giovedì 11 gennaio 2018

I misteri di Napoli

La solitudine nella grande famiglia, nella città-madre – sono materni alla prima scena anche i “femminielli”. Sotto l’ombra della morte: la bambina rimasta sola per uxoricidio(ominicidio)-suicidio, fa di mestiere il medico legale, in un lurido obitorio negli scantinati, perde l’uomo del destino, subito dopo la notte d’amore, la prima e l’unica della sua vita, ai quarant’anni, perde l’amico, genio buono della napoletanità, perde pure la maga, che non le voleva male. Cesserà di sezionare cadaveri, e sposerà un brav’uomo, vedovo, con un figlio, che fa il poliziotto. Senza trasporto, come è vissuta. Ma dopo un caleidoscopio trascinante di visioni.
Un omaggio a Vittoria Mezzogiorno, che regge tutto il film, scena per scena. E a Napoli, di cui la vicenda della protagonista è paradigma. Mostrata sontuosa, in esterni e in interni. Rutilante di colori, arredamenti, conversazioni, parentele, affettuosità. Che sono la vera storia del film – amore e morte non è un  soggetto propriamente nuovo. Che Özpetek racconta da maestro del genere, fin dalle sue prime prove, “Hamam” e “Harem Suaré”.
Napoli è velata non per quello che si pensa. Ozpetek la assomiglia alla sua Istanbul, per essere insieme aperta – accogliente – e misteriosa. Ma il film è di donne e sulle donne, altrettanto misteriose e aperte. Il “velo” di Özpetek significa che per capire quel mondo, per quanto esibito, bisogna “intravedere più che sentire”. Il titolo si giustifica anche per la scena finale, una delle tante fastose che scandiscono il film, alla presenza del “Cristo velato” nella cappella Sansevero.
Lo spettatore forse intravederebbe di più di quello che sente se le parti protagoniste, soprattutto Alessandro Borghi, ma anche Mezzogiono, recitassero invece di parlarsi addosso, per di più in napoletano stretto. Le altre parti, tutte di grandi attori di teatro (Barra, Bonaiuto, Sastri, Ranieri, Calzone, etc.) fanno capire tutto, e da napoletani “più veraci”.
Fernan Özpetek, Napoli velata

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