Non sono passate due generazioni dalla
fine del padre, insieme col maschio, che siamo già alla fine della madre. La
notizia non è nuova, i generi non esistono più da tempo. Ma sono cessati, con
la grammatica e l’ideologia nuove, anche la storia e il ruolo, la storia e
l’avvenire del ruolo: la donna era famosa per generare, ora non più.
A differenza del padre, cancellato come maschio,
la madre resiste come femmina, ma come fattrice, non più come donna. L’utero in
affitto è opzione irresistibile. Ma oltre che del fascino dell’esclusiva
materna, fa perdere alla donna la stessa funzione. È ancora fattrice, ma al
livello basso dell’animalità. Viene da dire al livello della gatta o della
mucca, ma ancora più basso – gli animali fanno dei “figli”, li accudiscono, non
li partoriscono per i macelli o le gioie domestiche. La maternità surrogata, la
ricetta del futuro, è un’animalità limitata, per quanto remunerata.
È finita la madre perché è finito il concetto
di figlio. Si parla adesso di astratta genitorialità, nota la storica. E di un “diritto
al figlio” come a un qualsiasi oggetto. Come obiettare a una “civiltà dei
diritti”? Scompare la madre, dopo il padre, per una deriva inarrestabile della
ragione. O della ragione presa al suo laccio – la ragione democratica, che va a
due cavalli, anche se a quattro cilindri.
Lucetta Scaraffia, La fine della madre, Guanda, pp. 154 € 12,50
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