Una rappresentazione dell’avarizia.
Splendida e sordida. Tra guadagni e sprechi impensabili ai più, specie per le
opere dell’arte, e piccinerie – il conto dei centesimi, il regalo di poche
lire. Scott ha rifatto il vecchio carattere del misantropo, legato alle cose e
insensibile a ogni altra passione e alle persone, nella figura del petroliere
miliardario Paul Getty, un’icona degli anni 1970. Il cui lascito costituisce il
più grosso centro museale degli Stati Uniti, a Los Angeles. Ma insensibile con
gli uomini: collaboratori, mogli, figli, nipoti. Che ne saranno marchiati,
alcuni fino all’autodistruzione, Paul Getty II e Paul Getty III.
La figura del vecchio avaro Scott ha
situato all’interno del bestseller di John Pearson, 1995 - il biografo di 007,
l’agente segreto di Ian Fleming: “Painfully rich: the Outrageous Fortunes and
Misfortunes of the Heirs of J. Paul Getty”. Con l’alcolismo e la droga di Paul
II e il rapimento di Paul III a Roma a luglio del 1973 da parte della
‘ndrangheta di Castellace.
Ogni immagine è parlante, Scott non si
smentisce. Voleva colpire l’accumulazione – del film è anche produttore – e c’è
riuscito: la ricchezza è sordida, di chi ha accumulato e vive nel castello e
chi vuole accumulare con soprusi e violenze. Programmato in uscita per il
giorno di Natale (!), il film ha sofferto all’ultimo dello scandalo che ha
travolto Kevin Spacey, l’attore nel ruolo di Paul Getty. Sostituito in tutte le
scene rapidamente con Christopher Plummer, non per questo il film ne ha
risentito. Anzi Plummer è convicente protagonista, corazzato dentro l’occhio
ironico, che non vede. Con Michelle
Williams, moglie di Paul II e madre di Paul III, l’inrtrusa dela famgilia, il
reagente, con una recitazione sempre sommessa, della protervia e la
distruzione.
Il
film ha sofferto anche, all’uscita in
Italia, di una falsa presentazione. Come “la vera storia del rapimento di Paul
Getty a Campo dei Fiori”, o “Quando la 'ndrangheta rapì il nipote di uno degli
uomini più ricchi del mondo e questi disse: «Ho altri 13 nipoti, non pagherò un
penny»”. Ma il rapimento è uno degli sfondi. Tra l’altro reso superbamente, nel
contrasto tra le magnificenze del
castello in Inghilterra e l’abbrutimento dei carcerieri e del carcere condiviso
da Paul diciassettenne per cinque mesi, da luglio alla vigilia di Natale 1973.
È invece una forte narrazione sulle miserie della ricchezza. Girato
superbamente a Roma e in Inghilterra, tra ambineti d’epoca accuratamente
ricostruiti. In un’Italia stordita tra postumi della “Dolce Vita” e postumi del
Sessantotto – branchi di paparazzi allupati sono la sua unica manifestazione,
insieme al foro di Adriano, che il vecchio Getty vuole ricostituire, e
manifesti estremisti – mentre il mondo andava alla rovescia, per la crisi del
Vietnam, del dollaro e del petrolio.
In originale anche la parte
relativa al sequestro è accurata, nei linguaggi (formule e toni dialettali,
pause, silenzi) e nelle scenografie (i tuguri, le Mercedes nere, la sporcizia).
Vaporidis è perfino eccezionale, fuori dal suo eterno ruolo di ragazzo
cresciuto, da protagonista della storia secondaria, il rapimento: capo
carceriere telefonista un po’ fumato, con la sindrome di Stoccolma verso il
rapito. Perfetto anche Marco Leonardi, che come in “Anime nere” parla col solo
sguardo. Non fosse che Scott lo ha voluto sopra le righe, in un improbabile
doppio petto lucido e dialetto minaccioso -
impersona Saro Mammoliti, il freddo organizzatore del rapimento.
Ridley Scott, Tutti i soldi del mondo
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