Meno
25 mila copie “la Repubblica”, che va verso le 150 mila media quotidiane, meno
10 mila il “Corriere della sera”, che va verso le 190 mila giornaliere, la
crisi di vendite si è accentuata nel 2017 per i giornali – i due maggiori quotidiani partivano
dieci anni fa da oltre 600 mila copie vendute al giorno.
Colpa
delle nuove abitudini di lettura, si dice. Ma la colpa è soprattutto dei giornali
stessi, ognuno lo vede, se ancora li compra. Infarciti di roba inutile e anche
dannosa: decine di pagine di politica per illustrare i potenti, e di inserti
pubblicitari mascherati (moda, maschile, femminile, salute, viaggi, arredamenti,
cucina). Roba che non interessa nessuno. E che, se è pubblicità, perché comprarla? È la fine del giornalismo si può dire, autoindotta più che imposta dal
mercato.
Se
il minacciato dissolvimento della Rai, che i 5 Stelle e la Lega agitano, si concretizzerà,
sarà allora anche la fine materiale della professione. La fine cioè delle
istituzioni che materialmente ne garantiscono l’autonomia: la cassa pensione e
la mutua sanitaria. Di cui la Rai è il massimo e anzi decisivo contribuente.
Il
mestiere è già imbastardito. Niente più praticantato, selezione, controllo. Niente
più caccia alle notizie. La notizia è quella che la fonte vuole, banchieri, affaristi,
mafiosi, giudici, politici. O degli uffici stampa, istituzionali ministeriali, aziendali. Il giornalista è giù
un pubblicista. Nel senso proprio del termine: fare pubblicità.
La
professione torna alle origini, agli “avvisi” e ai “novellanti”. Che nel
Cinquecento facevano la giornata fornendo “avvisi” segreti alla gente di
denaro, mercanti,
banchieri, principi e cardinali. Chiacchiere, indiscrezioni, gossip. La notizia merce.
Nessun commento:
Posta un commento