La solitudine nella grande famiglia, nella
città-madre – sono materni alla prima scena anche i “femminielli”. Sotto
l’ombra della morte: la bambina rimasta sola per
uxoricidio(ominicidio)-suicidio, fa di mestiere il medico legale, in un lurido
obitorio negli scantinati, perde l’uomo del destino, subito dopo la notte
d’amore, la prima e l’unica della sua vita, ai quarant’anni, perde l’amico, genio
buono della napoletanità, perde pure la maga, che non le voleva male. Cesserà
di sezionare cadaveri, e sposerà un brav’uomo, vedovo, con un figlio, che fa il
poliziotto. Senza trasporto, come è vissuta. Ma dopo un caleidoscopio
trascinante di visioni.
Un omaggio a Vittoria Mezzogiorno, che
regge tutto il film, scena per scena. E a Napoli, di cui la vicenda della
protagonista è paradigma. Mostrata sontuosa, in esterni e in interni. Rutilante
di colori, arredamenti, conversazioni, parentele, affettuosità. Che sono la
vera storia del film – amore e morte non è un
soggetto propriamente nuovo. Che Özpetek racconta da maestro del genere,
fin dalle sue prime prove, “Hamam” e “Harem Suaré”.
Napoli è velata non per quello che si
pensa. Ozpetek la assomiglia alla sua Istanbul, per essere insieme aperta –
accogliente – e misteriosa. Ma il film è di donne e sulle donne, altrettanto
misteriose e aperte. Il “velo” di Özpetek significa che per capire quel mondo,
per quanto esibito, bisogna “intravedere più che sentire”. Il titolo si
giustifica anche per la scena finale, una delle tante fastose che scandiscono il
film, alla presenza del “Cristo velato” nella cappella Sansevero.
Lo spettatore forse intravederebbe di più
di quello che sente se le parti protagoniste, soprattutto Alessandro Borghi, ma
anche Mezzogiono, recitassero invece di parlarsi addosso, per di più in
napoletano stretto. Le altre parti, tutte di grandi attori di teatro (Barra,
Bonaiuto, Sastri, Ranieri, Calzone, etc.) fanno capire tutto, e da napoletani “più
veraci”.
Fernan Özpetek, Napoli velata
Nessun commento:
Posta un commento