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sabato 16 dicembre 2017

Problemi di base parlamentari - 379

spock

Credere a Vegas o a Maria Elena?

Il presidente della Consob trattava gli affari in camera?

E che ne ha fatto dei 5 miliardi di aumento di capitale Mps nel 2014, dei tre miliardi del 2015 e dei 4 miliardi, investimento forzoso, del 2016 – dodici miliardi spariti in soli due anni e mezzo, è possibile?

Ai parlamentari della Commissione banche non interessano i miliardi spariti (si vede che loro, furbi, non ci avevano messo un euro), interessa Maria Elena: anche alle parlamentari donne?

“Per natura la donna è soggetta all’uomo, perché è stata tratta da lui” (Anonimo di Erfurt): per esempio Maria Elena da Vegas?

Ma stiamo parlando di miliardi spariti o delle grazie di Maria Elena Boschi?

I parlamentari sono ammirevoli, il frou-frou è piacevole, è la ricetta di Milano, ma com’è possibile divertirsi fra tanti disastri – mai Milano aveva osato far sparire tanti miliardi insieme?

spock@antiit.eu

Il mistero di Carmen a Roma

Una breve sintesi, in chiave celebrativa, ma riesce a creare in mezzora tutti i motivi di fascino, ancorché misterioso, che accompagna l’opera. Dismessa all’esordio come operetta, un rifiuto che immalinconì l’autore e lo portò presto a morte, tre mesi dopo l’insuccesso, a 37 anni, e non più ripresa per otto anni, fino al 1883, quan do riapaprve in versione censurata e senza carattere. Salvo ascendere poi, da sola e rapidamente, a Fine Secolo era fatta, la scala del Parnaso. Fino a conquistarsi palati celebri, da quello famoso di Nietzsche, che via “Carmen” elaborava a sua vendetta contro Wagner, allo schizzinosissimo Savinio. Che la dichiara semplicemente l’opera delle opere, “così vicina a noi e assieme tanto lontana”, “sincera e schietta” come “obliqua e densa di fato” (“nemmeno i Greci io credo seppero esprimere con altrettanta chiarezza e precisione l’accento dela Moira, come Bizet” nella “Carmen”). Joseph Conrad vi trovava uno “specchio magico”, che, sapendolo interrogare, rivela verità sottilissime, tali da sfuggire anche a specchi ben politi, di luce perfetta – una stagione andò ad ascoltarla per quattrodici sere di seguito.
Pappano ha saputo ricostituire in breve i motivi di suggestione dell’opera. Con un’orchestra rinforzata, che suonava come per la prima volta, e il sostegno, in assenza delle voci soliste, del corso di Santa Cecilia, come semrpe super registrato, nonché del coro delle voci bianche, altrettanto determinato e “al punto”. Un’esecuzione suggestiva anche alla vista, come se la grande scena della sala Santa Cecilia non riuscisse a contenere la vitalità che si sprigiona dall’opera.
George Bizet, Carmen, dir. Antonio Pappano, Orchestra di Santa Cecilia, Auditorium Parco della Musica

venerdì 15 dicembre 2017

Ombre - 395

Il presidente della Toscana Rossi non vuole rischiare: “Facciamo un patto sui collegi uninominali”, propone agli (ex) compagni dl Pd: “Noi e i dem evitiamo le sfide tra i leader”. Furbo, però.

Vince a sorpresa” a X Factor Salvatore Licitra, sui favoriti Manneskin, Enrico Nigiotti e Samuel Storm. Licritra sarà bravo, ma perché vince “a sorpresa”? Non è nella scuderia di Mara Majonchi, la padrina  di “X Factor”?

Vegas, scapolone, ci ha provato con la Boschi, lei non c’è stata e ora lui si vendica tirandola dentro per Banca Etruria. Anche come uomo di destra. Semplice, ma è ininfluente: “la Repubblica” e il “Corriere della sera”, giornali professatamente dem, c’inzuppano il pane. Con Vegas, contro Boschi. Sono amici del giaguaro?
Il governo deve sempre “cadere”, per un motivo o per l’altro, questa è l’unica morale. Dei padroni del vapore.

“la Repubblica” e il “Corriere della sera” fanno sempre dichiarazioni di voto, da alcuni anni, per il partito Democratico. Di cui si affannano, sotto elezioni e dopo, a demolire ogni piega, anche con accanimento - impietosi per i poveri (residui) lettori. Che politica è? 
Dice: lonestà, il giornalismo deve essere onesto. Per chi?
In effetti, per conto di nessuno: per il disordine.
  
Scaduti i salotti buoni, e i poteri forti, che poi erano uno, Mediobanca e Milano, ci sono sempre i padroni del vapore. Vecchia categoria, Ernesto Rossi, anni 1950, remoti, ma quello che allora era una frangia di squallore ora è il nostro pane quotidiano. Non c’è altro, il “pensiero unico”è questo, le “forze del mercato”. Di tre o quattro editori che si vogliono demiurghi, nel mentre che tagliano e chiudono.

Metodi, procedure e consulenze di Robert Mueller, il procuratore speciale del “Russiagate”, e dell’Fbi che alimenta il caso, sono discussi in America. Anche tra i Democratici, che hanno sollevato lo scandalo. Ma di questo non c’è traccia nei media italiani. Siamo in guerra con Trump? Con gli Usa?

Non riempie le buche e non  fa svuotare i cassonetti, non sa nulla della macchina amministrativa e non se ne occupa, ma aprirà una spiaggia sul Tevere. Per i bagni di sole presumibilmente, ma con schiere di bagnini, dipendenti comunali, per prevenire i contati col Tevere velenoso. Virginia Raggi sindaca di Roma, anche ammesso che ci è e non ci fa, è fuori da ogni concezione.

Non è il solo appalto sul Tevere che la sindaca Raggi darà a Roma: riattiverà anche a crocieristica. Con le barchette dei bambini? Il Tevere, non dragato, è pieno di materiali di riporto e selve di alberi. Si fa l’appalto per l’appalto, vecchio sistema. Di corruzione spicciola, è vero, non “grandi opere”.

Di grandi opere i 5 Stelle a Roma faranno lo stadio della Roma. Che è una bufala – una speculazione immobiliare. Trattata direttamente da Grillo. Forse per sfottere i romani – Grillo si sa che non prende tangenti: non vi ho consentito l’Olimpiade, vi ammollo lo stadio.

Per consentire la speculazione attorno allo stadio della Roma, ci vuole un ponte che costerò allo Stato più di quanto investe il costruttore Parnasi,  senza le rendite che questi se ne attende, enormi. 

Roma non ha mai ricostruito il ponte dell'Industria, uno dei più trafficati: va avanti col ponte Bailey messo su dopo i bombardamenti del 1943. Ma per il nuovo centro immobiliare di Parnasi ne fa uno nuovissimo e avveniristico.

Grandi corrispondenze dalla Francia: Macron proibirà l’uso dei cellulari in aula alle elementari e alle medie. In Italia il divieto c’è da sempre, diciamo al 2007, e funziona. Ma non è notizia se non viene da Parigi, da Macron.
Si potrebbe farne anche il lever e il coucher, come usava Luigi XIV: vedere anche il presidente bambino in braghette o in pigiama, col bacio della buonanotte.
Ma chi è questo Macron, che dobbiamo santificare?

Erica Jong, simpatica scrittrice specialista di “voli” a letto, è testimonial autorevole del “Corriere della sera” sull’ultimo attentato islamico a New York. Trump è un cretino, dice, gli islamici vanno capiti: “provare ad aiutarli”, consiglia. Lei ci avrà provato, ultima frontiera dei “voli”?
Perché non insegnare agli americani, comprese le scrittrici, un po’ di islam? Ci vorrebbe un programma obbligatorio, anche di recupero per gli adulti

Un “imprenditore” di Nashville, Tennessee, ha finanziato il furto del programma di intercettazione telematica “Galileo”, in uso nelle polizie di mezzo mondo, alla milanese Hacking Team. La Procura di Milano e l’Fbi lo hanno accertato: ha nome iraniano ma dubbia identità, è molto giovane, ha finanziato il furto in bitcoin, “moneta” senza tracce. Ma il dipartimento di Stato nega i documenti Fbi a Milano: il “cittadino iraniano” è un onest’uomo, comunque non perseguibile. Chissà perché avrebbe fatto rubare i codici.
Le porte sono girevoli da sempre fra il dipartimento di Stato e la Cia. Si spiegheranno così le strane politiche estere americane.

L’Espresso” fa il numero sui millennial che voteranno fanno 18 anni nel 2018, voteranno per la prima volta. E scopre che “c’è qualcuno che sceglie Berlusconi”. Perbacco!

Per l’Ucraina, per il presidente ucraino Poroshenko, per il tentativo di liquidare la metà della popolazione che è russa, siamo in guerra contro la Russia. Armati da Obama, da una delle sue “primavere”. Ma lo steso Poroshenko ha messo e tiene in prigione l’ex presidente georgiano Saakashvili. Per Saakashvili neppure una piccola manifestazione di piazza? Sono finite tutte con Obama.

Saakashvili aveva organizzato l’occupazione dell’Ossezia a Ferragosto del 2008, mentre il mondo guardava distratto le Olimpiadi. Contrato rudemente dalla Russia, era emigrato in Ucraina, dove Poroshekno lo aveva nominato governatore di Odessa, cioè dei russi di Crimea. Poi, benché georgiano, si è messo al’opposizione di Poroshenko. Assieme all’ex premier Julia Timoshenko, condannata per corruzione, e un miliardario amico di Yanukovich, il presidente cacciato nel 2008 per corruzione. Per che democrazia stiamo combattendo?

Il Regno di Napoli non era male

L’ultimo panegirico del Regno di Napoli, per le rovine e il gusto delle antichità e pure per il benessere, relativo all’epoca. Non tradotto in italiano, malgrado i tanti motivi d’interesse, se non per piccoli pezzi, e – le parti relative a Napoli e alla Sicilia – in edizioni alla macchia. Ma anche in Francia, bisogna dire, questo particolare frutto delle tante attività di Vivan Denon è stato trascurato: l’edizione Perrin è la prima, nel 1997.
L’edizione francese è corredata da ritratti e incisioni di mano dello stesso Vivant Denon, o lavorati sotto il suo controllo. Seguita da un paio di centinaia di note, biografiche, geografiche, storiche, a cura di Mathieu Couty, di facile accesso (in ordine alfabetico). Con una presentazione tecnica di Pierre Rosenberg, allora direttore del Louvre : Dominique Vivant, barone Denon, scrittore (anche libertino), incisore (spesso lascivo), uomo di commercio, è anzitutto un archeologo. In questa veste seguì Napoleone in Egitto. Ma soprattutto si illustrò nel Regno di Napoli, che visitò negli anni 1777-78: Napoli, la Calabria, che scopre il fulcro ancora ignoto (agli stessi calabresi) della Magna Grecia, e la Sicilia. A Pompei potè partecipare ai primi scavi, ricavandone vari “pezzi” – che restano esposti al “Padiglione Denon” del Louvre, di cui sarà nominato primo direttore (quando il Louvre apriva come Museo nazionale intitolato a Napoleone).  
Vivant Denon era un entusiasta, e non si smentisce, per lo più è superlativo. “Le rovine di Pompei, le più interessanti che esistano nell’universo”, lo stile è questo: “Questa Calabria di cui ci facevano così tanta paura è il luogo in cui ho visto esercitare l’ospitaità con la più grande dolcezza”, niente in Francia è meglio abitato e più produttivo delle campagne di Cosenza, etc.. Il governo tiene le popolazioni in un “abbandono soporifico”, ma niente al confronto del crudele passato, dei goti, saraceni, normanni. Ma scrive nel migliore Settecento, malgrado i superlativi, intervallando l’aneddotica all’osservazione e alla riflessione.
Dominique Vivant Denon, Voyage au Royaume de Naples, Perrin, occasione, pp. 309 € 4,26
Antonio Coltellaro (a cura di), Calabria felix, Rubbettino, pp. 60 € 8
Teresa Leone, (a cura di), Viaggio nel regno di Napoli, Paparo, pp. 144
Carlo Ruta (a cura di), Viaggio a Palermo, Edi.bi.si.

giovedì 14 dicembre 2017

Il fantasma di Carlo Marx - 4

astolfo

“E adesso che facciamo?” si chiedono gli avvoltoi nel Libro della giungla. Rispondendosi: “Secondo te cosa si può fare?” Sulla tomba di Hegel a Berlino, patria del Diamat, prospera la gramigna. E Marx, Einaudi è più rivoluzionario. Con la sua legge semplice che liberalizzasse in tutto o in parte l’asse ereditario alla morte del padrone: che moltiplicatore di ricchezza e democrazia! Einaudi non sapeva – lo sapeva ma non voleva saperlo – che una legge è una società e un’ideologia, che la liberalizzazione dell’eredità implica l’abolizione del diritto di proprietà, se non come diritto d’acquisizione. Non era un politico e non si voleva un rivoluzionario. Ma la sua modesta proposta è più radicale – rivoluzionaria – della lotta di classe, che è un residuato borghese, dell’89.
Marx sarà stato l’ultimo dono dell’Europa al mondo. Heidegger, Freud, Nietzsche stesso sono dei maghi – Hitler lo era. Marx invece no, e questo è rassicurante. Confinato al sovietismo, la vecchia agiografia, lui critico impietoso, se n’è caricato i riti, inclusi i miracoli. Da ragazzo c’era portato, che diciassettenne scrisse di Augusto, in latino: “Un capo assoluto e non la libera repubblica fu capace di dare al popolo la libertà”. La chiesa sovietica non poté che farne il profeta di Lenin, ogni messia ha un precursore. Ma è di Lenin il partito chiesa, che non lascia scampo. Fino a Krusciov, che fu detto liberalizzatore ma introdusse la preghiera laica al matrimonio, da recitarsi dall’officiante, come in chiesa: “Alziamo i calici… \ Vuotiamo i calici nuziali, gloria a te, caro Partito, gloria!\ Per u futuro luminoso, per quest’ora di gioia,\ gloria a te, caro Partito, gloria!”. L’abbandono dell’analisi per l’ideologia, della critica dell’economia politica per la mistica della rivoluzione è di Lunačarskij e Bogdanov, comprimari di Lenin. La religione è leninista. È Lenin che ha dato alla politica il primato sull’economia e la struttura, Lenin è il primo antimarxista. Lenin il sarmata, che il comunismo ha trascinato fuori dalla tradizione occidentale del dubbio. L’azione politica di Marx ha tramutato nella fabbricazione della storia. Il marxismo come fabbrica, Marx ancora ne riderà.
Cattivo comunista
Oppure no, il primo antimarxista è Marx. Che dà una garanzia che è poco più di una metafora: ogni società, dice con Hegel, contiene in germe le epoche successive come ogni organismo vivente porta i semi dei suoi discendenti. Ma questa gracilità Marx condivide con tutti i filosofi. Fu giornalista, dopo rapidi studi di dottrina dello Stato, filosofia e storia, senza dottorato, anche se pretenderà di rovesciare Hegel. Engels lo paragona a Darwin. Ma è a Spencer che somiglia: la lotta di classe come il darwinismo sociale, la sopravvivenza del più forte. Avendo sviluppato la teoria classica del valore-lavoro. Ma l’economia o l’interesse non spiega l’uomo, nemmeno l’uomo corporale, senz’anima, e neppure l’odio, non spiega la guerra, né l’ilare tragedia dell’amore, il sacrificio di sé, la procreazione, incluso dell’impresa economica, il piacere.
Marx che si vuole critico è astratto, irrealistico. Entusiasma ma è sterile. Solo produce odi improduttivi, della perfida Albione, degli yankee, dei padroni, di chi possiede di più. Se c’è qualcuno che sa, con cognizione di causa, che il mercato è incontrollabile è lui - con più cognizione di causa di Smith. La filosofia della prassi è certo novità eccezionale, ma il suo inveramento avviene in Dostoevskij, o in Gide volendo essere beneducati, e Heidegger: nella rivoluzione del buco, poiché la stupidità esiste. Non fu meglio come politico, collerico, fazioso, dispettoso. È uno scrittore, precisamente uno storico creativo. Voleva scrivere, sapeva scrivere, e lo sapeva: “Il vantaggio dei miei scritti”, scrive in vecchiaia a Engels, “quali che ne siano i limiti, è che sono un insieme artistico”. Non un agitatore, era un pantofolaio. Ma era cattivo politico perché era cattivo comunista.
Marx è all’origine e al fondo un liberale. Non anarchico, qual è il liberale coerente: no, costituzionale. Un figlio del ’48, un altro. Della dissociazione tra le istituzioni – lo Stato del vecchio tedesco – e la società. Della possibilità e infine necessità della pratica rivoluzionaria – la faglia trova nell’antagonismo tra proprietà e lavoro. Da qui il catechismo volgare. Per abbattere lo Stato e i padroni ci vuole la rivoluzione. E la rivoluzione è operaia: il lavoro libera dall’ideologia, di servitù e violenza. Occorre dunque essere operai. Mentre da tempo la classe operaia si libera da se stessa, non vuole essere più operaia. La rivoluzione è allora antimarxista.
O non sarà Marx un catechista, se kat-echon è ciò che arresta? Un teologo che si rifiuta? L’asceta che ribalta l’ascetismo, il rifiuto del mondo, in odio di classe, cioè nella conquista del mondo. “Una meravigliosa illusione fa sì che l’alto volo della speranza si leghi sempre all’idea del salire, senza riflettere che, per quanto si salga, si deve pur ricadere, per porre piede forse in un altro mondo”, dice ancora Kant, che era alto un metro e mezzo. Sì, Marx è Sorel, “l’economia marxiana è manchesteriana”, con proprietà, mercato e profitti. Ma ridicolo non è, Marx non è fascista. Solo che, come Machiavelli, mette piede ricadendo sul mondo di prima – gli uomini più interessati che cattivi sono nel “Principe”.
Fazioso ingenuo
Non si può fargli colpa di Stalin, che non lo realizzò ma l’affossò: la rivoluzione che doveva eliminare lo Stato ribaltò nello Stato totalitario, per primi liquidando i comunisti. La potenza del Diamat è nella sua debolezza in quanto comunista, razionalista, ottimista: critica di quale realtà? nel nome di quale verità? Marx è tanto fazioso quanto ingenuo e per questo simpatico: è impossibile che abbia torto. Anche se il comunismo ovviamente è anch’esso un’ideologia e non la fine delle ideologie. Per non dire dell’origine del capitalismo, che c’è sempre stato, anche in Asia, in Perù e perfino in Africa: sempre lo scambio lascia qualcosa da parte, l’hanno sempre saputo gli antropologi, che vanamente utopizzano il potlach, il dono senza residui. La passione ha fatto velo a Marx su una verità evidente: il suo capitalismo, la superiorità dell’Europa dell’Ottocento, è proprio il salario. Il lavoro salariato per tutti, indotto dalla meccanica – che Ford coerente porterà all’estremo di non rifiutare il lavoro a nessuno. Il salario che si riproduce coi consumi più che coi profitti.
Il sospetto del resto deve andare contro “ciò che ogni periodo dice di sé e immagina di essere”, partendo da Hegel e Descartes: “De omnibus dubitandum est” – tutte persone che non dubitano, Descartes, Hegel e lo stesso Marx, mentre, spiega Kierkegaard, il dubbio stesso è soggetto a dubbio. Per la verità delle cose invece che per la verità del discorso, che è sempre zoppa. La verità del discorso darà più piacere – le zoppe provano e danno più piacere, secondo Montaigne – ma è inutile: non c’è dubbio che “la violenza è la levatrice di ogni vecchia società”, e la violenza in effetti non è ideologica, è di tutte le ideologie. Mentre la rivoluzione di Wagner sembrò eccessiva perfino a Bakunin, “dea sublime” del walhalla, che “scende fremente sulle ali delle tempeste”, tra terremoti, uragani, spade fiammeggianti, fiaccole, raggi di sole, fiori profumati, cori di giubilo. E perché non ascenderebbe, invece di scendere?
Wagner e Marx furono compagni di rivoluzione nel ‘48. C’erano i ricchi e i poveri, i borghesi e gli operai, quelli che sempre si arricchiscono e quelli che impoveriscono, con pochi trapassi verso l’alto, e solo per caso. Poi, col sindacato e con Ford, le società sono diventate di classi medie, di cui gli operai fanno parte, buona parte di essi. Il dimenticato dottor Carli, che ha fatto la politica monetaria in Italia per mezzo secolo, stimava già cinquant’anni fa che un terzo dei buoni del Tesoro erano sottoscritti da famiglie artigiane e operaie, talvolta con la figlia impiegata. Mentre il comunismo, Foucault lo certifica, è proprietà esclusiva dei partiti comunisti, fino al 1989 in adesione totale all’Urss, senza leggere Marx. E incorreggibile, dove residua.
A Parigi dopo il ’68 un filosofo chiese di “dimenticare Foucault”, un filosofo del Partito. Tra i professori non era impossibile, benché in Francia il Partito fosse già screditato: alla fondazione dell’università di Vincennes nel 1970 solo due professori su venti non facevano un corso su Marx, quello del Diamat di Mosca, e uno dei due era Foucault. Il risultato è che Marx resta ignoto, mentre con Foucault si parla.
L’oppio della rivoluzione
Marx “può non essere simpatico”: non lavorava, sfruttava la donne di casa e gli amici, era un elitista, avanguardia di avanguardie, era settario e favoriva i settarismi, Lenin non è che non è figlio di nessuno, ha distrutto tanti buoni socialismi, liquidandoli come ubbie o utopie, odiava i contadini e la campagna, da cittadino viziato, odiava i russi, da buon tedesco. E i cinesi, che voleva ottusi, ereditariamente. “Nella stessa misura in cui l’oppio ha conquistato il dominio sui cinesi”, scrisse sulla “Herald Tribune”, “l’imperatore e la sua corte di mandarini spietati sono stati spogliati della sovranità” dai mestatori inglesi. “Si direbbe che la storia dovesse intossicare questo popolo”, scrisse ancora, “ prima di farlo uscire dal suo stato di ottusità ereditaria”. L’oppio seme della rivoluzione, levatrice la mafia inglese, è un’idea.
La borghesia ne ha tratto miglior lezione. Marx ha insegnato ai ricchi i cicli economici, che le crisi non ci possono non essere e conviene fronteggiarle. In quanto critico del capitale è ingenuo: prende per buona la riproduzione allargata, cioè la stessa produzione di merci a mezzo di merci che vitupera. Non è radicale, non è un filosofo dell’economia. Era accidioso. Ma ha finito per costruire un’ideologia portentosa del capitalismo, che prospera contro ogni logica. Ha scritto nel “Manifesto” che “la borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria”, mentre Burke, uno che se ne intende, aveva già detto della proprietà che è “pigra, inerte, timida, la zavorra della nave della comunità”. Marx ha spinto i borghesi a fare i buoni borghesi, spiegando che il capitalismo è un sistema, non l’avrebbero mai capito.

Oppure la borghesia e non lo ha ancora capito. È di Karl Marx non di Karl Polanyi, quindi già di due secoli fa, la dimostrazione di come le “forze di mercato” senza limiti, di cui esse si fanno stolidamente bandiera,  distruggono la democrazia e anche l’economia. Che il mercato non sia la forza della democrazia, e anzi la insidii, è verità di destra oppure di sinistra? Di destra dopo che Marx ne ha dimostrato il fondamento.    La pauperizzazione, certo, a questo punto è forzata – la proletarizzazione: non si può dire Marx profeta sterile. 
(fine)

In questo mondo la bellezza è comune

“Ho anelato un tempo al vasto respiro dei Salmi o di Walt Whitman”. Ma a tirare le reti resta poco: “Vedo, non senza malinconia, che mi sono limitato ad alternare alcuni metri classici: l’alessandrino, l’endecasillabo, il settenario”. L’auspicio per il lettore è che ci sia qualche “verso fortunato” – “in questo mondo la bellezza è comune”.
Questo è una sorta di testamento, la bellezza comune nel mondo. Benché dopo il 24 agosto 1969, quando per il settantesimo compleanno Borges licenziava con questo breve prologo la raccolta, “la mia quinta opera poetica”, con un senso di fine, chiudendola con l’elegia della vecchiaia, l’“ombra” temuta gli abbia poi regalato, nota arguto il curatore Tommso Scarano, tre lustri, altre sei raccolte di versi, due di racconti, e “molto altro”.
La vecchiaia viene per ultima. Prima c’è molto Buenos Aires, una “milonga fischiettata che non riconosciamo e ci emoziona”. Con gli interlocutori soliti: De Quincey, “fratello della notte”, Ricardo Güiraldes, Hilario Ascasubi, l’autore delle “Rubayyat”. E Joyce, cui più che ad altri Borges fa risalire le “segrete leggi eterne” della scritura. Una poesia, in versi e in prosa, da conversatore incomprimibile. Borges, grande conversatore, filologo di ottimo mestiere e lettura, narratore metafisico (logico in realtà), si voleva e era un poeta. Poco apprezzato per questo, se non dai suoi amici, ma si rilegge in queste riedizioni con gusto.
L’ombra, la cecità come morte, viene con la vecchiaia. È il tema nuovo, spiega nel prologo, in aggiunta “agli specchi, i labirinti e le spade che già prevede il mio rasseganto lettre. Elegiaco ma non mesto. “Contrario alle estetiche”, ne confessa una dell’ordinario, di “alcune astuzie”: niente sinonimi, idiotismi, arcaismi, neologismi, niente preziosismi, parole di uso comune. Di “fatti” naturalmente meravigliosi, non c’è bisogno di dirlo.
La nuova traduzione, letterale, aderisce meglio all’originale disadorno, oraziano, della precedente di Francesco Tentori Montalto. Le variazioni sono minime, ma curiosamente danno un’altra cifra.
Jorge-Luis Borges, Elogio dell’ombra, Adelphi, pp. 160 € 16

mercoledì 13 dicembre 2017

Secondi pensieri - (329)

zeulig

Coscienza – Savinio (“Scatola sonora”, 75), ne ha una “esteriore” e una “interiore”. Quella è “la condizione di minorità degli uomini che vivono nella imposta tranquillità e incoscienza delle organizzazioni monoteiste”. Questa è quella dei Greci: “Tra i popoli dell’antichità i Greci furono singolarissimi soprattutto in questo, che essi furono sempre alieni da ogni concetto monoteista, e conobbero la ricchezza di una coscienza propria (o coscienza interiore: diversamente dalla «coscienza esteriore» degli altri, la quale fa sì che anche l’uomo più profondamente mistico rimane pur sempre un uomo privo di coscienza propria e dunque un futile, un frivolo, un superficiale) e conobbero il sentimento «romantico», questo sentimento malinconico, disperato ma altissimo e orgogliosissimo, che sol conoscono coloro che hanno un destino proprio e indipendente da qualsiasi autorità o temporale o spirituale “ – e da qualsiasi Libro, si può aggiungere.
Che (non) è Nietzsche?

Estetica – Non ce n’è bisogno, decreta Borges nel 1969, per i suoi settant’anni: “Diffido delle estetiche”, afferma nel breve “Prologo” all’“Elogio dell’ombra”, una raccolta di poesie e prose molto estetizzante. Per una ragione precisa, spiega, che ogni artista ha la sua: “Le estetiche variano con ogni artista e perfino con ogni opera e non possono essere altro che stimoli o strumenti occasionali”. Aggiungendo, forse senza ironia, a beneficio dei lettori della raccolta che presenta: “Agli specchi, i labirinti e le spade che già prevede il mio rassegnato lettore si sono aggiunti due temi nuovi; la vecchiaia e l’etica”.
Di sé ha comunque dato, sotto la denominazione di “tecnica” e non di estetica, una serie di regole di scrittura.

Etica – Si vuole protestante, da Max Weber a Borges. Ma sempre in una sorta di Kulturkampf, di guerra al cattolicesimo. Anche se l’attribuzione di Weber è temperata, fra le confessioni protestanti egli attribuendola, l’etica come la razionalità  al pietismo, un luteranesimo molto vicino al cattolicesimo - le origini del capitalismo, questione ora dismessa, sono ben cristiane, e fino a metà Cinquecento ovviamente cattoliche, dopo anche cattoliche, a Milano, Colonia, Bruges, Anversa.
La distinzione è più accentuata tra gli scrittori. Borges: “Una delle virtù per le quali preferisco le nazioni protestanti a quelle della tradizione cattolica è l’attenzione all’etica”. Lo scrittore si vuole anticonformista a pelle, e idealizza anche generoso il prato del vicino, ma c’è molto di antietico in questa distinzione confessionale.
“La prudenza e la giustizia sono preminenze e virtù che corrispondono a tutte le epoche in tutti i luoghi”, osservava il dottor Johnson a metà Settecento – l’osservazione faceva in risposta al proposito un  secolo prima di John Milton di educare i ragazzi della sua accademia piuttosto nelle scienze, la fisica, le matematiche, l’astronomia, le scienze naturali: “Siamo perpetuamente moralisti e solo a volte geometri”.

Individuo – Vale come per la coscienza: se Dio fosse nel processo di negazione e oltrepassamento, allora sarebbe un serial killer - una cosa è o non è. Lo vede ognuno che l’io protestante, o idealismo, è l’umiliazione dell’individuo, per quella rivolta contro l’oggetto che è invece il soggetto, una moltitudine di soggetti, mai riducibili a oggetti, anche perché lavorano insieme alacri per approfondirsi e moltiplicarsi, cosa di cui il Vaticano e la chiesa sempre sono stati al corrente.

Morte – “Pensiero infantile” la dice Savinio, “Scatola sonora”, 58. Lo dice a proposito di Mozart, del suo persistente “infantilismo” (“Anche il pensiero della morte, così costate nell’animo di Mozart, è un segno della sua perenne infantilità”): “Caratteristica dell’animo infantile è anche l’«angoscia della città sconosciuta»”.

Ragione - Il cherubino di Alain de Lisle ha tre paia d’ali, che tuttavia non eliminano la pesantezza. La Natura, concluse il beato, “forma un vero paralogismo”. Alain, Alanus de Insulis, per il quale paralogismo è pure il coito di Pasifae col toro, e sofisma: “Pasifae, da un’iperbolica Venere agitata di furori, risolvendosi a un vergognoso paralogismo, commise col toro stupendo sofisma”. Cosa credere, che si possa credere? Lo sviluppo della ragione è zero.
Da duemilacinquecento anni che esiste, dacché si raccolgono e confrontano i suoi elaborati, la storia del pensiero è piatta. Anche il progresso è zero, in quanto ragione. L’uomo è cresciuto in altezza e la vita media è triplicata, ma c’erano una volta giganti, che vivevano mille anni – anche se, è indubbio, l’età del ferro s’è perfezionata. Non c’è dunque nulla a cui credere.
La ragione affascina perché è una sfida, come il tempo, imprendibile. Si può credere in Dio, che è complicato ma avvicinabile, è come voler bene a una persona, la fede è immaginazione. Di cui poi dire che ci ha dato questo rompicapo, la ragione. Dio è anche un passatempo, naturalmente, come la ragione - un’altra prova se ne può configurare.

Storia – La storia è avvincente dopo Lessing, diventando, per essere edu-catrice del genere umano, superflua quando l’uomo è maturo. O comincia con l’accesso dell’uomo alla maturità, e allora apre una prospettiva infinita: scrivere la storia è approssimare la perfezione – la fine della sto-ria – approssimando la verità. Avventura appassionante, rigettare la veri-tà per consentire all’uomo di vivere, in qualche modo. La verità importa a Dio, e da questo punto di vista è nota. Per l’uomo è un perturbante, dirà Freud, impedendo la tolleranza, che vuole ragione, e ne svia lo sviluppo.

Viaggiare – È la dromomania un istinto, derivato dal nomadismo – se è vero che tutti siamo stati nomadi patriarcali? Ma c’è bene chi non ama nemmeno uscire di casa – lo fa con difficoltà, per necessità pratiche. Mentre non c’è chi non vuole mangiare, nemmeno fra gli ortoressici o gli anoressici. Non è un istinto primario: perché l’uomo vorrebbe andare lontano da casa? Che è una costruzione e non un dato, qualcosa che, anche se in misura limitata, affetti, abitudini, si è costruito.

zeulig@antiit.eu

Il fantasma di Carlo Marx – 3

astolfo

I cattivi di Dostoevskij non sono “cattivi”. Il rischio è sempre quello, in questo e in ogni cosa, di finire grandi masturbatori, alla D.H.Lawrence, non altrettanto innocui. Marx, il Prometeo intellettuale, è finito moderno uomo di pensiero, specialmente orfano di Dio e quindi piegato sull’angoscia, che si rappresenta le proprie paure senza sfidarle e forse ne gode – è  uno che immagina di godere nella disperazione. Oppure è figlio d’una classe perdente, la borghesia, che non è più collettiva e produttiva, come lo era prima di sedersi in salotto, orgogliosa della libertà sociale, e non è tory come ambisce, non realizza l’ordine dello spirito e la bellezza, non può, non sa. E finisce per amare la sconfitta, compiacendosi del ruolo di Tiresia inetto, cioè della sua inutilità – il male non ha bisogno d’indovini. Questo vale anche per i programmatori, il loro riformismo è sterile: le strade e i ponti nascono perché i lavoratori li fanno, quelli che sanno farli, uno dopo l’altro, per una loro intima necessità, intima alla strada e al ponte, senza chiedersi il piano generale dei ponti e la loro finalità ultima.
Contro la filosofia
Marx è stato grande in questo, che ne rideva. Ma, Croce ha ragione, “Marx non tanto capovolge la filosofia hegeliana quanto la filosofia in genere, ogni sorta di filosofia, e il filosofare soppianta con l’attività pratica”. Che, se si sta in pantofole, non è attiva né pratica. Patrizi e plebei si diceva a Roma dei primogeniti e i cadetti della stessa famiglia, i privilegiati e i non, ma tutti erano aristocratici, ne avevano lo spirito. Marx ne è parte, patrizio o plebeo che si voglia, non è invidioso, non cattivo: non è schiavo ma libero. La sua democrazia fa grande, universale, ciò che a Roma era circoscritto. Ma il resto della storia non è onorevole.
Dopo Marx più nulla, una voragine si è aperta che non si colma. “E sempre ancora v’inonda di missive\ nelle quali, sottolineato, scrive:\ “Signor Kästner, dova sta der Positive?” Erich Kästner non se lo chiede più, essendo morto, e comunque non ci sono novità a un secolo data, è sempre e solo Marx. Anche lo Stato delle multinazionali, dipoi globalizzazione, sanno di rieccolo: il previsto mercato mondiale, l’imperialismo puro. A opera del più forte di tutti i forti, gli Usa. In condominio con  l’ultimo paese marxista-leninista del mondo, e di gran lunga il più grande, la Cina, ma con diritto di signoraggio. Nel nome del mercato, di cui Marx fu secondo scopritore – dopo Francis Hutcheson, che “la maggiore felicità per il maggior numero” teorizzò, e i suoi discepoli Hume e Smith. Benché con alcuni paletti, pochi, nei punti sensibili. L’imperialismo di mercato è molto democratico, la Coca Cola si può bere del Congo. È pure bello, Hutcheson ha imposto l’estetica come disciplina, vanta anche questa primizia.
Fra le cose che Lucio Colletti aveva capito al momento dell’abiura, uscendo dall’ermeneutica dei funzionari del Partito, è che il “Capitale” ha un sottotitolo, “Critica dell’economia politica”. Lo ha sempre avuto, ma Lenin aveva detto che bisogna leggere “Critica dell’economia politica borghese”. No, Marx critica l’economia politica come scienza in sé borghese, cioè contabilistica. Molto rivoluzionario, ma è von Hayek, non palloso.
Il feticismo delle merci, l’alienazione nella vita e nel lavoro, questo lo eccitava – oggi lo avrebbe fatto impazzire: la condizione umana. È tutta qui la teoria del valore. Il plusvalore è la “realtà capovolta” rispetto agli elementi originari della produzione, la terra, il capitale, il lavoro, ma è realtà non disprezzabile, se non invenzione miracolosa. Quanto al popolo, non a Marx, è all’intellettuale che piace, creatura del romanticismo fumoso, che pensa di farsene guida – la volontà del popolo. Gramsci lo sapeva: “In Italia il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari”. Gentile o Pareto, l’Italia è “Machiavelli dopo Marx”, direbbe Noventa, liberale e socialista pentito.
“L’appello ai principi immateriali è il rifugio della filosofia pigra”, questo lo dice Kant visionario. Che però ammonisce: “Il materialismo, se ben si considera, uccide tutto”. Ma i comunisti sono con Marx finora le sole vittime del Diamat, al cui gioco vince il capitale, quintessenza della materia. Lo spiega Arthur Rosenberg, l’apostata: “La concezione materialistica della storia è l’applicazione della critica dialettica a tutti i fenomeni del vivere umano. Tutti i valori, in ogni campo, sono pesati e riscontrati troppo lievi. Ma il fatto di confutarli nei libri non basta a bandire dal mondo lo Stato e la legge borghese del salario. Gli oggetti dell’analisi non diventano chimere per il fatto di essere criticati: non viene abolita l’aria perché il chimico scopre gli elementi da cuii essa è costituita. La polizia dello Stato borghese e la cassaforte del capitalista sono amare realtà”.
Marx la storia passatista di Hegel ha rivoltato verso l’avvenire. Ma quale? Già a fine secolo il Margarethenhöhe, il quartiere operaio dei Krupp a Essen, che pure sono antipatici, era l’invidia dei ricchi di Roma. Nobilitare il popolo è quello che voleva Luigi XVI. Ma, si sa, direbbe Balzac, “tutti i montoni vorrebbero essere leoni”. E perché il notaio Balzac sarebbe reazionario, lui che, per esempio, sapeva che la ricchezza moderna si basa sulla miseria della campagna, della periferia del mondo – “il prezzo delle derrate di prima necessità fissa il prezzo del salario, e il prezzo del salario regge quello dei prodotti”: la ricchezza “riposa da cima a fondo sull’eccessiva sobrietà, sulla miseria, diciamo la parola, dei contadini”?
Crocefisso dal Diamat
Alcuni pensano, dice Lévi-Strauss, che il marxismo è una furbata in fo-ma di ragione per occidentalizzare il mondo. Non è vero. Ma è vero. “Marxismo o rivoluzione?” titolava Massimo Scaligero nel 1968 – un esoterista, ma non nelle nuvole. Lo diceva non per ridere, non per la “colonizzazione dialettica” che si faceva in Cina, né per il “conservatorismo di sinistra” di Togliatti. Rivoluzione è il cristianesimo, si sa, il messianesimo compiuto – gli ebrei se ne distinguono perché non credono in realtà al messia, non ne vorrebbero uno. Un messianesimo che parte da Treviri, la Terza Roma, invece che da Gerusalemme. La guerra che Cristo ha portato è il dovere del paradiso in terra. Più di Cristo Marx è vantone, vuole guerre, come se le avesse vinte in partenza, propone miracoli, e dà la certezza della salvezza. Anche se è più tollerante, un Cristo laico. Ma il Diamat lo ha crocefisso, e senza resurrezione, lo tiene lì in croce.
Il problema di Marx è, si sa, il marxismo-leninismo, di cui non ha colpa, l’ideologia. Contro la miseria di chi la vuole sovrastruttura – ma struttura e sovrastruttura sa di mobili e soprammobili, non ne sarà un calco? L’ideologia ha la forza dell’immaginario, Althusser ha ben vissuto anche se solo per dirlo. Dei facitori di parole, i demagoghi, i buoni scrittori anche, e Marx lo è in grado eccellente. La buona scrittura sarà onesta ma per interna coerenza, sul metro della sfuggente verità un po’ simula sempre. Marx, che fu capopartito, lo sapeva, una parola ben detta vale più d’ogni verità, e lo sapevano le sue vittime, che le storie del socialismo faticano a redimere: c’è una verità della fede indigesta a ogni logica.
Il Diamat confonde la realtà e la dialettica. Mentre una distinzione c’è. Marx distingueva proprio questo: le contraddizioni capitalistiche sono dialettiche ma non reali, meno che mai inevitabili, che stronzata. Non è più materia di contesa, lo ha riconosciuto da ultimo pure Colletti – “una filosofia che pretende uno status superiore a quello della scienza è una fi-losofia edificante, cioè una forma scarsamente mascherata di religione”. Mentre emerge il sospetto che al mercato si trovino più grano, più viaggi, più atomiche, più medicine, più minigonne, e più cura. “Meglio liberi che ricchi”, dice von Hayek, liberale Nobel tardivo, ipocrita forse precoce. Ma c’è di peggio: la libertà produce più ricchezza – e l’ingiustizia è più o meno uguale. Viene il sospetto che si è ricchi perché si è liberi. E vale perfino il contrario: più si produce ricchezza e più si è liberi, che si è liberi in quanto si è ricchi. La ricchezza certo non è tutto. Ma è niente?
(continua)

Liberarsi col sex-appeal

“In molti campi, oggi, il «fattore umano» ha perso la sua importanza” - oggi era sessantanni fa. , Brigitte Bardot lo riaffermava, per la penna consolatrice di Simone de Beauvoir, la teorica del secondo sesso.
Letto oggi, il saggio (si presenta dome “dialogo”, ma è un saggio), è affascinante perché
improponibile. Non solo il politicamente corretto ma lo stesso femminismo 1960 di cui Simone de
Beauvoir fu precursora non lo consentirebbe. Si poteva essere donna allora, anzi “Il sogno erotico di
milioni di uomini”. Tanto più che nessuna o quasi attrattiva particolare de Beauvour trova in BB: lo
sguardo è fisso sullo schermo, la dizione confusa, la bellezza da sartina… Nemmeno di gran
successo: “Et Dieu créa la femme”, il film dello scandalo, il primo, non incassò un terzo
dell’investimento. Ma la libertà si apprezzava, più del conformismo, e il fascino ancora esisteva.
Il saggio è stato scritto su richiesta di “Esquire”, che lo pubblicò nell’agosto 1959 come
“Brigitte Bardot and the Lolita Syndrome” – la rivista aveva chiesto a Simone de Beauvoir un
commento alla lettura di “Lolita”, che l’aveva colpita, lei rispose con BB. Brigitte Bardot faceva
anche lei un suo cammino di liberazione, certo con un altro appeal – senza rinunciare all’appeal, al
fascino.
Il testo senza le foto, con la copertina della vecchia traduzione di Lerici, 1960, è disponibile online.
Simone de Beauvoir, Brigitte Bardot, Ghibli, remainders, pp. 97, ill. € 6
http://www.kainos.it/numero8/disvelamenti/debeauvoir.html free online

martedì 12 dicembre 2017

Il mondo com'è (327)

astolfo

Bordello –Viene viene da bords, secondo il Petit Robert, “costruzioni di tavole”, ma la storia è notevole: cacciate da san Luigi fuori della cinta parigina di Filippo Augusto, le puttane costruirono le baracche, che i clienti battezzarono bords, da cui bordelières per le tenutarie, attorno alla vecchia strada di san Dionigi. Le nuove strade presero nomi di conseguenza: rue Gratte-Cul, ora Dussoubs, rue Tire-Boudin, ora Marie Stuart, rue Trace-Putain, ora Beaubourg.  

Debito – “ È la rendita degli italiani”, ghignava Carli non molti anni fa, ma non per irridere. Il debito ha ora cattiva stampa, siamo tutti, almeno in Italia e in Europa, siamo tutti virtuosi tedeschi, ma è stato a lungo filosofia e ideologia di mercato. Guido Carli è stato il governatore della Banca d’Italia, poi anche ministro del Tesoro, che più di ogni altro ha deciso la politica monetaria italiana fino a tutti gli anni 1980 – per oltre un trentennio, a partire da quando, dirigente dell’Ufficio Italiano Cambi e poi del Mediocredito, liberalizzò poco dopo la guerra gli scambi con l’estero – “Verso il multilateralismo degli scambi e la convertibilità delle monete” sarà il suo studio più citato. “Più cresce il debito, più crescono gli interessi che lo Stato paga”: Carli rovesciava la legge di Mandeville e Marx, Bernard de Mandeville, che i vizi privati dice pubbliche virtù, nella “Favola” con cui irride al Leviatano di Hobbes. Per un ritorno d’infantile insolenza, e una scommessa ragionata: la ragione è fede inattaccabile, fino al disprezzo del mondo.
È però un’ebrietà, il debito creatore, che si copia da Hitler. E da Roosevelt. Insomma dal dottor Schacht, l’ “inventore” della Germania solida e produttiva che sarà degli anni (pochi) di Hitler – alla cui scuola il giovane Carli aveva completato la formazione, figlio dell’economista Filippo, autorevole teorico dello Stato fascista o corporativo: spendere, spendere, spendere, a debito, a ufo.

Ma anche la riduzione del debito viene da lontano. Quando ce ne fu bisogno, Jefferson ridusse il debito d’un terzo, pur abolendo la tassa sul whisky. Allora poteva farlo, non c’erano le banche centrali a governare la moneta – istituzione che negli Usa rimane sempre sospetta. Così come aveva mandato la flotta nel Mediterraneo tagliando le spese della Marina.
Il Sud, specie la remota Calabria, risulta infeudato a una serie di nomi liguri, Grimaldi, Spinelli, Perrone, etc, , che erano i banchieri genovesi cui i re di Napoli presero il vezzo del Seicento di non ripagare i debiti. Se non con remote e ignote proprietà, del demanio della corona, di cui era nota solo l’estensione.

Lavoro - Il lavoro aliena, l’assicura Marx, che non ha mai lavorato, e se ne fa materia di dottorati. Dentro e fuori la ragione critica, come è invalso chiamare il marxismo con la Scuola di Francoforte. Travagliare viene del resto da tripaliare, torturare col tripalium, strumento dal triplice cuneo. Connesso nel Settecento a sofferenza e disonore, nell’Ottocento a povertà e sfruttamento.
Il lavoro è fatica: labor, ponos, da penia, travail, e Arbeit, che sarebbe la stessa cosa che Armut, la povertà. Lo dicevano i predoni, i cavalieri e i cacciatori, che passando alla terra se ne lamentavano. Ma l’idea bruta del lavoro è recente.
Il lavoro ha sempre occupato la maggior parte degli uomini, e delle donne. Il travaglio, spregiato dalle tribù in Asia, il Vecchio e il Nuovo Testamento fanno a gara a recuperarlo, seppure a fatica. Giobbe dice: “Essi sono nati per il lavoro, come gli uccelli per il volo”. Kant lo spiega: “Al di là della possibilità di lavorare c’è, indipendentemente da ogni stimolo e in legame stretto con certe disposizioni naturali, una propensione immediata all’attività, in particolare a quell’attività continua che si chiama perseveranza”. Né c’è altro contro l’invadente natura.
Il monaco di Gargantua era sempre indaffarato. Poi, nei collegi dei gesuiti, fucina dell’intellettuale, s’impiantò il disprezzo per artigiani, operai, contadini. Mentre Primo Levi assicura, avendo visto il peggio di tutto: “Amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta della felicità sulla terra. La competenza è un’esperienza di libertà, la più accessibile e la più utile all’umanità”.

Mass rich – La riforma fiscale di Trump non nasce dal nulla, come si dice. Da un capriccio del capriccioso presidente americano in carica. L’ex ministro del Tesoro Giulio Tremonti la vuole sul “Corriere della sera” domenica una riforma della globalizzazione, un nuovo assetto internazionale degli affari. Privilegiando l’investimento negli Stati Uniti, con tasse irrisorie sugli utili d’impresa irrisorie, è destinata a mutare gli equilibri internazionali degli investimenti, e della produzione. Una misura mercantilista, la dice Tremonti, mirata a favorire gi Stati Uniti a danno delle altre economie, in particolare quelle europee, che vanno incontro a un marcato disinvestimento.
Ma c’è anche una filosofia, dietro il fisco di Trum: quella dei mass rich. Che è di destra, ma anche di sinistra. La “crisi fiscale” degli Stati, che James O’Connor, l’economista marxista proto ambientalista morto il mese scorso, rilevava quarant’anni fa, annunciava che la giustizia sociale era finita, non essendovi più abbastanza soldi per tutti. Era, detto da sinistra, quello che Peter Townsend  diceva da destra, che i soldi residui devono andare ai ricchi, altrimenti diventano poveri anch’essi. E quando i ricchi diventano poveri, tutti impoveriscono. Anche Townsend era marxista, professo, militante, ma era l’inventore del concetto di “povertà relativa”,  fine anni 1950. La povertà legando non alla sopravvivenza, ma agli stili di vita: quando le entrare sono “così tanto al di sotto a disposizione di quelle dell’individuo o della famiglia medi da comportare, di fatto, l’esclusione dagli stili di vita, dagli usi, e alle attività ordinarie”. Alla impossibilità di condurre un tenore di vita soddisfacente.
Il premio Nobel per l’Economia del 1972,  John Richard Hicks, il teorico inglese del salario, professore alla London School of Economics, è autore già cinquant’anni fa di “The Politics of the Mass Rich”. Era ancora tempo di sviluppo senza limiti.
Poi hanno avuto il sopravvento i maltusiani, con i limiti alla crescita. Ma anche qui con limiti (benefici) per i ricchi. Fred Hirsch teorizzava nel 1977 “I limiti sociali allo sviluppo”, anche lui con Marx, rovesciandolo ancora: la ricchezza non è per tutti, l’imborghesimento indebolisce la redditività del capitale e mina il suo fondamento sociale, la ricchezza non può essere democratizzata.

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Il fantasma di Carlo Marx – 2

astolfo

Rosa Luxemburg trovava il primo libro, “tanto apprezzato”, del “Capitale” “finemente lavorato, rococò, à la Hegel”. Marx avrebbe sottoscritto la critica. Non aveva orecchio e in traduzione viene meglio – con “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, la versione italiana invece di quella sorda originale, si sarebbe potuto dire che anche Marx cominciò con un endecasillabo, lo scattante pentametro giambico di Dante. Sarà stato un brillante filosofo a ventisette anni, poi per altri quaranta un giornalista e agitatore politico. Non era facile, il valore economico è recente, fino a Hobbes non c’era un’assiologia dei beni. E a Marx si è fermato: non c’è una teoria del valore successiva, del valore come lavoro – in italiano è perfino anagrammatica. I suoi critici capitalisti ne ricalcano i fondamentali. Ma la critica del capitalismo è reazionaria: i reazionari prima di Marx, e con più veemenza, criticano il capitalismo, il mercato dei soldi.
Contro lo Stato
Marx riderebbe del Diamat, una cosetta scientista, positivista, e del sistema moscovita della proprietà statale dei mezzi di produzione, o del partito unico, una forma come un’altra di dittatura. Curando nel 1970 la voce “Scienze Politiche 1” dell’Enciclopedia Feltrinelli, intitolata «Stato e politica», Negri ne escluse lo Stato: c’è Stato pianificato, sovietico, nazionale, di diritto, eccetera, ma non Stato. Non si saprebbe ovviare. Sono tanti i motivi per cui lo Stato manca, il principale è, Negri diceva, che è alienazione e distruzione: “Una realtà che l’uomo nuovo, prodotto dallo sviluppo capitalistico, che sa natura e storia non come nesso oscuro ma come sua propria realtà, costruita e sofferta nel lavoro, e nello sfruttamento che l’organizzazione del lavoro determina, sente come un’impostura da distruggere, distruggendo tutte le forme attraverso le quali lo Stato si fa dominio”. Toni Negri ha il merito di non dirci “figli di Marx e della Coca Cola” – a tanti  la Coca Cola non ci piace. Ma pure Kipling ha un’ode al lavoro, a quello che “ci annienta”, e alla fine si resta confusi: è dunque meglio lavorare che non lavorare? Il lavoratore crea, lo Stato distrugge, ma se ci siamo liberati non sappiamo che fare.
Marx non ne ha colpa, lui il suo lavoro l’aveva completato, chiedendo di abbattere lo Stato. La verità sul fondatore del comunismo è un’altra, che è inutile tacere. Che è stato il socialismo a indurre e generalizzare l’idea del possesso. Flaubert l’ha visto nel ’48, la rivoluzione della libertà, guardando le barricate da lontano, e l’ha dettagliato vent’anni dopo nella sua Educazione sentimentale che invece è politica. A un certo punto i socialisti si smarcarono dai liberali, che ne furono atterriti e si segregarono. “Allora”, dice Flaubert, “la Proprietà montò nei rispetti al livello della Religione e si confuse con dio. Gli attacchi che le si portavano parvero sacrilegio, quasi antropofagia.”
Ode al lavoro
Ma è vero pure il contrario: se la identità è definita dal possesso, non si può più negare che il socialismo è una forma completa di liberalismo, non limitato cioè alla borghesia. Non solo come formula politica, poiché al socialismo è essenziale la libertà, l’uguaglianza è la realizzazione della libertà. Ma proprio dal punto di vista economico, dei mezzi di produzione, il capitalismo producendo più ricchezza per il più gran numero, più opportunità quindi per il proletariato, e più tempo libero per tutti. Anche per scrivere o ricamare, il lavoro intendendosi occupazione onorata e dovere civico e non sfruttamento.
Per questo anche Marx resta vivo. O redivivo, se è Cristo – se era ebreo si è convertito. Per il dovere del paradiso in terra, per la giustizia. Fedele di Hegel, fu per questo condotto a mali passi dalla Riforma. Se Dio fosse nel processo di negazione e oltrepassamento, allora sarebbe un serial killer: una cosa è o non è. Lo vede ognuno che l’io protestante, o idealismo, è l’umiliazione dell’individuo, per quella rivolta contro l’oggetto che è invece il soggetto, una moltitudine di soggetti, mai riducibili a oggetti, anche perché lavorano insieme alacri per approfondirsi e moltiplicarsi, cosa di cui il Vaticano e la chiesa sempre sono stati al corrente. Mancò dunque l’occasione di mettersi col papa e sciogliere per sempre  il nodo della socialità - individuo, classe, Stato - ma può ancora recuperare.
Vittoriano, realista
Superato Marx lo è certamente, in quanto fu vittoriano. Sottolineava le parole, e le virgolettava, con la stessa enfasi della regina Vittoria. Mentre la nobile moglie Jenny prendeva gli appunti e copiava per lui. Comprò il piano per le figlie. S’innamorò di una ragazza Bismarck e altre principesse giovani. Sedeva nella sala di lettura del British Museum accanto ai Sobieski Stuart, che vi avevano un seggio di diritto, essendo stati dichiarati eredi della defunta dinastia - a Londra si celebravano all’epoca le dinastie, ogni sorta di dinastie. Fu membro all’università del Borussia, che diventerà il circolo dell’elmo chiodato. Capiva le ragioni dell’impero, e mai lavorò, facendosi mantenere dai compagni e da Engels. Un vit-toriano simpatico: non frustava le donne che s’immaginava di scopare.
Di Rosa vale ricordare che Lenin l’apostrofò a cose fatte: “Accade a volte alle aquile di scendere perfino più in basso delle galline, ma mai alle galline di salire al livello delle aquile”. Era un complimento, ma dopo una dura polemica. Ed era una condanna per gli altri, “tra i mucchi di sterco nel cortile di dietro del movimento operaio, le galline tipo Paul Levi, Scheidemann e Kautsky che scacazzano intorno alla grande comunista, ognuno fa quello che può”. I compagni possono essere i peggiori nemici. In Germania la chiamavano “Rosa la sanguinaria”, i compagni del Partito presto allineato, lei che viveva come una cinciallegra.
Di suo Marx era ed è realista, della borghesia sapendo che non può non rivoluzionare di continuo gli strumenti della produzione, e quindi i rapporti di produzione. E ha risolto l’incoerenza del pensiero liberale: il progresso va coordinato con l’esaltazione della storia di Hegel, il regno della libertà è nella società senza odio, classi, sfruttamento. Il liberalismo legando ai lumi. Superbo alfiere della ragione, tanto più in tempi di decadenza, benché non abbia letto Tocqueville, e neppure tutto Hegel, là dove anticipano Heidegger, “solo un Dio ci può salvare”. Se un rimprovero si può fargli è di non aver letto Belle van Zuylen quando rimbecca Diderot, che la religione voleva ridotta a sovrastruttura delle classi dominanti. Anche se le classi dominanti, si sa, più intelligenti in questo di Marx, di solito non trascurano la religione, che è l’esercizio più sublime dell’immaginazione. “Un Dio s’incontra nel reale”, dice bene Lacan.
(continua

La chiesa si ritira nel sociale – una onlus

È il primo “Discorso alla città” del nuovo arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini. Per le festa di sant’Ambrogio il 7 dicembre, il giorno dell’orgoglio milanese, con la Scala e tutto.
Delpini, scrittore amabile di aneddotica parrocchiale, si tiene basso, come il papa argentino che lo ha voluto a capo della chiesa ambrosiana – non l’uomo di dottrina e autorevolezza ma il pastore di anime. “Voglio fare l’elogio dei sindaci”, dice. “Voglio fare l’elogio delle forze dell’ordine”. “Voglio fare l’elogio degli insegnanti e dei dirigenti scolastici e del personale della scuola”. “Voglio fare l’elogio degli operatori nei presìdi sanitari e nei servizi sociosanitari domiciliari (come l’assistenza domestica, l’assistenza domiciliare integrata e le cure palliative a casa), dei vigili del fuoco, della protezione civile, delle istituzioni presenti nei diversi territori....”. E in generale fa “l’elogio delle istituzioni contro il rancore”: “gli assistenti sociali, i custodi sociali e sociosanitari, i giudici di pace, i soldati dell’operazione strade sicure, gli operatori che presidiano le vie e gli angoli della città, assistendo i clochards del giorno e della notte…”. Nonché le onlus, “le tante associazioni e strutture cooperative che creano una rete di attenzione e solidarietà spesso poco notata ma essenziale nel creare coesione e nel dare spessore alla trama dei legami....”.
Sociologia spicciola, debole, dell’ovvio. Per “un’arte del buon vicinato” si direbbe programma minimo.  Ambizioso, collegandosi alla figura di Ambrogio, e molto elogiato. Ma più per l’approccio pubblico che il neo arcivescovo ha voluto imprimere alla sua omelia. Ambrogio è lontano, un’altra chiesa. “Se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?” ne è la sintesi in copertina. Debole sintatticamente e fattualmente. Di una chiesa non più maestra, se non del vivere civile, come ogni buona associazione. Che peraltro confina nell’accoglienza ai migranti, un fatto mediatico. Una chiesa reggimoccolo, raccattapalle. La proposta si richiama alla chiesa come comunità dei fedeli, ma quanto lontana da un vero spirito comunitario: remissiva, residuale.
Mario Delpini, Per un’arte del buon vicinato, Centro Ambrosiano, pp. 32 € 2

lunedì 11 dicembre 2017

Il fantasma di Carlo Marx

astolfo

Ha dell’incredibile, per essere passato inosservato per i centocinquant’anni del “Capitale”, questo 2017, mentre non si annuncia niente per il 2018, per i duecento anni della nascita, a maggio. È un segnale della senescenza dell’Europa, la perdita della memoria. Di un personaggio peraltro determinante per la sua storia, la storia dell’Europa, per altrettanto, almeno un secolo e mezzo. L’ultima, probabilmente, proiezione dell’Europa sul resto del mondo, dalla Manciuria alla Terra del fuoco. E a lungo ferace anche negli Usa, che se ne penserebbero vaccinati. Come ragione critica, l’eufemismo per marxismo di Horckheimer, Adorno, Marcuse e Brecht, per non turbare, quinte colonne tedesche, gli ospitali americani alla vigilia della guerra.
Bravo borghese
Marx è anzitutto una persona, la prima cosa che di lui si è dimenticata, quando era in auge. Il lavoro aliena, assicura, lui che non ha mai lavorato, Uno che conduceva una vita borghese, col piano per le figlie, e l’aiuto domestico, eventualmente da ingroppare, sempre senza lavorare. Marx era per formazione e inclinazione un borghese, andava pure al casino, una volta con Engels presero lo scolo dalla stessa puttana.
Si deve anche – ancora - fare giustizia di tanto Diamat volgare, che si dice marxismo-leninismo, ma né Marx né Lenin erano stupidi, e Marx non si faceva illusioni. La Germania, secondo lui, nel 1870 si difendeva, incoronandosi a Versailles. Nella prefazione alla prima edizione del “Capitale” elogia il liberalismo inglese. Marx di scientifico ha l’utopia, la politica la rifiuta, e con essa, anche se non lo sa, l’economia. Mentre lo Stato si caricava a Occidente di cassa malattie, pensioni e mutui. E i padroni capitalizzavano cinque secoli di ottimo pensiero politico, Machiavelli, Hobbes e Grozio, Locke, Hume e Kant, Burke, Constant e Tocqueville, e si appropriavano Weber, Pareto, Kelsen e Schumpeter, oltre allo stesso Marx.
Non bisogna però equivocare, non c’è infamia nel volere il pianoforte per le figlie. Il rifiuto del ruolo, per l’uguaglianza del merito e una vita da vivere a ogni istante, non è la realtà o la contemporaneità, e non è Europa, semmai è America. In Europa tutti vorrebbero una moglie nobile, la ca-sa in Toscana o in Provenza, con contadino, da guardare da lontano come il vecchio feudatario, e i ricevimenti del Gattopardo coi gelati squagliati, il rifiuto della buona borghesia è assillo borghese, un’ideologia.
Marx voleva un’altra cosa, e lo disse subito, stabilendo nella Miseria della filosofia che cosa non andava. Non era contro i borghesi per i proletari. Cioè sì, ma contro la stupidità di chi vuole produrre la ricchezza a mezzo della miseria, dei proletari e sua. “Negli stessi rapporti entro i quali si produce la ricchezza si produce altresì la miseria”, a opera degli stessi: “Questi rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a patto di annientare continuamente la ricchezza dei membri che integrano questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato sempre crescente”. Grandi palle alzava Marx ai borghesi intelligenti, anche solo poco. A Ford, per dire, quand’era sobrio dall’antisemitismo. E non si può fargliene una colpa. Il gregge è il corpo del pastore, ne è l’estensione, il formicaio lo è delle formiche, l’alveare delle api: ne estende il corpo e la mente, per i pascoli e oltre, nella lunga giornata senza tempo, nella transumanza. La fabbrica lo è dell’operaio, l’azienda dell’impiegato, il lavoro del lavoratore. È una condizione antropologica, non una classe. Marx non lo sapeva perché non lavorava.
Contro il proletariato
Il problema con Marx è che voleva eliminare il proletariato. Mentre nel suo nome si è lottato per farlo trionfare. Il proletariato, i servi cioè retribuiti. È per forza che è morto da tempo. “Appena Marx ebbe chiara coscienza del proprio sistema”, dice Rosenberg l’antichista, comunista senza partito, “dovette cercare gli operai”. Al British Museum non ce n’erano, e Marx non ha mai conosciuto un solo operaio. Gli stessi comunisti egli disprezzava eccetto Engels, di cui è nota l’opinione sui partiti: “Che importa a noi, che sulla popolarità ci sputiamo, e che perdiamo la testa appena cominciamo a diventare popolari, di un partito, cioè di un branco d’asini che giurano nel nostro nome perché ci credono loro pari?” Incoercibili politicanti in realtà entrambi. Specie Marx, che per primo non credeva alle leggi dell’economia, che sapeva falsate da autodidatta, e della storia. E la vita spese a costituire la sua fazione, contro ogni altro socialista e comunista prima che contro la polizia segreta prussiana.
Sapeva riconoscere un nemico, questo sì. Per questo eresse un monumento al capitale, con la proposta di arrestare la storia e la filosofia, l’impercettibile ma costante mutamento attraverso cui l’uomo esce dalla sua pelle, con gli amori, il lavoro, la generazione, la convivialità, nell’arte, canti, balli, racconti, silenzi, e negli elementi, la terra, il legno, la pietra, il ferro.
Si fa presto a dire Marx, ma che dice lui, e che rivoluzione ha organizzato, che partito, che sindacato? Bisognerà aspettare Lenin per avere una rivoluzione marxista, di borghesi cioè con la classe operaia. I libri e le sue innumerevoli lettere sono frammenti. Il cui filo non può essere la struttura, cioè il potere secondo il Diamat: il lavoro produttivo è sovrastrutturale, un qualsiasi esperto di mercato lo sa. Altrimenti è un comunismo da schiavi: non può “realizzare l’uomo” se elimina ogni spazio comune. Ed è la verità della sua prima rivoluzione, in Russia, paese di servi, e non in Germania, dove c’era la più vasta e organizzata classe operaia e il contesto era maturo, per la crisi dell’economia e dell’imperialismo.
I lavoratori tedeschi vollero anzi ridare ai borghesi il potere che la guerra perduta aveva loro sottratto. L’astronomo olandese Pannekoek - che ne sapeva più di Lenin, disse lo stesso Lenin - scoprì subito pure perché: in una società integrata, che viene da lontano, egemonie e sudditanze si legano per molti fili, culturali, storici, tribali. Non maturano solo i processi produttivi, di più ma-turano e anzi induriscono le ideologie, e si dovrebbe dire le psicologie.
Ironico, liberale
Era amante del paradosso, benché a fini di conoscenza. La banca è l’arma dei poveri, sostenne con Engels nel 1851, quando Proudhon, l’amico dei socialisti italiani, voleva abolire la banca. È come se desse tutto ai borghesi ricchi, obiettava Marx. Vide anche tempestivo i misfatti della rivoluzione industriale, Smith e Ricardo, che la teorizzavano, non seppero di esserne i contemporanei.
Marx era superbo, in questo è reo. Ironico: per un Witz avrebbe dato il “Capitale”. In tutti i rapporti, anche familiari, il criterio della verità diventa per lui distacco critico: io e gli altri. È la forma più esasperata di egotismo, limitare alla misantropia, il fastidio dell’umana imperfezione. Marx era uno che capiva una diecina di lingue, corrispondeva con migliaia di persone, leggeva i giornali di tutto il mondo. E non ha mai fatto la fila per il burro, benché disoccupato.
Marx non è un semplice che lega la rivoluzione alla crisi – né un Andreotti che governa “a mezzo della crisi”. Oppure è liberale oltre che grande borghese, inconsapevole: snobbò Eugène Sue, “piccolo borghese sentimentale, socialista della fantasia”, candidato dai socialisti “per far piacere alle grisettes”, perché era liberale. Chiudendo il “Manifesto”, alla vigilia del ‘48, offre un’alleanza ai borghesi, l’alleanza dei produttori, ro-ba da Saint-Simon. La “Neue Rheinische Zeitung”, il giornale che fondò e diresse nel ’48, non spiacque ai borghesi renani, nell’intento che ritenevano condiviso di sottrarsi al Congresso di Vienna di Metternich, che li aveva annessi alla Prussia.
L’ironia è il suo lato simpatico, oltre che una grande dote conoscitiva, socratica. Ma è il virus che ne mina la dottrina. Il cristiano si riscatta al confessionale, per quanto ipocrita possa la confessione cristiana essere, il comunista non può pentirsi mai. Pena l’ipocrisia, che è malvagia. Inoltre, ironizzare porta all’insensibilità, non a più conoscenza. Attraverso lancinanti ulcere o gialle epatopatie - soffriva Marx di fegato? Vladimir Nabokov lo vede in aspetto di “traballante e bisbetico borghese in calzoni a quadretti di epoca vittoriana”, il cui “cupo Capitale è “figlio dell’insonnia e dell’emicrania” – ma Nabokov ne condivide il sarcasmo, con punte snob perfino più acute, anche se non sembra possibile.
Come l’altro monopolista Freud, che molta buona psicologia ha oscurato, Marx ha per questo vezzo cassato molto socialismo, alle sue radici: la compassione. Su Sue bisogna intendersi, Marx è ingeneroso, come a volte lo è il destino. Uno che aveva avuto padrini di battesimo Giuseppina di Beauharnais e l’Aiglon, il principe Eugenio, che passava le serate al Jockey Club, e nel 1850 si fece candidare per battere la legge Falloux, che aboliva la scuola pubblica, e in qualche modo ci riuscì, Parigi lo elesse – l’anno dopo Luigi Napoleone Bonaparte lo esiliò, e in nessun posto poté andare per l’opposizione dei preti, solo in Savoia, sotto la protezione del governo liberale di Massimo D’Azeglio, dove presto morì.
Contro il lavoro
Non solo in Ford alla fine, e in Owen all’inizio, ma nella Cadbury, alla Rowntree e in ogni altra azienda quacchera, in molte società cattoliche e in quelle socialiste del mutuo soccorso l’Ottocento ricorreva al lavoro per migliorare l’igiene e l’istruzione, o il rispetto di sé. Finché il lavoro non fu disseccato nel plusvalore. Le critiche presto erano emerse con Eduard Bernstein, e poi con Rosa Luxemburg - la nuova sinistra si trasforma in vecchia sinistra ai quarant’anni. Semplici, Marx le avrebbe sottoscritte: il moderno proletario è sempre povero ma non pauperizzato, la crescita della ricchezza non viene con la diminuzione del numero dei capitalisti ma con la loro moltiplicazione – si potrebbe fare un partito di massa dei ricchi, non fossero tanto ricchi da farsi passare per poveri. E lo slogan “i proletari non hanno padri” non è vero, purtroppo. Ma questo era contro l’interesse del Partito a farsi Stato. Senza contare che lo stesso successo delle sue idee ne inficia il presupposto, l’economicismo.
Marx fu marxianamente figlio del tempo, gli anni fra il 1851 e il 1862, quando rintanato nella biblioteca al British Museum ponzò i quattrocento articoli per la “New York Tribune” e la “New American Cyclopedia” e la critica dell’economia, mentre i tribunali disgregavano il comunismo e la corsa alla ricchezza subentrava con la pace alla scoperta dell’oro in California. Più forte del 1789 e del 1848, più esperto anche dei diritti di libertà e miglior filosofo. Benché pure il contrario sia vero: Marx l’Europa potrebbe aver corroso nell’intimo, Stalin non esce dal nulla.
(continua)