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sabato 9 dicembre 2017

Problemi di base elettorali - 378

spock

Dopo Di Pietro nel Mugello, e Di Pillo a Ostia, non vorrà D’Alema consacrare Grillo a Roma?

D’Alema ci è o ci fa?

E Grasso?

Il Pd si lascia morire in Italia: non bisognava andare in Svizzera?

Ascoltare Radio 3 è consolante o sconsolante?

E vedere Rai Tre?

I vaffa sono diversi dagli haters?

E che altro sono?

Basteranno tutte le televisioni per contenere Berlusconi?

spock@antiit.eu

Roma “macchina di dei”

Una rilettura dell’impero romano, dal 27  a.C. al 529 d.C., senza novità sostanzali, ma sì nella messa in quadro: di imperatori che si qualificavano, dopo Augusto, “Cesari”, conquistatori e legislatori. Ma non una galleria dei personaggi - Svetonio basta e avanza: “Ideologia e potere nella Roma imperiale” è il sottotiolo e il tema.
Jerphagnon, lo storico della filosofia deceduto nel 2011, allievo di Jankélévitch, specialista di sant’Agostino, già autore nel 1980 di un “Vivre et philosopher sous les Césars”, premiato dall’Accademia francese col Grand Prix du Roman, ha grandi qualità espositive, “racconta” più che romanzare, la storia delle idee.  In questa che è la sua ultima opera – prima dell’opuscolo sulla stupidità, “La sottise”, che lo promosse best-sellerfa un ripasso dell’impero come di una “formidabile macchina per fare degli dei”. Cinque secoli e mezzo analizzando di pensiero, etico e politico, per mettere in quadro l’ideologia e la pratica di un impero di così lunga durata. Nonché modello di un milennio e mezzo di storia occidentale, di dinastie e di repubbliche. Il più grade impero documentato, sotto gli occhi di tutti, e conscio di sé.
Il segreto dell’Occidente, si può dire, è nell’impero romano
Lucien Jerphagnon, Les divins Césars, Pluriel, pp. 592 € 12

venerdì 8 dicembre 2017

Ombre - 394

#metoo si disse l’orco
Mi piace, memorie
Gradevoli innesca
D’inviti vorticanti,
Morbide occhiate,
Malizie, sfioramenti,
Anche perché allora
Ero bel figo, avevo potere.

“Personaggio dell’anno” la rivista “Time” raffigura di gruppo, cinque donne che si sono liberate dalla schiavitù maschile. Isabel Pascual, messicana, immigrata clandestina, che campa raccogliendo fragole, accanto all’attrice Ashley Judd. Che guadagna con dieci pose in un film quanto Isabel non guadagnerà in tutta la sua vita. Davvero vince la solidarietà di genere?

La botta di Trump all’Occidente - cristiani e mussulmani uniti nella lotta, e anche la Russia - con Gerusalemme capitale di Israele non ha nella buona stampa americana più dell’1 per cento dell’attenzione, che #metoo continua a monopolizzare. Quasi la stessa disattenzione del ribaltamento fiscale di Trump, la botta forse ferale alla globalizzazione.   


Anche il Russiagate perde colpi su #metoo. L’idea è anzi oggi di abbattere Trump non con Putin ma con le molestie sessuali. Bisognerà nominare un altro Procuratore speciale.

Macron manda Ségolène Royal ambasciatrice al polo Nord e al polo Sud. E lei ci va. È l’effetto Macron, delle riforme rivoluzionarie.

Il polo Nord – o è il polo Sud? – Ségolène Royal dice anzi la piattaforma del suo rilancio politico, dopo il suo fallimento alle presidenziali 2007, e dopo quello dell’ex marito Hollande – col quale aveva fatto quattro figli – l’anno scorso. Decisamente l’Europa è un posto di sorprese. Un esploratore africano che la scoprisse oggi stenterebbe a credere.  

Alla Fiera dell’innovazione a Roma, “Maker Faire”, la più grande d’E uropa, etc., il visitatore accede da una stazione metro con un km. circa di corridoio coperto, e vari saliscendi senza scale mobili – ci sono, ma non funzionano. Questo alla Fiera di Roma, che si definisce Nuova Fiera di Roma.

L’ex direttore del “Sole 24 Ore” Napoletano dice ora che il presidente della Banca centrale europea Trichet ha favorito nel 2008 la Francia, e subito dopo ha affossato la Grecia, e poi a seguire la Spagna e l’Italia. Non andava detto subito? E le centinaia di miliardi a favore delle banche tedesche?

Fioccano in Gran Bretagna le richieste di restare nel mercato comune europeo. Vuole restare anche chi voleva la Brexit, l’Irlanda del Nord e il Galles, con Londra. È il mercato dei furbi, ma si sapeva – gli inglesi non vogliono la sceneggiata annuale del bilancio, e Schengen, oltre all’euro.

Gira e rigira i puri e duri della sinistra (ex) Pci si consegnano a Grasso. Che magari non è Pci, nemmeno ex, e nemmeno di sinistra. Si consegnano è la parola giusta.

Meglio Grasso che Pisapia, l’albagia degli (ex) Pci si spinge fino a mettere fuori gioco un vero comunista e puntare sulla remissione dei peccati – Grasso, malgrado tutto, è un giudice.

Si potrebbe pensare Grasso un ultimo sbocco della lingua di legno o biforcuta. Sapendo che non prenderanno un voto alle elezioni, gli ex Pci potranno dire che la colpa è di Grasso. Non si sa se abbiano fatto questo ragionamento – ragionano? Ma così sarà.

Verdini e Alfano candidati del centro-sinistra non sono male. Che ne diranno i giornali “corretti”, dovranno trovare altre carogne. Magari Renzi li farà pure eleggere.

Poi Alfano ha rinunciato a candidarsi – Renzi non può fare i miracoli. Non nel Pd. Ci sarà il ritorno classico, del figliol prodigo. Che Cathopedia riassume così: “La Parabola del padre misericordioso, popolarmente chiamata del figliol prodigo, raccontata da san Luca, 15, 11-32, è l’ultima di una trilogia, nella quale è preceduta dalla Parabola della pecorella smarrita, e dalla Parabole dela moneta smarrita.

Smarrimento è un titolo che mancava, anche quando i film si intitolavano “Catene” e “Tormento”. C’era un “Torna!”, è vero. Diciamo che manca allora la prosperosa Yvonne Sanson, che era tutto.

Anche Alemanno e Storace nella Lega (ex) Nord non sono male, i patrioti tutti d’un pezzo. Loro però hanno già la pensione.

Banca d’Italia attacca il Procuratore Capo di Arezzo, che ne ha rivelato varie manchevolezze, su tutto il fronte, come nei (vecchi) thriller di spionaggio: privati, pubblici, passionali, omissivi. Inaudito e inverosimile. È la conferma che andava rinnovata: la Banca d’Italia non ha mai fatto scandalismo.

Banca d’Italia attacca il Procuratore Rossi attraverso i “suoi” giornalisti, non pagati ma fidati. E questo è peggio.
Da essi – esse - lo fa deferire al Csm, e sospettare di ogni nefandezza.

Il tycoon qua, il tycoon là, il tycoon è il presidente degli Stati Uniti. Che Sky Tg 24 non trova altro modo di indicare. Forse non sa che tycoon è spregiativo, risuscitato e diffuso per il  padrone di Sky, Murdoch. O Murdoch è dei nostri?

Ivo Caizzi spiega sul “Corriere della sera” sabato Dijsselbloem, “il fiore della Issel”, l’effluente del Reno, l’ammazza-Italia. Non ha lavoro, e nessuna capacità di lavoro, è solo un birillo politico,che gli olandesi non hanno rieletto. Deve perciò mendicare il soldo dalla Germania. Che è generosa, gli dà 15 mila al mese, ma li mette in conto all’Unione Europea.

Dijsselbloem come Katainen, una specie non rara, ma non censita: quella dei quisling di Berlino – Angela Merkel ha restaurato la vecchia pratica. Naturalmente non siamo in guerra, e sono quisling pacifici, truppe d’assalto verbali. Ma il vezzo è sempre lo stesso: prenderli giovani, belli, pagarli, e farsene schermo.

Che la Germania “si scelga” i commissari, nella confusa democrazia egualitaria dei 27 o 28, quanti siamo, non è molto democratico. Ma bisogna fare un passo indietro: non sembra che l’Europa abbia un concetto della democrazia. Uno qualsiasi.


Si può dire Trump l’affarista di sempre, per nulla imprevedibile. Che per prima cosa denuncia gli accordi che lui non ha firmato: il Nafta, il Ttip, il Transpacifico, il clima di Parigi, il trattato con Teheran sul nucleare,  quello Onu sull’immigrazione, la stessa Nato, che non ha denunciato ma per prima cosa dopo l’insediamento ha protestato (gli europei non pagano abbastanza). Il problema è: durerà abbastanza per fare nuovi accordi, o lascerà gli Usa nudi? 

Ci salva la forza, del pensiero

“Le forze di quaggiù sono sovranamente determinate dalla necessità; la necessità è costituita da relazioni che sono pensieri; di conseguenza la forza che è sovrana qui è sovranamente determinata dal pensiero. L’uomo è una creatura pensante: è dal lato di ciò che comanda alla forza”. Scritto in tempo di guerra, e in situazione personale calamitosa, tra esilio e malattia, presto mortale, questa “Prima radice” non è l’ennesimo invito alla resistenza. È più dolorosa, e più profonda” - esistenziale, filosofica. Una parte ancora viva della filosofia del Novecento sul modo di essere dell’uomo nella natura e nella storia.
Qui si ritrovano la vera psicologia, e la vera sociologia, che introiettano la necessità del lavoro e della morte. Esiti a cui si arriva percorrendo vari rivoli. L’eredità arida della romanità, dell’imperialismo feroce, rilevata nei danni persistenti alla religione, la scienza, l’assetto sociale (legge, giustizia, potere, o sovranità). In filigrana, attraverso gli accenni degli storici greci schiavi dei romani. Con tagli vigorosi al conformismo: la sterilità della forza che tradisce la forza, a causa della schiavitù (possesso) come ragione di vita, annientando la religione e la vera cultura – la ricerca.
C’è il genio puro. La storia impura. E la virtù che s’insegna ma non si pratica.
L’argomento centrale è la fede come scienza. La scienza greca, la nostra scienza – “l’investigazione scientifica non è che una forma della contemplazione religiosa”.
La religione della domenica, svuotata dallo scientismo. Che pure è piccola cosa.
La natura del miracolo. E la Provvidenza generale, impersonale, sui buoni e sui cattivi (Matteo, Marco) e la miserabile Provvidenza speciale, degli ex voto - dei calciatori si può aggiungere quando entrano in campo, dei calciatori quando segnano un goal, e di Manzoni: “Ogni interpretazione provvidenziale della storia è di un grado eccezionale di stupidità”. Il mondo è determinato dalla perfetta obbedienza: è questo il senso della fede, e la via della scienza.
Il titolo c’entra: due terzi del libro sono presi dalla sradicamento, della città, della campagna, della patria. La modernità è la tradizione. Non c’è futuro senza radicamento.
La seconda edizione in poco tempo, dopo quella SE dieci anni fa, ancora disponibile. È l’angustia dei tempi che lo richiede?
A lungo trascurato, “L’enracinement” viene riproposto nella prima versione italiana, di Franco Fortini, allora in Olivetti, legato al progetto politico di Adriano Olivetti. Allora come oggi a cura delle Edizioni di Comunità, che di quel progetto politico erano i porta parola. il progetto politico di della famiglia Olivetti
Simone Weil, La prima radice, Edizioni di Comunità, pp. 317 € 18

giovedì 7 dicembre 2017

Il complotto di Odino

Non ci sarà un “Protocollo dei savi di Odino” da qualche parte? Distruttivo. La Germania ha distrutto l’Europa, due volte, e ora ci prova con gli Stati Uniti? Un “Protocollo” che preveda la distruzione dell’Occidente.
Si sottace che Trump è il primo presidente tedesco degli Usa, di seconda generazione ma ben tedesco  – dopo il papa tedesco a Roma…  Mentre è la chiave di tutto: suo compito è fare le guerre folli, distruttive a nessun beneficio, anche come cavallo di Troia. Ha denunciato in breve tempo tutto, per isolare gli Usa dal resto del mondo, e ora innesca le armi che potrebbero abbatterli.  Con logica, certo, c’è sempre filosofia in quella follia.
Gerusalemme è certo la “capitale” degli ebrei, il punto focale di una religione e una schiatta. Che però non avevano bisogno, e non lo chiedevano, di farsene la capitale amministrativa. Il führer Trump lo ha voluto per significarsi il decisore assoluto. Non per gli ebrei, che non che c'entrano, non che si veda, semmai contro i mussulmani – i cristiani non contano. Il giorno dopo che l’ultimo dei suoi divieti di entrata per i mussulmani ha passato l’esame in giudizio.
Si dice che gli arabi e i mussulmani non contano. Un po’ come da noi i preti. Ma non è vero: non stiamo parlando di una religione, ma di un mondo. Che è quello che ha salvato l’Occidente. La guerra contro l’Urss gli Stati Uniti l’hanno vinta non con l’Europa, come si dice. L’Europa è ed era imbelle, papa compreso, e pronta a sottomettersi, con tanti partiti di massa e il vastissimo prontuario intellettuale filosovietico (filo-Breznev…). La guerra fredda gli Usa l’hanno vinta con i mussulmani, a partire dal 1956, dalla guerra di Suez. Dal Marocco all’Indonesia, con speciali punti di forza in Turchia e in Pakistan.
Non si dice mai abbastanza che gli Usa sono molto teutonici. Woody Allen fa Königsberg di nome, la città di Kant – Allan Königsberg. I matrimoni plurimi, a porta girevole, sono tedeschi più che inglesi: lasciarsi da buoni amici (puritano è solo il rifiuto della poligamia, e anzi la condanna, che la Germania invece pratica). “George Washington crossing the Delaware”, l’immagine del cardine della storia americana, è di un Emmanuel Gottlieb Leutze, pittore su ordinazione di scene storiche, della scuola di Düsseldorf.
E ci sono altri legami, sotterranei. Hitler rubava, in guerra, inglesi e americani compravano. Le istituzioni non i mercanti. Il British Museum ha 3.200 pezzi “di incerta provenienza”. E 75 mila monete di “fonte inappropriata”. Molto”Mein Kampf” Hitler tirò fuori da “The passing of the Great Race”. Non da una corsa, automobilistica o podistica, ma dalla “razza grande”, nordica, dell’eugenista esimio Madison Grant, che fece le leggi per l’immigrazione negli Usa, a danno dei latini, gli slavi e gli asiatici neri, contro la misgenation e per la “morte misericordiosa” degli incapienti.
America tedescofona
Ci fu pure un momento, all’indipendenza, in cui si progettò di fare gli Stati Uniti tedeschi. Come G. Leuzzi spiega in “Gentile Germania” al § “L’America tedesca” – il dollaro è del resto il teutonico tallero:
“Sa di tedesco l’America, il dottor Kissinger non è casuale. E non solo per essere stata la Vinnland dei vichinghi, che vi sono arrivati, dice Grozio, per via di terra, loro uomini di mare. Ovunque s’incontrano –man, –burg e -ich, e le case col tetto spiovente che fanno Germania attorno a Filadelfia, cuore della nazione, tra Harrisburg e Gettysburg. È tedesca pure Yorkville a New York. Dietrich è il cognome più diffuso, con Hoffman, con una e due -n. Eisenhower si scriveva Eisenhauer, Smith spesso Schmidt, nel filone condiviso della Storia Provvidenziale. È tedesco, postnomadico, l’uso americano di cambiare i mobili ogni tre anni, magari per ricomprarli uguali. E il coniuge, seppure non con la stessa frequenza. Quentin Tarantino ha avviato il riconoscimento col dottor Schultz, il virtuoso cacciatore di taglie di Django unchained, e l’eroina Brunhilde che parla tedesco.
“Gli Usa sono germinati dal puritanesimo britannico, l’anarchismo di quegli atei assatanati di Dio, come dalle selve teutoniche. Smentendo infine l’eminente Grozio, l’altra sua scoperta che erano germani in America pure gli indiani, vi erano arrivati via Islanda e Groenlandia. Ma furono i soldati tedeschi di re Giorgio, i reggimenti dell’Assia, a propiziare a Trenton nel New Jersey la prima vittoria e il carisma di Washington. E fu per una decisione a suo tempo minoritaria, com’è noto, che l’America parlò inglese e non tedesco. Si possono così dire gli Usa una sintesi di angli e sassoni su fondo normanno, avendo essi il governo dei mari, nonché dell’aria, e il culto della guerra. E fare una Germania yankee, o America teutonica. Senza omettere la teoria woodyalleniana dell’Europa alla deriva dagli Usa.
“I mangiapatate sono stati poi decisivi nel mezzo secolo, tra la guerra civile e il ‘14, che tramutò gli Usa in fabbrica della ricchezza. Tra gli immigrati di quegli anni, che al censimento del ‘14 risultarono il 40 per cento della popolazione bianca, uno su quattro era tedesco. L’America è tedesca quindi quasi quanto è nera, al dieci per cento circa. Tra i cento milioni, poco più, di americani, undici erano indiani, cinesi, neri, di altri colori. Quindici milioni, poco meno, erano stranieri di nascita non di colore, con venti milioni di figli. C’erano quindi nove milioni di tedeschi. Fu allora che gli Usa presero a integrare neri e dagos e a dirsi multietnici, per evitare il contagio. Ma non senza resistenze.
Nel 1924 la nuova legge sull’immigrazione, il Johnson-Reed Act, puntò esplicita e radicale a garantire il carattere nord europeo, più specificamente “sassone”, degli Usa. Basandosi su The Passing of the Great Race, dell’ambientalista e eugenetista Madison Grant, 1916, sottotitolo The racial basis of European History: una teoria del razzismo, posto a base dell’antropologia e della storia. Per “razza nordica” intendendo un raggruppamento poco definito ma centrato sulla Scandinavia e l’antico tedesco.
“Il Johnson-Reed Act escluse ogni immigrazione dall’Asia - l’Africa non era nemmeno presa in considerazione - e limitò fortemente l’immigrazione dal Sud e dall’Est Europa, con un sistema di quote basato sull’origine della popolazione naturalizzata nel 1890. A quella data gli immigrati dal Nord Europa rappresentavano l’80 per cento del totale. Così gli italiani, che erano arrivati in gran numero dopo, in media 200 mila l’anno nei dieci anni dopo il 1900, ebbero la quota annua di nuova immigrazione limitata a 4 mila. Mentre la quota annua per i tedeschi era di 57 mila….
“Berlino è per Thomas Mann “metropoli americo-prussiana” già nel ‘17. La “necessità”, che Rolland dice “undicesimo comandamento dei tedeschi”, lo è pure degli americani, il “destino manifesto”. È tedesca come inglese, sassone, la mania degli americani di avere tre e quattro mogli – l’ottimo pastore-presidente Gauck convive con la moglie, la compagna che ha sostituito la moglie, e l’amante che sostituisce entrambe. Comune è il West, l’Occidente. E la Colpa (della distruzione dell’Europa, n.d.r.) si può dire degli Usa, oltre che del papa: il materialismo come tradimento dello spirito della tribù – Schopenhauer lo dice, Zur Rechtslehre und Politik, tanto intima conoscenza aveva degli Usa, benché ne ignori le coordinate”.

I tedeschi si distinguevano in età moderna per la qualità degli insediamenti, oltre che per essere numerosi. In America più che in ogni altro posto, dice Kant nell’“Antropologia”: i tedeschi emigrati si sono distinti per formare comunità nazionali “che l’unità della lingua e in parte anche della religione trasforma in una specie di società civile che, sotto una superiore autorità, si distingue nettamente dagli insediamenti di ogni altro popolo per la sua costituzione pacifica e morale, l’attività, il rigore e l’economia. Questi sono gli elogi”, conclude Kant, “che gli stessi inglesi fanno dei tedeschi dell’America del Nord”. I Trump, immigrati recenti, non si sa quanto ordinati e rigorosi siano stati e siano, ma certamente sono ben teutonici nel senso che Kant non censiva: distruttivi. 

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (347)

Giuseppe Leuzzi

Tremila pagine della Procura di Roma, tenuta da tre siciliani, per appellarsi contro i giudici del Tribunale di Roma che al processo “Mafia Capitale” hanno escluso l’aggravante mafiosa.  Su toni di dileggio, come se i giudici fossero incapaci o collusi con gli accusati. Questa voglia di imporre la mafia a tutta l’Italia da che nasce? Solo per la carriera? Perché la mafia “risolve” tutto?

Seume, “Spaziergang nach Syrakuse”, il libro della “passeggiata verso Siracusa” che si pubblicò postumo, vent’anni dopo la morte (Seume è del 1763-1810), e non di traduce, è uno degli “Uomini tedeschi” di Walter Benjamin. Era per Benjamin la figura, nel linguaggio novecentesco, dell’“intellettuale progressista” – così Adorno, che ha curato questo Benjamin,  accenna nella nota su Seume. Ma la “Passeggiata” era per Benjamin il libro che avrebbe voluto scrivere – uno dei tanti: quello sulla ricerca di libertà attraverso i contatti con i popoli oppressi, dal potere o dalla miseria.

Seume è immaginato scrivere al marito della sua ex fidanzata – Benjamin autorappresenta i suoi “Uomini tedeschi” mediante una lettera che loro stessi scrivono. “Nella «Passeggiata», Benjamin premette alla lettera, Seume “superò gli strascichi di una relazione infelice con l’unica donna cui – sia pure non intimamente – si era accostato”. Aveva elaborato il lutto dell’impossibile amore sul monte Pellegrino, sopra Palermo: “Avendo tirato fuori l’amuleto col ritratto della donna,  si accorse di colpo che era in frantumi, e allora gettò nel precipizio ritratto e montatura”.  Una familiarità che oggi non ci potrebbe essere, tra Palermo e un intellettuale tedesco.

Bufale (anti)mafiose
La “Terra dei fuochi” è innocente. Carmine Schiavone un falso pentito di camorra, un malato terminale che sceneggiava. Preti e scrittori si sono arricchiti a spese della povera gente, condannata all’inattività  e - le mamme - alla crisi di nervi. Un generale si è infiorettato in tv che aveva trovato “tracce evidenti” di piombo – in un poligono da tiro… 
Un gruppo di una quarantina di istituti pubblici di monitoraggio e ricerca che per tre anni hanno censito e analizzato prodotti e produttori della “Terra dei fuochi” e della Campania tutta li hanno trovati innocenti. Su 30 mila campionamenti effettuati, presso 10 mila aziende agroalimentari, hanno riscontrato solo sei csi di “positività”, di contaminanti chimici o microbiologici superiori al consentito. Meno, molto meno, che nella concorrente pianura padana. O in qualsiasi supermercato.
Si parla di fake news perché è la moda negli Usa, ma una bufala gigantesca è stata creata e ha imperversato qui da noi, per almeno quattro anni, da quando Saviano ne fece il fulcro del suo romanzo “Gomorra” – su alcuni dei “Rapporti Ecomafie” di cui Legambiente si diletta invece di proteggere l’ambiente. E anche oggi che il rapporto del gruppo di ricerca è stato pubblicato, con tutti i dati, nessuno ne parla, solo “Il Foglio”. La cosa più dolorosa, il dispetto della verità
Anzi no, la cosa più dolorosa è che Napoli e il Sud ci hanno inzuppato il pane. Stupidamente, si direbbe, ma opportunisti, per grossi benefici. Preti e scrittori del Sud si sono magnificati con questa assurda storia, su tutti i giornali su tutte le tv, sui banchi delle librerie.
La cosa non nasce con Schiavone. Le prove erano state fate altrove, nei grandi giornali e alla Rai, con le bufale dei bidoni radioattivi sommersi al largo di Cetraro in Calabria. Dopo quelli sotterrati in Aspromonte, che nessun geiger ha rilevato. Tutto si può dire, ma solo al Sud. Capifila quelli del Sud.
Dire inattività però è sbagliato. Gli agricoltori della Terra di Lavoro, la più fertile e meglio organizzata area di produzione ortofrutticola, hanno continuato a lavorare, ma hanno dovuto vendere a prezzi ribassati fino al 10 per cento del precedente valore. Una speculazione ignobile.

Delieide
Siamo un paese dell’interno, il più alto dell’Aspromonte, che non è una montagna agevole, aperti a ventaglio sulla valle delle Saline, ora piana di Gioia Tauro, rifugio nei secoli di coloni greci in fuga, da Bova, dalla Piana, di ebrei di varia origine, di corsari arabi disertori, e di qualche raro commerciante in cerca di requie, magari dai debiti. Tutti debitamente convertiti. E, chissà, in pace, non abbiamo tradizioni di faide. Si può ancora tenere di giorno la porta aperta. Si può dormire la notte d’estate con le finestre aperte, non ci sono zanzare. Anche se i pipistrelli si lasciano talvolta accecare dalla luce e irrompono in casa.
Siamo un borgo come tanti, di case abbandonate in rovina, di scheletri in cemento armato dai tondini arrugginiti, e di quattro piani di palazzi coi muri di mattoni forati a vista e tavolati alle aperture, di cui il piano terra, forse, è abitato. E di sopraelevazioni e avanzamenti di prospetto per soperchiare il vicino. Con un mutuo da pagare alla banca, anche due, che non consente di finire l’opera e non fa dormire la notte – le gastriti acute, croniche e nervose sono diffuse, e ci sono casi di alcolismo. Non siamo un paese simpatico, l’accoglienza è, esageratamente, solo familiare, per il resto la domanda è: “Cu’ è chissu?”, chi è costui. Nessuno cammina, tutti girano in macchina, anche solo per fare pochi metri. Per non incontrare persone e doverci parlare. I marciapiedi latitano. Nn ci sono nemmeno sensi unici, malgrado le strade strette. Volendo fare una passeggiata a piedi nel tranquilli borgo di montagna bisogna camminare in avanti e insieme a ritroso, per salvarsi, tra una macchina e l’altra, impazienti, giustamente. Ma siamo reputati, siamo, un paese avanzato, il più intelligente della zona: più intellettuale e professionale, artistico, commerciale, e più ricco. Ricco probabilmente in assoluto, la Posta e la banca gestiscono almeno 40 milioni di risparmi – forse 50. Che per circa 800 famiglie fa 40-60 mila a testa, un gruzzolo che pochi italiani hanno. Una ricchezza – risparmio – anche agevole: stipendi e retribuzioni sono nazionali, contrattuali, le tasse sul lavoro autonomo non si pagano, a partire dall’Iva, e il costo della vita è un terzo di quello di Roma.
Ma non siamo un paese simpatico, pur avendo soldi e intelligenza. Non presentiamo un bell’aspetto, pur avendo ereditato una collocazione gloriosa, al collo di due vallate immerse nel verde, quello grigio argento degli ulivi sottostanti, eqlleo smeraldino d castagni e abetaie sopsrate. Una temperatura mite. Un clima secco. 
Eravamo laconici e operosi, applicati a lavori anche duri: terrazzamenti dei tanti dirupi, bonifiche pietra su pietra, gli orti rubati alle piene, alle pietraie. In piedi alle cinque, a letto alle otto. Per l’applicazione che viene dal bisogno, in zone anche ubertose, rese sterili dall’incuria di padroni lontani, a volte perfino sconosciuti. E sempre proiettati verso l’esterno. Desiderosi di viaggiare, scoprire – allontanarsi? Anche quando i mezzi erano scarsi, la corriera, qualche camion fumante. Per lavoro, per gli studi, per le cure, per semplice diversivo.
Emigravamo in massa, a fine Ottocento, ai primi del Novecento, fino alla guerra, negli Stati Uniti. Google scarica centinaia di omonimi dai registri di Ellis Island, il punto d’ingresso sotto la statua della Libertà, alcune diecine di omonimi completi, di nome e cognome, emozionanti, nella grafia pur incerta degli ufficiali americani dello stato civile, o dei moderni trascrittori online di quei registri. Alcuni corredati del nome del paese come luogo di provenienza, altri indicano genericamente la Calabria, o l’Italia del Sud - un omonimo è stato anche abate, nel secondo Ottocento, e massone, tesserato. Nei paesi la vita è varia.
Siamo emigrati fino al 1955, anche al 1960. C’è gente che nel 1948, 1949, 1950 andava in Argentina e Uruguay. E negli anni successivi in Australia e Canada, oltre che a Ventimiglia e in Provenza per i fiori e i lavori della campagna. La dromomania si può dire connaturata, se è una mania e quindi un male. Abbiamo poi saltato l’emigrazione in Europa, degli anni 1950-1960, il lavoro in miniera o in fabbrica non piace. Ma abbiamo avuto forte un’emigrazione intellettuale, del 70-80 per cento dei laureati, tre su quattro, quattro su cinque. La cugina L. a dieci anni, nel 1954, non era stata a Scido, che è a quattro chilometri, meno per il sentiero che ancora si praticava. Ma era già stata a Polsi, quattro-cinque ore di sentiero non agevole, per un avventuroso pellegrinaggio di due giorni e una notte alla Madonna della Montagna. Dei compagni alle elementari, una trentina abbondante, solo cinque sono rimasti al paese, e due delle quattro ragazze. La classe è il 1941, rimpolpata di qualche ripetente o ritardatario. Dei nutriti collaterali per parte paterna, quarantuno primi cugini, più quattordici zii, solo nove sono rimasti in paese, compresi i genitori, nove su cinquantacinque.
Questo è un bene e un male: l’emigrazione rappresenta una cesura. Dai racconti di chi è stato a trovare i fratelli, le sorelle, i cugini, negli Stati Uniti, in Australia, in Canada, non emergono mai novità adattate al proprio ordinario, alla propria vita di ogni giorno. Benché tra gli emigrati le storie di successo abbondino. Almeno tre imprese edili di primaria importanza sono state create da compaesani emigrati in Hamilton, Ontario, Canada, dove si contano più di un centinaio di famiglie del paese. Portate al successo dagli stessi emigrati, prima e meglio che dai loro figli. Ottime posizioni, nell’edilizia e nella lavorazione del maiale (prosciutti, insaccati), anche a Perth, Australia, dove un’altra colonia si è creata di dimensioni analoghe. E a Melbourne, la metropoli australiana, dove il circolo dei compaesani organizza periodiche feste con oltre cinquecento convitati di qualità. Lo stesso gli emigrati: nessuno ritorna. C’è la memoria, c’è magari il vanto delle origini, ma la visita è sempre breve, spaziata, ogni cinque-dieci anni, e alla fine spazientita. Alfredo Strano, che in Australia è diventato scrittore bilingue, e caso di studio all’università, si è trovato a un occasionale ritorno più spaesato di prima.
D’altra parte, se c’è il vanto della storia, c’è anche la memoria di una vita, illudersi non è possibile, quella realtà resta soverchiante. E noi andavamo a scuola in aule d’occasione, ogni anno una diversa, il basso di Domenico Moscatelli, un salone del palazzo Cordopatri, l’abbaino dell’ex Casa del fascio, gelido. Fino alla quinta elementare. E dopo di noi molti altri, fino al 1961 e alla buonissima scuola media di Fanfani, che costruì anche l’edificio scolastico, imponente, duraturo, e poi ancora per molti anni per andare alle superiori, i ragazzi si sono dovuti alzare alzati coscienziosi alle cinque, le sei del mattino, per prendere le corriere per le scuole medie e superiori, da cui tornavano alle tre, le quattro del pomeriggio (è da pochi anni che ci sono gli scuola bus della Regione). Riempivamo i collegi, maschili e femminili, di Messina, Salerno, Roma. Avendone le risorse.
Non un’infanzia infelice, sia detto per inciso, a parte il freddo – difficilmente l’infanzia in paese lo è. Vivendo liberamente fuori casa, e in gruppo senza segreti. C’erano sentieri allora per arrivare ovunque, sotto i castagni e gli ulivi, o scavati nelle marne, che davano ai ragazzi il senso di attraversare la realtà, come Alice nel paese delle meraviglie. Fino alle acque gelide della Pietra Grande, che vigilava una pozza nella quale era d’obbligo bagnarsi. O seguendo la fiumara Petrilli fino a una serie di mastre gorgoglianti, le canalizzazioni scoperte che portavano l’acqua agli orti – finendo, ogni volta col fiato sospeso per i sicuri rimbrotti, a Demisuli al frantoio del nonno, la “machina di Micuzzo”, il bisnonno, mosso ancora dalla ruota ad acqua. Era ancora il tempo in cui il frantoio – “machina” - andava ad acqua. La gigantesca ruota che l’acqua cadendo faceva girare, che a sua volta, con un gioco di pulegge e ruote dentate faceva girare la macina pesante sulle olive. E la pressa a spalla, una gigantesca vite ricavata da un tronco di rovere, che pressava i fiscoli di pezzolo, gemendo avvitata da un asse alle cui estremità due operai spingevano a braccia tese dapprima e poi con la forza delle spalle e del tronco.
Siamo due paesi distinti, benché unificati da quasi centociquant’anni anche noi, Pedavoli e Paracorio. Greci dunque anche nel nome originario. Col segno dato da Paracorio, più nervosa, irascibile anche, volubile. Per una costante alternanza, di accensioni, entusiasmi, e improvvisi cali di tensione, critiche e autocritiche distruttive. Perché siamo volubili. Così, se persistono le vecchie anime tribali, abbiamo cambiato in due generazioni un paio di volte assetto sociale ed economia - la geografia economica può mutare rapidamente, e anche all’improvviso.
Eravamo famosi per il miele, dice Lombroso nel 1862. Con Bova. Per i fagioli di Spagna: “Godono di molta fama i fagioli detti «pappaluni»”, notano Malvezzi e Zanotti Bianco nel 1909 - quando celebravamo 17 feste, tante ne contano stupiti i due studiosi filantropi. Come per i fagiolini corallo di speciale gusto, i vajaneji. E per i boschi. Ma l’industria del legno è sempre meno attiva. Non ci sono più gli ebanisti, che pure avevano una tradizione consolidata. E negli immaginosi anni Cinquanta puntavano a trasformarsi in industria. Ci sono ancora le api, ma non c’è più il castagno – proprio ora che il castagno, in tutte le sue forme, anche le foglie, è un’industria. Dopo esserne stati per secoli il centro, quando l’economia era di sopravvivenza o povera. Con la castagna ‘nserta di eccezionale pregio, maestosa, durevole, tutto l’inverno se ammarronata – messa in acqua e poi asciugata. Mentre le caldarroste che ora si vendono agli angoli delle città all’unità, piccole e gobbe benché piene, le castagne curce, erano destinate ai porci. Per non dire dei funghi, di cui siamo stati e tuttora siamo grande centro di raccolta ma a grado zero di utilizzo, se non domestico. Lo spreco forse maggiore della insopprimibile, benché dannosa ormai all’occhio dei più, economia suntuaria o della dépense, che l’antropologia rileva tanto nelle corti principesche che negli stati di indigenza: il consumo spensierato. Tanto più se si considera che il porcino dell’Aspromonte, un tempo famoso nel Regno, dalle Madonie a Napoli, è sempre in considerazione elevata nell’industria conserviera svizzera e padana per le qualità organolettiche, in tutte le sue tipologie, muntagnolu, schiaveju, vavusu, cardararu. Perfino l’acqua latita. Che pure abbonda, e di vario sapore – le acque di sorgente sono una specialità dell’Aspromonte: dopo il terremoto del 1908 Malvezzi e Zanotti Bianco contarono in paese 14 fontanelle, ognuna di sorgiva.
L’ulivo c’è ancora. Adeguato ai tempi, con cooperative e industrie attente alla qualità e al marketing. Che s’industriamo di far perdere il vizio del lampante, di considerare l’olio locale troppo acido, amaro, pesante, e neppure genuino, buono insomma per il lume – nel quale molti oli del supermercato peraltro non brucerebbero, contenendo talvolta solo il 4 per cento di olio d’oliva (il disciplinare europeo lo consente). Ma non ci sono più i frantoi, ce n’erano una diecina. È mutato per conseguenza l’assetto sociale. Avevamo una borghesia intraprendente legata all’ulivo, con presenze diffuse e talvolta condizionanti in tutta la Piana, Scido, Santa Cristina, Oppido, Varapodio, Laureana, Cosoleto, Palmi, una ventina di aziende, molte provviste di frantoio, che davano lavoro a tutti, seppure duro, tutto l’inverno. Con imprese edili in grado di concorrere in ambito regionale e perfino nazionale. È fortissimo ora il pendolarismo, mattina e sera. Non solo per le scuole della piana. Ma anche per lavoro, da Gioia a Reggio: gli occupati stabili fuori paese superano i duecento e si avvicinano ai trecento.
E dalla zappa, che piegava in due, siamo passati all’indolenza. Che c’era ma era  borghese, da figlio di mamma - le mamme più di oggi erano determinanti. Del secondo o terzogenito maschio avviato agli studi per non dividere la proprietà, avvocati o medici che non avendo concluso gli studi passavano il resto della vita tra i cento passi al circolo e le chiacchiere prima di pranzo e di cena, e lunghe dormite. Accuditi talvolta da sorelle nubili altrettanto risentite, e tuttavia restie ad affrontare una vita propria di fatiche, tra figli, case e marito. Ora è il sogno dei molti, c’è il “bamboccione” anche qui. Il notabile con l’unghia lunga del mignolo, falso laureato, vero nullafacente, è sostituito dalla rotondità dell’adolescente eterno. Entro l’albagia dei diritti cui il sottogoverno confina i più – la politica del posto, la pensione o il sussidio, a carico dei pochi che lavorano. Rotondo anche nell’epa, nell’attesa dell’impiego cui si sa incapace – è il vitellone due generazioni dopo, o tre: è questo il ritardo. Tra quelli che restano, e non fanno i pendolari. Che non sono più i pochi, segnati a dito. Anche per questo quelli che se ne vanno non sanno tornare, troppa indolenza: incertezza, superficialità, approssimazione.
Alla fatica e alla strafottenza è subentrato diffuso l’oblomovismo: lamentarsi di tutto, estranei e anzi renitenti all’azione. La reattività c’è sempre dominante, istantanea, violenta. La collera breve, che può essere assassina tanto è incontrollata. Ma non la prestazione costante, progettuale, applicata. C’è se essa risponde al “colpo di genio”, l’agnizione di un destino in un momento di astri favorevoli, di ritmi ascendenti, di ciclotimia. Ma anche in questi casi più spesso l’applicazione è breve: l’entusiasmo non è mai stato il nostro forte, piuttosto il senso critico. Si direbbe una civiltà femminile, magno greca? locrese?, non fosse di uomini robusti e pelosi. Ma indecisi, ecco.


leuzzi@antiit.eu

La poesia contro la rivoluzione divoratrice

“Amo la vita, non temo la morte”, il duetto di Andrea con l’amata corona la fatica impervia del tenore, e il destino del rivoluzionario vittima della rivoluzione. Nella quale, come nel dramma di Illica, muoiono tutti, accusati e delatori – “E mentre uccido, io piango”, si compiangerà il rivoluzionario Gérard. Nella storia Robespierre sarà ghigliottinato tre giorni dopo aver fatto ghigliottinare Chénier, l’accusatore robespierriano Fouquier-Tinville un anno dopo.
Un percorso che la borghesia aveva compiuto senza ripensamenti nel secolo trascorso da
Robespierre fino a Giordano. L’esito dispensando come una sorta di atto dovuto, nella logica delle
cose, al più da versarci su qualche lacrima - la borghesia dopotutto è la figlia del 1789. Che oggi è
invece intollerabile – è l’epoca controrivoluzionaria, o ragionevole? Il rivoluzionario Gérard è il
maggiordomo, che più di tutto ambisce a far sua la padrona. La quale può dirgli sprezzante: “Se di
sua vita fai mercede il mio corpo, prendilo!”. E Chénier al suo accusatore: “Uccidi? E sia! Ma
lasciami l’onore”. Conquistato combattendo per la Francia in battaglia, invece che ai processi “popolari”.

Un’opera compatta, tutta nervi, di autore giovane. Uno spettacolo, questa riedizione alla Scala. Per la tenuta di Eyvazov, che deve cantare per tutti, malgrado il fisico non appropriato a un eroe romantico. Il maestro Chailly ha voluto l’esecuzione fedele al canone verista originario, senza veleggiare in aggiornamenti. Martone per una volta ha dismesso il piglio d’autore, per “fare l’opera”. L’opera in effetti è a teatro, ma nello spettacolo tutto, il modo esressivo più coinvolgente: musica, canto, costumi, scene, balli, e temi senza vergogna romanzeschi.  
Umberto Giordano, Andrea Chénier, Teatro alla Scala

mercoledì 6 dicembre 2017

Problemi di base democratici - 377

spock

Oltre che con la Russia, Trump non avrà complottato anche con Israele?

I Democratici Usa non accettano i presidenti repubblicani, i Repubblicani accettano i presidenti Democratici: democrazia?

Trump, Macron due outsider: è la politica nuova, o vecchia?

Aborriamo Trump, esaltiamo Macron: ma che avranno fatto, che non si sa?

Trump è pazzo, che ha levato le tasse ai ricchi, e Macron?

Siamo orfani di Angela Merkel?

Magari pure vedovi?

È la democrazia la legge dei belli-e-buoni?

spock@antiit.eu

Sesso benedetto nel Medio Evo

“De zelotipia”, sulla gelosia, il titolo col quale il trattatello è stato tramandato, era stato mutato in “Tractatus de vero amore” nel 1954 da Gerardo Bruni, che l’aveva scovato in un codice miscellaneo del tardo Trecento a Erfurt, tra due testi di Egidio Romano. È l’amore perfetto l’amore geloso? No, in realtà il trattateello, 23 brevi anche se dense questioni, cita incidentalmente la gelosia, alle prime righe, per escluderla dal “vero amore” – da qui l’accatastamento affrettato sotto quell titolo nella miscellanea.
Secondo il primo editore, Bruni, e il curatore che lo segue di questa edizione, Massimo Sannelli, l’Anonimo ripercorre il catalogo amoroso, per la parte condivisa, degli autori religiosi (dalla Bibbia a sant’Agostino,  Riccardo di San Vittore, Meister Eckhart, Margherita di Porete) e dei poeti dell’amore cortese. In una semantica e una simbologia che oggi risultano stranamente contemporanee. Riassumendosi nell’inciso che Sannelli appone a esergo della sua introduzione, “Loquentes de corpore”. È di sesso che si parla, il rapporto che “nasce da una volontà libera e incondizionata” - il matrimonio, la fedeltà, la monogamia non sono in tema, nemmeno per contestarli, si dà per scontato che non sono valori.
In questi ambito, per l’epoca straordinario, la raccolta è di precetti pedestri. “Per natura la donna è soggetta all’uomo, perché è stata tratta da lui”. “La donna e l’uomo sono come il fuoco e il legno” – il fuoco è l’uomo. La donna deve referire un marito inferiore, “per due ragioni: la maggiore obbedienza dell’uomo e la sicurezza di non esporsi all’accusa di far mercato dell’amore”.
Anonimo di Erfurt, Sulla gelosia, Il Nuovo Melangolo, pp. 87 € 8,24

martedì 5 dicembre 2017

Secondi pensieri - 328

zeulig

Autenticità - L’autenticità continua a piacere, benché abbia indispettito Adorno, un buon articolo si potrebbe farne al mercato, checché essa sia. Non solo nell’arte, ma ogni giorno, con i cibi, per esempio, l’abbigliamento, “questa maglietta è autentica”, le vacanze. Si potrebbero rivendere le catapecchie in campagna, che sono certamente autentiche in un habitat autentico.

Essere - Io non sono, nessun dubbio. Sartre non è - non è simpatico. Ma Heidegger è? E il popolo tedesco? C’è qualche soggetto da qualche parte, con tanto filosofare? Sarà Dio?
Heidegger non ha letto D’Annunzio, e si vede. Celebra eccitato l’opposizione tra il mondo, “inautentico”, della quotidianità, “in cui ognuno è l’altro, e nessuno è se stesso”, e la “autenticità suprema” della libertà-per-la-morte.

Filosofia – Sarà finita col giardino? Che, Cicerone giustamente osservava, “induce a pensare”. Cicerone era un nuovo ricco, ma la filosofia d’appartamento è altra cosa: debole, minima, apologetica, retorica che sia, aggrava la st-tichezza, per carenza d’ossigenazione. Mentre quella di piazza, è noto, traligna. E una filosofia al governo dirazza: furono discepoli di Socrate, e pure belli, Alcibiade e Crizia, gli ateniesi che imposero i Quattrocento.

Già la filosofia aveva la tendenza a concludere che la vita è ciò che non dovrebbe esistere. Da tempo immemorabile, fin da Salomone: la filosofia è una vecchia sdentata. Che, per fare qualcosa, ha inventato il diavolo. Husserl ci aveva messo una pietra sopra, se il problema era: “Come posso diventare un filosofo onesto?” Del resto, conosciamo tre quarti della filosofia attraverso Platone. Della filosofia greca, egiziana, e degli altri mondi. E di Platone possediamo solo le opere di divulgazione. Platone, giovane allievo di Socrate, era nipote di Crizia. Socrate e Platone sostennero gli oligarchi. Finché non ne furono fatti fuori.

Germania – Si può dire la Germania, di prima e di ora, Germania paradigma dell’Europa, Ersatz e campo di prova delle questioni aperte: la colpa, la diversità (multietnicità), il primato (“arianesimo”), la storia, la filosofia.
Il filone Ted-Ebr. è l’Europa (il cristianesimo) ebraica, combattente, invece dell’Europa (cristianesimo) greca, che conosce la Forza e la lascia in disparte – combattente cioè nel nome della Legge, della superiorità, perché anche i greci non erano male in fatto di guerricciole.
Heidegger e Freud non sono materialismo critico, o critica superiore (intelligente) della realtà, sono il desiderio di finirla. Che si autocompassiona.

Lavoro – Adam Smith ne fa un sacrificio. Fourier voleva farne una gioia e un divertimento. Rensi ne dice male per tutto un libro – ma esordendo con una rinuncia al pensiero: “Il problema del lavoro, come tutti queli che maggiormente interessano l’umanità, è, così dal punto di vista morale, come dal punto di vista economico-sociale, insolubile”. Il lavoro non ha buona opinione. Northrop Frye, “Anatomia della critica”, lo lega al desiderio – la cui proiezione è il sogno, e di cui ha fatto la specialità umana (“La civiltà non è semplicemente imitazione della natura, ma un processo di costruzione di una forma umana totale mediante elementi della natura, ed  sospinta da quella forza che abbiamo definito desiderio”): “La forma del desiderio è liberata e resa apparente dalla civiltà. La causa efficiente della civiltà è il lavoro”. Anche la poesia gli è subordinata: “La poesia, dal punto di vista sociale, ha lo scopo di esprimere, come ipotesi verbale, la visione della meta del lavoro e delle forme del desiderio”.

Morte – “L’uomo pre-greco sapeva di compiere con la morte un viaggio in un mondo da cui avrebbe potuto forse tornare. Vivere tra il nulla e il nulla è in realtà morire, e questo è l’atto supremo di co-noscenza” – Emanuele Severino. Il nichilista è miglior cristiano lo diceva Oscar Wilde, in altro senso. Coleotteri siamo, ancorché giganti, che vivono di escrementi. La famosa catena ecologica. Coleotteri pensanti, che la vanno a raccontare.

La morte ugualizzando tutti, il suicidio si prospetta quale marchio di differenza. Ma ha solo l’effetto di anticipare l’immota uguaglianza. La morte può fare di ognuno un eletto, nelle opere, nel ricordo. Mentre il suicidio cristallizza in sé, soverchiando ogni altra sfumatura - la voglia di eccezione: comune, giusta, il proprio dell’uomo d’eccellenza, dell’uomo.
Ciò è vero anche in senso metaforico: nessun suicida ha mai cambiato nulla, non l’equivalente del battito di ciglia a Manhattan, del volo di farfalla a Singapore, che pure sommuovono la fisica.

La morte di Dio fonda il cristianesimo.

Il ritmo dattilico, una lunga due brevi, come “ritmo della morte”, che si riscontra in molte composizioni di Schubert, nel Lied “La morte e la ragazza” e altrove, è anche quello del walzer.  

Si recita ai funerali la formula “Dagli abissi io ti invoco, o Signore”, che sempre è per ognuno rovesciata, è il morto in realtà il signore che s’invoca. C’è nella morte un aspetto buono: ognuno riprende la compostezza, non più sopraffatto dalle banalità della vita, nei suoi aspetti felici e beneaugurati, che può invocare. È questa l’essenza degli angeli, per i quali la vita non è che accidente, che nessun papa deve santificare.

La morte è giovane, anche se ha una lunga storia, eterna, viene sempre troppo presto. Il funerale è degli adulti.

I funerali sono dei vivi, si sa. Una cerimonializzazione della morte. Ma il rito è solitario.

Storia – Se non è scienza, è certo la coscienza dell’umanità, e compie la stessa funzione della ragione nella vita individuale (Schopenhauer).

“Prima condizione per avere storia vera (e quindi opera d’arte) è che sia possibile costruire una narrazione” (Croce)

“È cosa più facile fare la filosofia della storia che non la storia “ (Croce)

“La vera storia dovrebbe scriverla Dio” (Schiller, “Don Carlos”)

zeulig@antiit.eu

Una scatola di sonora allegria

“Perché soltanto in musica allignano i fanciulli prodigio?  Perché il musicista è il meno creativo, il più ricettivo, il più femminile degli artisti”. Ma non battute o freddure, ragionamenti compiuti:  “Perché nel musicista l’ispirazione opera più che nelle altre arti (in pittura, arte maschile per eccellenza, l’ispirazione non esiste), ossia il fenomeno di una volontà esteriore che colpisce il musico e lo satura di sé”. Seicento pagine tutte da leggere, piene di intelligenza, il più spesso sorprendente.
Con punte vertiginose. “Fine dell’ironia, diversamente da come credono i più, non è di porre uomini
e cose in burla, ma di scoprire, velatamente e indirettamente, la verità più riposta in fondo agli
uomini e alle cose, così da non offenderli, da non guastarli, da non colpirli a morte, come
avverrebbe se questa riposta verità fosse tirara fuori direttamente e senza gli accorgimenti, la
delicatezza, l’ «anestesia» che in questa operazione, di tutte la più amara, mette l’ironia”. O il male:
è il male che dà sostanza – carattere, vigore alla vita. In anticipo sui tempi anche con la morte
dell’uomo, dopo quella di Dio: “L’uomo è morto, l’universo non è più umanistico”. Conseguenza
non inevitable dell’universo copernicano.
Savinio soffriva già del distinto egualitarismo che ci assedia, del postumano. Seppure a modo suo,
tra occhio di lince e compassione – ironia. A un certo punto rivendica con l’intelligenza, con
orgoglio e pregiudizio: “Sono immune da isterismi. Nessun complesso altera il mio giudizio. La
mia mente chiarissima antepone l’idea del giusto a qualsiasi altra idea”. Per poi continuare, contro
“la sterilità pretenziosa, madre feconda dei gruppi”: “La odio soprattutto nei Paul Valéry, negli
André Gide, nei suoi rappresentanti più pomposi. Il basso sentimentalismo di Puccini mi nausea,
quello dei Debussy e dei Ravel mi nausea anche più”. Goethe gli fa “venire l’orticaria”, come poi a
Bernhard – “questo equivoco colossale del pensiero e delle arti, questa caricatura del genio, questo
enorme e seccantissimo dilettante”.
Era un recensore che pensava mentre scriveva. Riletto poi oggi, in clima di bonaccia e correttezza, sa perfino di sulfureo, anche se è l’opera di un mite, che più che altro si divertiva. “Io vivo in una perpetua condizione di felicità”, segnala a metà pecorso: “E vivo così perché non do presa alla noia. E non do presa alla noia perché passo di continuo da poesia a poesia…”. Senza essere monomaniaco, benché gli scritti qui assemblati riguardino il Savinio critico musicale per i giornali, assiduo e professionale, negli anni 1940, durante la guerra e dopo. “Nella sua estrema civiltà, il Settecento era arrivato non alla confusione, ma alla soppressione dei sessi”. Sessanta, settant’anni fa, Savinio era già post-femminista, post-genere? “I personaggi del Settecento sono dei neutri sorridenti e abili a tutti i giochi. La determinazione sessuale il melodramma italiano la ritroverà col giovane Verdi, serio e inetto allo scherzo”.
Spesso divagante, curioso. Le nazionalità distingue in musica, italiana, russa (“il russo è l’uomo più
musicale del mondo”)., tedesca, inglese, francese, spagnola. La differenza tra Mussolini e Eden?
“Mussolini non conosceva Proust, Eden lo conosceva e lo aveva anche tardotto in inglese”. Tutti
pezzi di bravura, quelli qui trascritti, da antologia. Come se il recensore scrivesse per una
collettanea postuma, o è l’effetto di una scelta di gusto da parte degli editori. Comunque, una critica
militante di qualità eccellente. Gran “dilettante”, nell’accezione di Stendhal – che spesso evoca
prospettandosene una reincranazione - “nella mia vita anteriore, in persona di Henri Beyle”. E come
Stendhal “scintilla di spirito, brulica di idee”. Il critico esploratore. Il critico come Colombo, un
esploratore anche in terre e acque conosciute. Sulle quali esercita il piacere della scoperta. Di
pieghe sottili ma anche di vedute generali prima trascurate.
Savinio è una spugna, artista impregnabile. Sta coi musicisti, a Monaco  di Baviera, è musicista. Sta coi poeti e le avanguardie a Parigi, è poeta. Sta coi pittori in guerra a Ferrara, è pittore. Ma sempre pieno di umori. Era l’unico italiano a figurare nell’“Antologia dell’umor nero” di Breton, 1940.
Tutto del resto nella raccolta è appropriato, oltre che un po’ memorabile – suggestivo, significativo. Di Mozart e in genere: “L’infanzia non è una condizione naturale, è un’opera d’arte”. Delle coincidenze: “Nell’incontro fortuito delle parole i Greci riconoscevano la voce della divinità”.
Inventore. Alla “Norma” imputa il “costante «aeiouismo», la sua mancanza di consonanti”. Beethoven, di cui non c’è l’eguale, è pari e dispari: le sinfonie: “Tre, Cinque, Sette, Nove, numeri diaspari e «fatali»”, mentre le pari, “Due, Quattro, Sei, Otto” sono “le sinfonie piane di Beethovern, le sinfonie bianche, le sinfonie «senza Destino»”. In poche righe anche una sottile psicologia dell’italiano nel canto, del “bisogno di portarsi a terra con una decisa e secca cadenza”. Ritardato, al più, da “una «fioritura» (il nodo sonoro) che ritarda la cadenza”. La “cadenza” è il compimento della frase musicale. È il «sì» perentorio, la soluzione che non consente replica né differimento. «È così perché è così», «È così  non può essere altrimenti»: meglio: «non deve essere atrimenti». Anche la cadenza fa parte del cattolicismo italiano, dello spirito tolemaico degli Italiani”. Il “nodo” è “la complicatissima filigrana che preede la cadenza”: “Il cantante traccia cn la voce come dei nodi vocali, delle lunghissime circonvoluzioni, dei labirinti  a curve (di solito le vie del labirinto sono ad angolo) e vi si chiude dentro come un uccello nella gabbia, coe il baco nella seta, come la trottola nelo spago”, si riavvolge, “come una firma nel suo svolazzo”.
Si parte dalla musica indivìsibile, un paio di saggi seriosi. E si conclude sullo stesso tono elevato.
Sul canto, e sulla musica strumentale (contrapunto). Vengono in coda gli scritti teorici del 1914 a
Parigi, in francese – Savinio era a Parigi da musicista. Con le testimonianze di
Apollinaire e Breton. Ma la raccolta è soprattutto degli “scarti”, le deviazioni a sorpresa. In un
madrigale di Montevedi uno dei temi più noti del “Maestri cantori” di Wagner. Il “Bolero” di Ravel
è “un basso ostinato”. Bach è un “arabogotico”. Nietzsche, baffuto filosofo dagli occhi ingrottati” è
Monteverdi – Monteverdi ha scritto la musica che il filologo-filosofo avrebbe volute saper scrivere.
“La musica di Vivaldi va a gonfie vele”, quando si navigava a vela. “La musica è per sua natura
squisitamente invernale”.  “Il contrappunto è nella musica ciò che la dialettica è in filosofia. È la
dimostrazione del principio che «da cosa nasce cosa»”. “Il contrappuinto, e così la dialettica, vanno
a scapito della profondità”.
Con molti personaggi: Edwin Fischer, Paderewski, Gieseking, Furtwängler, Casella, De Sabata,
Igor Markevitch, Djaghilev. Solo contro il verismo perde l’amabilità, in letteratura e in musica.
Molto c’è di Bach e di Mozart – nonché di Wagner, e di Strawinsky. Bach è “cattolico” – irresistibile e incontrovertibile. Bach non è profondo: “Ed è appunto questa questa mancanza di profondità di Bach, questa sua ingenua serietà, questo suo «non costituire pericolo», che fanno il suo fascino e giustificano l’attrazione ch’egli esercita ormai sulla borghesia”. Bach visse nel Settecento, ma non ha nulla di quel secolo: la ragione? la Nuova Scienza? Copernico, Galileo? Mozart è eterno fanciullo. Fino ai 35 anni. Si sceglie la parte di Leporello: “Nel «Don Giovanni, il personaggio nel quale Mozart «si è messo» è Leporello”». Schumann è l’eterno adolescente.
Le citazioni sarebbero interminabili. Con pregiudizi, e qualche limite. Su Cézanne. Ma, anche qui, vedendo nell’insieme sempre chiaro: Cézanne fa la pitturta all’“epoca dell’ingegnere ateo”, del positivismo, secondo Ottocento. Su Puccini, su Wagner. In tanta assidua militanza, da critico settimanale, forse anche quotidiano, non una pagina su Puccini, giusto accenni derisori: “basso sentimentalismo, “compositore per la media e piccola borghesia, immediatamente superiore all’autore di operette e a quello di romanze da camera”. Di Wagner, non amato benché rispettato, ovunque trovando orme di “prestiti” non dichiarati, da Rossini, da Beethoven, da Bach.
La riedizione si aggiorna. La raccolta è la stessa pubblicata da Ricordi nel 1955, tre anni dopo la morte di Savinio. Completa con l’appendice documentaria aggiunta all’edizione Einaudi del 1977. Il saggio conclusivo dell’edizione Einaudi, di Fausto Torrefranca, è qui sostituito da uno di Mila De Santis, l’introduzione di Luigi Rognoni da quella del curatore Francesco Lombardi.

Alberto Savinio, Scatola Sonora, Il Saggiatore, pp. 600 € 34