che la stessa Francia aveva abbattuto la Repubblica Romana, l’inizio di una nuova Italia, senza giustificativo. E dell’Inghilterra nella guerra ai Borboni. E per una stagione breve. Già con Lissa e Custoza la credibilità si era dissolta.
Non conta in realtà la divisione, anche la Germania era divisa. Ma si è presentata all’unità con la Prussia. Una staterello che non era più grande, come dimensioni e popolazione, del Regno di Sardegna, ma aveva acquisito nel Settecento con le guerra vincenti alla Sassonia e all’Austria, di Federico II il Grande, e poi nelle guerre napoleoniche, statuto di potenza europea. E da sola unificò la Germania, sempre vincente.
Nessun principe italiano ha avuto disegni, nemmeno perdenti, oltralpe. Ma, più che delle divisioni, si può dire l’Italia vittima della sua mancata forza militare, non altro. Quello che il cardinale di Rouen spiegò a Machiavelli nel corso della sua ambasciata alla corte di Luigi XI in Francia – o Machiavelli si fece spiegare dal cardinale, di cui riferì nelle relazioni a Firenze e tredici anni dopo poi rielaborò al capitolo terzo del “Principe”: gli italiani non contano perché non s’intendono di guerra.

È questa l’origine della dissimmetria, che è in realtà una dipendenza. Anche oggi che non si combatte con le armi - l’Europa è vaselinesca.

astolfo@antiit.eu 

Ci vuole un Le Pen per fare un Macron

Sembra infantile la corsa a dirsi e farsi Macron, di Renzi come degli altri giovani rampanti della politica, Salvini o Di Maio. Ma anche sciocco. Tutti sognano di ripetere il trionfo di Macron -  stanno perfino preparando una moglie così così, mezza glamour-mezza mamma, che ripeta il modello Macron. Come se il presidente francese fosse l’Arcangelo. Mentre è solo l’anti Le Pen di turno.
L’unico merito di Macron è di aver battuto al primo turno la concorrenza anti-Front National. Un candidato repubblicano accusato di corruzione e una sinistra bollita dal suo presidente Hollande.
Al turno decisivo tutti vincono facile in Francia contro il Front National e la famiglia Le Pen. Il Front National e i Le Pen sono i più forti al primo turno. Dopodiché il runner up al secondo turno, chiunque egli sia, Chirac, Sarkozy o Hollande, vince agevole il secondo turno – Chirac e Sarkozy,  gollista, ebbero i voti socialisti, Hollande quelli gollisti e centristi. Macron ha avuto un milione di voti più di Marine Le Pen al primo turno, e dieci milioni al secondo.

Problemi di base macronici - 375

spock

Un asse con Macron chiedono i giovani di Renzi alla Leopolda: in che senso?

È indulgente Macron coi giovani italiani che gli fanno la corte: sarà pederasta?


O Renzi vuole levare le tasse ai ricchi, come Marcon?

Perché Macron è rifondatore dell’Europa in Italia e in Francia no??

Comprarsi l’Italia liberamente, e sulla Francia alzare barriere, è rifondare o improsare?

Multare la Fiat (10 miliardi….), ma non Renault, non Peugeot, non Volkswagen, che Macron è?

Perché la Francia scava in Libia contro l’Italia, Macron dopo Sarkozy?

Il marito giovane domina la moglie più anziana” (Kant)?

spock@antiit.eu

La storia è arte

Croce si scopre infine filosofo, a 27anni. Senza volerlo, anzi per caso: “Come una rivelazione di me a me stesso”. Argomentando che scrivere di storia è una forma d’arte.
La storia (storiografia) va connessa all’arte, non alla scienza o alla filosofia. Ha bisogno di materiali e di stumenti, ma si fa buona storia, convincente (“veritiera”), come un qualsiasi altro manufatto esteticamente apprezzabile. Anzi, in un certo senso è quella che più agevolmente realizza e spiega il fatto estetico: “La forma estetica non è, come alcuni credono, qalcosa che abbia valore estetico per sé, e sia applicabile a certi contenuti sì e a certi altri no, come una vesta variopinta o un diadema di gemme scintillanti. Essa, direi quasi, è una proiezione del contenuto”.
Un intervento polemico, in risposta a un lungo saggio di Pasquale Villari, “La storia è una scienza?”, apparso a puntate sulla “Nuova Antologia” nella prima metà del 1891, spinge Croce a una contestazione. Che legge all’Academia Pontaniana il 5 marzo 1893, e poi pubblica negli “Atti” dell’Accademia stessa. Successivamente dimenticandolo, ma non del tutto - non nel “Contributo alla critica di me stesso”.
Galasso lo recupera spiegandolo come una contestazione impulsiva al positivismo di Villari, una storiografia di cui Croce era stato già aspramente critico. E come una sorta di illuminazione, al Croce stesso, della riposta passione speculativa. Tutto avvenne in una notte, racconta Galasso: Croce aveva redatto una risposta positiva all’interrogativo di Villari, ma “dopo una notte di tormentosa riflessione, il problema gli apparve in una luce nuova e diversa, tanto che ne scaturì un testo di senso del tutto opposto a quello ormai pronto in tipografia, che a quel punto si dovette disfare e sostituire con quello che venne infine pronunciato all’Accademia Pontaniana di Napoli” qualche giorno dopo.
Benedetto Croce, La storia ridotta vsotto il concetto generale dell’arte, Adelphi, pp. 91 € 7


lunedì 27 novembre 2017

Il piagnisteo dei ministri italiani

“Il piagnisteo che ci danneggia” lamenta il sottosegretario agli Affari Europei Sandro Gozi, nei rapporti con l’Europa. Che però dovrebbe avere abbastanza esperienza di affari europei per sapere che la condizione minoritaria dell’Italia nella Ue, anche di fronte all’Olanda, perfino alla Finlandia, è l’effetto di un’azione di governo indolente e scialba. Limitata alle pacche sulle spalle, anche ai baci e abbracci in regime Merkel. Il più delle volte senza sapere nemmeno quello che sottoscrivono – il bail-in  è solo il fatto più macroscopico, ma uno fra i tanti di grande e grandissimo impatto. O Schengen, per dire, che ha fatto dei settemila km. di coste dell’Italia una frontiera aperta sull’Africa e l’Asia.
Responsabilità sempre e solo di governo. Con ministri degli Esteri mai incisivi, e ministri del Tesoro vecchio stile, centrati sull’Italia, a partire dalla lingua, mentre tutta la politica monetaria e di spesa è ormai fatta a Bruxelles e Francoforte, su metodologie e filosofie angloamericane. Ottime burocrazie agli Esteri e alle Finanze ancora a fine Novecento sono state devitalizzate per un inesistente primato della politica.
L’effetto, curioso, è che qualsiasi starnuto a Bruxelles diventa nei media italiani una tempesta. Caso unico nelle opinioni pubbliche di tutta Europa. È così che ministri incapaci o non rappresentativi finiscono per alimentare la debolezza dell’Italia invece di migliorane l’immagine – com’è possibile che il rating dell’Italia, dell’Italia, sia uguale a quello della Romania, del Marocco e del Kazakistan?

Ma l’Africa siamo noi

“Il grande gioco per l’Africa, Roma rincorre Parigi e Berlino”. Si scrive, e magari si pensa, per orgogliosa ignoranza, senza complessi – l’ignoranza non è un peccato. Rincorrere la Germania in Africa, dove? La Francia invece è ingombrante, ma può vantare un solo esito positivo dopo la decolonizzazione, negli ultimi cinquanta anni? E trascuriamo quanto l’Italia ha fatto e sta facendo per salvare decine e centinaia di migliaia di vite africane, da almeno un decennio, senza misura con quanto tutto il resto della Europa ha fatto - cosa notoria anche nell’Africa più remota, ma, evidentemente, non in Italia, non nei suoi giornali.
Le sole occasioni di sviluppo la Tunisia e l’Algeria le hanno avute con l’Italia: la Francia ha cercato di chiudere le frontiere delle ex colonie ma in Nord Africa non c’è riuscita. E ora, da un decennio, briga contro l’Italia in Libia, a prezzo di disgregare la Libia e produrre migliaia di migranti morti o schiavizzati. Così come voleva prendersi l’Angola quarant’anni fa con gli affreux, truppe mercenarie comandate da (ex) ufficiali dei suoi servizi  E cinquant’anni fa del Biafra, l’area petrolifera della Nigeria, con forniture di armi de denaro. Ha mandato in malora esperienze di stabilità e progresso in Senegal, in Costa d’Avorio, in Malì.
Ma un censimento è inutile: la Francia è in Africa all’Ottocento. Molto presente, non ha offerto e non offre nulla di buono agli africani. La stessa Gran Bretagna ha grosse responsabilità in Africa, seppure se ne sia disinteressata ormai da tempo. Per esempio nello scompaginamento della Rhodesia per lasciare la parte migliore ai suoi coloni, in quallo che è poi diventato lo Zimbabwe di Mugabe.
L’Italia invece ha speso molto in Africa, del Nord e del Sud del Sahara. Ha costruito meno di quanto ha speso. Tanti i miliardi, in euro, buttati nelle sabbie somale. Ma ha dato sponde importanti allo Zambia, ex Rhodesia, all’Egitto, quando gli Usa diffidavano, alla Libia di Gheddafi e di prima, al Libano, e al Maghreb, con finanziamenti e con gli accordi economici ex Mec, per le colture agrumarie e vitivinicole - quando da Roma si alimentava ancora una politica mediterranea di quella che sarà la Ue, quando Prodi la avrà imbottita di Centro-Est Europa, cioè di Germania, che invece se ne dimenticherà, .
Molto l’Italia ha dato e dà nell’Africa a Sud del Sahara anche con i fondi della cooperazione, attivi omai da trentacinque anni. Che se in un primo momento si sono spesi per un export mascherato, da tempo sono indirizzati alla cooperazione dal basso, per iniziative sanitarie, di formazione, tecnologiche, socio-culturali. Che sono anche l’unico modo per la cooperazione allo sviluppo di prestare un aiuto efficace. Senza misura comparabile con la Germania, e anche con la Francia.


Criticare Grillo si può, via Usa

Gli Usa non amano i 5 Stelle. Se ne occupano poco, per dirne male. Il “New York Times” dopo il “Wall Street Journal” e “The Nation” (che ne ha fatto un movimento prefascista). Sanno che cos’è l’improvvisazione – anche perché un Di Maio gigante si sono ritrovati presidente, e non sa che fare. Ma non è niente di più di una opinione politica seppure polemica. Accettabile, oppure no, a giudizio.
Inaccettabile è che i media italiani, non osando criticare Grilo, neppure analizzarlo, si servano dei media Usa per farlo, facendosene megafono. Si servono, ingigantiscono, moltiplicano le semplici osservazioni estere.

Hanno paura di parlare in proprio? Paura di chi, di Grillo? Potrebbe essere: Grillo li minacciava, fino a un anno-due fa. Ma come prendere sul serio Grillo? Paura di perdere i lettori? Ma allora non sanno che gli elettori di Grillo non leggono. Per il resto, invece di demolire i talk-show, che hanno fatto la grandezza del grillismo, assurdi, osceni per quanto vestiti, un Grande Fratello e un’Isola dei Famosi della politica, un avanspettacolo poverissimo senta tette, ma demolitore di ogni seria ponderazione, se non altro per stanchezza, li magnificano, se ne fanno cassa di risonanza.
Uno storico che analizzasse Grillo sui media, non se ne potrebbe fare che una opinione pessima, Dei media. 

Fake news è fake news

Fake news è fake news chi lo dice. Si fa scandalo di un ex collaboratore di un amico di Renzi, l’industriale informatico Gattai,  che sarebbe “dietro” l’articolo del “New York Times” di critica ai grillini per le troppe bufale sparse nei loro social. Gattai si tira fuori, ma dice che anche questa è una fake news – i social sono pieni di “chi c’è dietro?”. Come dire: non c’è rimedio.
Il rimedio sarebbe ridare senso al linguaggio. E cioè ricreare le gerarchie. Dire dei social quello che sono, il vecchio bar. Che invece sono venerati, e invidiati, dai Gattai come dai comuni socialites. Mentre si appiattiscono ancora di più, dopo i photoshop lusinghieri, con la moda delle fake news. Che è ancipite: da una parte c’è chi le spara più grosse che può, dall’altra chi se ne fa cacciatore. Terra terra anche lui, con le stesse “armi”, cioè spuntate. Chiacchiere su chiacchiere.
Un impero del niente che sarebbe facile soppiantare, se i media, che ne sono i nemici dichiarati, non li osannassero. Viviamo così tutti l’epoca di Trump, anche se non lo sappiamo: twitter la mattina e russiagate il pomeriggio

I conti di Berlusconi

I conti di Berlsucon sono semplici. Con questa legge elettorale, con una legge che non è sua, vince agevolmente le elezioni, a condizione di tenere la Lega e gli altri partitini – non Alfano - avvinti. Gli basta avere un voto più dei grillini in 70 collegi uninominali su cento e avrà la maggioranza assoluta alle Camere, anche se arriva secondo, perfino terzo a pari merito, nel proporzionale. .
Sui 340 quarana seggi uninominali tra le due Camere, il 70 per cento fa 240 parlamentari. Non un risultato semplice. Eppure sì. Basta indovinare il candidato da opporre localmente al grillino, in grado di smuovere gli astenuti.
L’esito sarebbe facilitato dall’aumento dei seggi uninominali al Nord, con la riduzione, anche se di poche unità, in Umbria e Basilicata, regioni “rosse”. Non è comunque sul Pd che Berlusconi gioca le candidature. Anzi, della situazione attuale del Pd si fa forte: in ogni circoscrizione vedrà il suo candidato insidiato dai suoi dissidenti, di Mdp e altre formazioni.

La schiavitù felice del mercato

“Il tradimento della democrazia” è il sottotitolo. Di un titolo che è solo un’eco della più celebre “Ribelione delle masse” di Ortega y Gasset, 1929. Il filosofo spagnolo ci vedeva bene. Qui parliamo degli yuppies anni 1980. In Italia della “Milano da bere” che fu fatale a Craxi e al socialismo. Ma altre vittime non ne ha fatte: la ribellione delle élite non ha provocato la ribellione delle masse. È principio fisico che a ogni azione corrisponde una reazione. Ma la reazione\ribellione delle masse non c’è stata, anzi c’è una fideistica, nemmeno rassegnata, anzi partecipata adesione delle masse, via shopping, voluttuoso voluttuario.
Un’opera che si legge, dopo appena vent’anni, allo specchio, un po’ rivoltata. Si ripubblica come “l’opera che ha annunciato la separazione tra élite e masse popolari e la nascita dei nuovi populismi”. Come anticipazione di Trump. Ma Trump – presidente eletto, dai meno abbienti – e il populismo sono l’ultimo sopruso delle élite o non il loro trionfo? La “rivoluzione delle élite” ha semmai fatto macchia d’olio, contagiando le masse. Le masse non sanno. Le masse credono.
Il potere è sempre più elitario. In questo Lasch era tempestivo, e controccorente.
“La ribellione delle élite” è dei primi anni 1990 – sarà pubblicata postuma nel 1996, due anni dopo la morte del sociologo liberal, radicale, di formazione marxista. Nel pieno del fulgore del liberismo - del mercato, dell’arricchitevi. Oggi andrebbe specificato: il potere è sempre più finanziario. O allora tecnologico, ma ugualmemnte incontrollabile – non paga nemeno le tasse. Quello politico è esiduale. E il potere finanziario è occulto, remoto, ristretto. Ha il dominio del denaro e dell’informazione, e può fare di segatura polpette. Anche relegarci – suaviter – a dibattere di populismo, o dei populismi. O di schiavitù, perché no, ma a opera di caratteristi arabi su comparse africane. 
I populismi, secondo il collegamento che vuole l’edizione Neri Pozza, sono movimenti ciechi, incarnati a caso. Per lo più improduttivi. Sembrano mutare la scena, ma solo quella che appare, un fodnale di cartapesta, dietro peraltro porte girevoli – qui lo dico qui lo nego, mi vedo e non mi vedo. C’è una rincorsa da fare vecchia di trent’anni, almeno: un campo vastissimo da recuperare, per la democrazia, una vera libertà, un minimo di eguaglianza. Magari partendo dalle malattie indotte dal cottimo e dall’incertezza: così, giusto per esercitarsi, restando in chiave di mercati, di costi\benefici.
Christopher Lasch, La ribellione delle élite, Feltrinelli, pp. 216 € 9          
La rivolta delle élite, Neri Pozza, pp. 255 € 17

domenica 26 novembre 2017

Letture - 325

letterautore

Galileo – Calvino lo dichiara “il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo”, nella conferenza  “Natura e storia nella letteratura” che negli anni 1960 portò in varie parti d’Italia e all’estero, sulla scia di Leopardi. Che gli fece largo spazio nella sua “Crestomazia”, ammirandolo in più punti dello “Zibaldone” per la precisione e l’eloquenza congiunte.

Gramsci – “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”, la sua massima più celebre, è di Romain Rolland – cui lui stesso la attribuisce, servendosene

Incastro – È il procedimento tipico del romanzo? Delle “Mille e una notte” o del “Decameron” come già del primo romanzo in epoca ellenistica. E se il romanzo ellenistico è derivazione indiana (con più certezza lo sono “Le mille e una notte”), comunque asiatica, forti costruzioni se ne trovano nel “Sogno della camera rossa” e nel “Chin P’ing-Mei”. Tzvetan Todorov, “Gli uomini racconto” (“Teoria della prosa”), lo dice il meccanismo anche del “Manoscritto trovato a Saragozza” – ma allora di tutti i racconti “trovati” (nella bottiglia, affidati, ereditati, emersi….).

Italia – È manzoniana caratterialmente, letterariamente? Calvino (“Il midollo del leone”, ora in “Una pietra sopra”) dice Carlo Levi scrittore, “come tanti nostri antichi, ragionatore di storia e di politica”: una tradizione a cui lui stesso allora (1955) voleva collegarsi: “Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia,  in una letteratura come educazione”.

Leonardo – Walter Isaacson, ultimo biografo, così lo propaganda: “Come Eistein e Steve Jobs era anticonformista e ossessionato dal perfezionismo. L’erede oggi: Jeff Bezos”. Per vendere meglio? Isaacson, non Leonardo ovviamente.

Manzoni “La Storia si può veramente chiamare una guerra illustre contro la Morte”, o “una guerra meravigliosa contro la Morte”, o “una guerra illustre contro il Tempo”, sono tre suoi incipit, di “Fermo e Lucia” e “I promessi sposi”. Era Manzoni hegeliano, per la storia della Provvidenza, ma incerto.

Morte - Dice Beckett di Proust che “la morte guarirà molti uomini dal desiderio d’immortalità”. Non Beckett, però - né Proust, cui Beckett addebita questa filosofia.

Pirandello sempre lucido la volle inscenata al primo mattino, un momento appunto morto, lontano dalla sue diuturne affollate messe in scena, su un semplice carro di terza classe.

Montalbano – Un 25 per cento di share alla terza o quarta replica, la più alta della serata in tv, uno spettatore su quattro, molti che presumibilmente già conoscono il filmato a memoria. Dopo aver realizzato uno su tre alla prima proiezione. “Montalbano”, il commissario seriale di Camilleri, si conferma essere soprattutto la creatura di Sironi e Degli Esposti, il regista e il produttore della serie di fim. Se ne capiscono facili rivedendolo anche le ragioni del successo costante, da un ventennio ormai in qua – uno dei film di questa riproposta Rai è del 1997. Le ambientazioni superbe, sorprendenti, suggestive, non una è scontata, generica, tirata via. L’accuratezza degli oggetti – gli interni, gli esterni, l’arredamento, l’abbigliamento, i trasporti, la cucina etc. Tempi della misura sempre giusta. Dialoghi di una naturalezza si direbbe impossibile. Ruoli tutti azzeccati, di comprimari, caratteristi e anche semplici comparse. Tutti peraltro professionali, si sente dalla dizione, perfetta anche nelle copie vecchie – non uno solo dei borborigmi delle vedettes in tv, femmine e maschi, in questi film sanno recitare perfino le belle ragazze. Col sapiente sfruttamento, nei ruoli secondari, delle immense capacità teatrali degli attori di vecchio conio, reperibili evidentemente ancora in Sicilia.

Omero donna  Si direbbe impossibile per il famoso argomento di Graves, che contestò l’ipotesi di Samuel Butler: Odisseo incontra la morte le nove volte che incontra una donna, Calipso (“colei che nasconde”), Circe (“la rapace”), Nausicaa (“che brucia le navi”), Scilla (“quella che spezza”), Cariddi (“quella che risucchia”), eccetera. Invece poi, a sessant’anni, Graves ci ripensa e ne scrive il romanzo, “La figlia di Omero”: Nausicaa, giovane siciliana, figlia onoraria di Omero, è l’autrice dell’“Odissea”. Tardo fascino della Sicilia? Della gioventù? No, del femminismo incipiente.
Graves stesso ne fa questa sintesi nella “nota storica” che si premetteva alle prime edizioni: “Il racconto ricrea, su prove interne ed esterne, le circostanze che indussero Nausicaa a scrivere l’“Odissea”, e indicano come, da figlia onoraria di Omero, procurò di farla includere nel canone ufficiale”. Ma dopo aver detto: “Questa è la storia di una ragazza Siciliana coraggiosa e religiosa che salva il trono di suo padre dall’usurpazione, se stessa da un matrimonio spiacevole, e i suoi due giovani fratelli dalla macelleria facendo succedere le cose, invece di starsene quieta e sperare per il meglio”.
La Penguin mette il romanzo nei generi fairy tales e epic f antasy.

Pavese – È Clelia di “Tra donne sole” (“La bella estate”)? Per la durezza autolesionista, e per l’attaccamento al lavoro. Non creativo, di pura fatica, ripetitiva.

Potocki – Si legge per il “Manoscritto trovato a Saragozza”, il genere che si fa “divorare”. Ma ben più divorante ne è la biografia. Espresse nei racconti di viaggio e nel “Manoscritto” scienza architettonica della narrazione perfino più elaborata di Roussel, ma efficace. Viaggiò e scrisse di Europa, Africa, Caucaso, Siberia e Cina, lavorando per la Prussia e la Russia. Scovò padovani in Africa, cioè imbroglioni, e scoprì nel leopardo un incrocio di leone e pantera. Elaborò un Sistema Asiatico, per una conquista civilizzatrice dell’Asia, che interessò Czartoryski e Napoleone. Aveva idee. E amava i mori: nel Manoscritto ha Moro, Moreno, Moraredo, Maura, Mo-ra et al. Conoscitore di tutta l’Europa e delle sue lingue, nonché di latino, greco, arabo, ebraico, si era letto ragazzo in un’estate i libri di storia naturale cui ambiva a Bologna, nel cui Istituto, ricorderà nella steppa, “trovai ordinati, con mio estremo rapimento, tutti gli oggetti del mio studio”. Sposò due donne più ricche, dopo aver fatto l’amore con la madre, la sorella, e la suocera Lubomirska.
Fu conte. Morì suicida: si sparò col nottolino della teiera che aveva polito per tre anni, fino a ricavarne un proiettile penetrante, e aveva fatto benedire dal cappellano di casa.

Stendhal – Dell’amato Stendhal (“i classici che più ci stanno oggi a cuore vanno da Defoe a Stendhal”) Calvino opina (“Natura e società nella letteratura”) che i suoi personaggi, “per nulla esemplari nella complessità delle loro passioni”, radichi “sul calcolo sottile segreto, e magari sull’ipocrisia coltivata col rigore di una virtù”.

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