Bistecca
sintetica – Evgenij Zamjatin, lo
scienziato scrittore russo di un secolo fa, aveva già la bistecca sintetica”
derivata dal petrolio”. In “Noi”, il romanzo dello Stato Unico. Era il 1920 ma
il suo Stato Unico Zamjatyn, comprese le proteine petrolifere, proiettava verso
il Tremila. Mentre lo Stato italiano, con la chimica dei “pareri di
conformità”, messa su da Andreotti negli anni 1970, e cioè con le sovvenzioni
pubbliche, ci puntò con un investimento da un miliardo di euro in lire, a
beneficio della Bp, la British Petroleum, e del suo socio italiano Raffaele
Ursini, un uomo d’affari di Reggio Calabria che aveva rilevato la scatola vuota
Liquigas-Liquichimica, con sede in Svizzera. Per la bistecca sintetica fu realizzato
un porto e costruito un impianto a Saline Joniche, che non hanno mai funzionato
– i 400 dipendenti dell’impianto sono andati in pensione di anzianità senza
avere lavorato un solo giorno.
Emigrazione
politica. Divide le opposizioni invece di
unirle. I singoli come le forze politiche. C’è poca solidarietà fra gli
emigrati politici. E c’è concorrenza tra le forze politiche spinte all’esilio,
che l’inattività acuisce. Tra gli émigrés
della rivoluzione francese. E tra le forze Bianche che combatterono l’Armata
Rossa. Tra i mazziniani della Giovane Italia, in Francia e in Svizzera. I cileni
in Italia, dopo il golpe di Pinochet nel 1973, restarono divisi tra comunisti e
democristiani. Gli emigrati politici brasiliani a Parigi a cavaliere del 1970
si caratterizzavano per le lotte intestine. Lo stesso per gli italiani in
Francia tra le due guerre, diversi e divisi per partito o gruppo.
Sul piano individuale la divisione fu molto visibile tra
i tedeschi negli anni di Hitler, tra emigrati tedeschi ed ebrei, tra gli ebrei
tedeschi tra di loro, tra i tedeschi tra di loro. Thomas Mann non riceveva Schönberg
a Pacific Palisades, ma non parlava nemmeno con Brecht. Difficile trovare
contatti, peraltro, anche tra gli italiani esuli in Usa, tra Fermi per esempio
e Prezzolini.
Germania-Italia – La
“latinità” ritorna periodicamente in Germania – anche come “mediterraneità”, in
un’accezione più larga, più degna di disprezzo – come rifiuto, per un ritorno
alla “germanicità”. Parte della “questione ebraica”.
I due mondi, il germanico e il latino,
sono compenetrati, lo sono sempre stati nella storia, il tedesco delal selva è
preistoria, ma non nell’inconscio tedesco. Nell’opinione media o comune che la
Germania si fa di se stessa, da quando si è riunificata un secolo e mezzo fa in
un’ottica di potenza, quella della casa reale di Prussia.
Ma il germe del disprezzo viene da più
lontano, o da profondità oscure, in un groviglio inestricabile di impulsi. Di
cui Thomas Mann, che pure aveva una formazione e una proiezione cosmopolite, rilevava nel 1937, nella conferenza “Il
problema dell’antisemitismo”, il nodo forse più corposo in questi termini: “La
Chiesa Cattolica, signore e signori, ha forse ben ragione quando, per
affrontare certe idiozie e rozzezze anticristiane, oggi spiega: solo con l’adozione
del cristianesimo i tedeschi sono entrati nel novero dei popoli culturalmente
dominanti, Non lo si può negare. Ma col cristianesimo è entrato nella
germanicità un elemento mediterraneo-orientale, e il fatto che i tedeschi
tentino periodicamente di rinnegarlo, comporta ogni volta un ritorno alla
barbarie, al preistorico non-ancora-tedesco ma di ceppo esclusivamente germanico”.
Per “Chiesa cattolica” Thomas Mann intende un personaggio specifico, il cardinale
Michael Faulhaber, che aveva celebrato il Capodanno del 1933 con questa
predica: “I Germani sono divenuti un popolo di cultura nel vero senso della parola
solo attraverso il cristianesimo”.
Di questo risentimento – antimediterraneo,
antilatino – è fatto l’antisemitismo, continuava Mann: “A voler ben vedere, l’elemento
mediterraneo-europeo-orientale, ovvero l’elemento umano e universale, è
indissolubilmente legato a tutta la germanicità storica maggiore, a tutta la
cultura tedesca, e lo sarebbe anche se in Germania non vi fosse neppure un
ebreo. Ma gli ebrei rappresentano fisicamente questo elemento spirituale nella
realtà tedesca, lo rappresentano nel sangue e nella razza, direi quasi nella persona”.
Ragionamenti che sembrano frescacce, e lo sono, ma non in Germania
evidentemente. Continua Mann, a proposito di ebrei e “mediterranei”: “Quella
che viene chiamata la loro componente «internazionale» non è altro che la
componente europea e mediterranea, elemento inalienabile della cultura e della
civiltà tedesca”. Inalienabile ma subordinato: “L’odio che di tanto in tanto
esplode fra i tedeschi nei confronti degli ebrei non è rivolto, dal punto di
vista spirituale, agli ebrei stessi, o perlomeno non solo a loro: è il
tentativo impossibile di espellere dall’essenza della cultura tedesca un
elemento che vogliamo ritenere oscuro ed estraneo, anche se è proprio quello
che illumina, plasma, quello umano, ovvero l’elemento mediterraneo, i cui
rappresentanti di sangue in Germania sono gli ebrei”.
Questione ebraica – C’era
una “questione ebraica” in Germania ben prima di Hitler. Questo è noto e
rilevato. Non si dice invece che In Germania gli ebrei sono sempre stati un
problema. Non c’è nella letteratura italiana – né francese, o inglese, o
spagnola – niente di comparabile alle invettive e alla trattatistica
antiebraica tedesca. Da Lutero all’illuminismo tedesco (ne è vittima Heine), al
romanticismo fino a Wagner, e all’ondata senza riserva della prima metà del
Novecento, i trentatré anni prima di Hitler compresi. Il fatto non si rileva
nella storiografia dell’antisemitismo, ma ne è il dato più evidente.
Nel 1921, dopo il putsch fallito di Hitler in birreria a Monaco, Thomas Mann sosteneva
che “la bestialità della svastica è una goffa espressione popolare”, frutto del
“clima culturale reazionario in cui ci
troviamo”. Ma non era diverso nel 1911, e nel 1901, e prima. Nello stesso 1921 gli
studenti a Monaco e in altre città oltraggiarono “l’ebreo Einstein” in quanto premiato
col Nobel.
In parallelo c’è un saprofitismo incontenibile
degli ebrei nel germanesimo. In più gran numero, senza confronto con altri
mondi, sono accorsi nelle terre tedesche dell’Est – in parte ora polonizzate ma
tedesche storicamente – e tuttora accorrono nella Germania riunificata. Anzi, non
un saprofitismo, un’identificazione orgogliosa. Fino a farsi una lingua
parallela mutuata dal tedesco - la
seconda lingua in Israele dalla guerra del Kippur in poi, in precedenza la
prima. In Italia abbiamo – avevamo – l’ebraico romanesco, ma non come
linguaggio ghettizzato, parte del dialettismo corrente.
Tribù - “Gli ebrei erano
anzitutto una tribù”: lo sosteneva Aharon Appelfeld, come lo ricorda “The New
Yorker” nel numero di sabato. Appelfeld, che il 3 gennaio è morto di 86 anni, professore emerito di Letteratura all’università
Ben Gurion, era arrivato in Israele sul finire della guerra adolescente. Solo, avendo perso in guerra e nei lager i
genitori e i nonni, ma a suo agio in un paese animato dal sionismo, con
un’anima socialista, nei kibbutz e fuori.
E a sedici anni fece la guerra del 1948, per la creazione dello stato di
Israele.
La
rivista ripubblica un articolo di Philip Gourevich di dieci anni fa, che
richiamava una conversazione con lo scrittore una ventina d’anni prima. Israele
in quegli anni era secolare, agraria, collettivista. “Era molto
socialista-realista”, ricordava Appelfeld: “Era un elemento spirituale, ma poi
sparì. Poi fu denaro e denaro, sempre di più, nessuna meraviglia che la gente
si sia trincerata nella religione. È parte della ricerca di un’identità
ebraica. Il sionismo da solo non lo offre più, il senso di un progetto”. Ed
emerge il fatto.
“Gli
ebrei erano anzitutto una tribù”, argomenta Appelfeld: “’Nazionalità’ è una parola
che non era mai usata dagli ebrei. Eri ebreo oppure non lo eri. La parola la
introdusse il sionismo. Il sionismo lavorava per la normalità. Diventiamo come
i francesi o gli inglesi. Il sionismo creò una visione limitata dell’ebreo,
come qualcosa che è solo qui – la nuova nazione, il nuovo ebreo. Per cui non si
capisce più la diaspora – il sionismo non la concepiva – e questo è sbagliato.
Perché la storia ebraica è una storia di
diaspora, e questa è una nazione di immigrati. Separarsi intenzionalmente e
internazionalmente dagli altri ebrei è una stupidaggine”.
Ma,
poi, Israele ha perso il senso di quell’identità, argomentava lo scrittore. Due generazioni sono cresciute nel vuoto, perché i genitori
non volevano assolutamente avere un passato. Giusto un nome, ma non una
provenienza, un’appartenenza, una memoria, sia pure di rigetto o denuncia dei
campi nazisti. Quel vuoto è stato riempito dall’ortodossia religiosa. Che,
Appelfeld non lo dice, ma è il nuovo mastice tribale, sotto forma di clericalismo.
Usa-Israele – La “dichiarazione Trump” il 6 dicembre, di riconoscimento
formale di Gerusalemme quale capitale d’Israele non è la prima intromissione unilaterale degli Stati Uniti nella breve storia dello Stato ebraico. Il 19 marzo
1948, in piena guerra per la creazione della nuova entità, presidente Truman,
segretario di Stato Marshall, gli Stati Uniti tolsero d’improvviso l’appoggio
alla creazione di Israele. Un comunicato del Dipartimento di Stato misconobbe
il riconoscimento del piano di suddivisione della Palestina in due Stati, uno
arabo e uno ebraico. Successivamente, il fatto fu riconosciuto.
Nell’estate
del 1956 fu la volta del generale Esisenhower, da presidente degli Stati Uniti,
che rovesciò l’esito della guerra di Suez. Al colonello Nasser, uomo forte dell’Egitto
postmonarchico, che aveva nazionalizzato il canale di Suez, Israele rispose, col
sostegno di Francia e Gran Bretagna, occupando militarmente il Canale. Il
generale Eisenhower costrinse l’alleanza israeliana al ritiro..
astolfo@antiit.eu
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