Un’epica domestica. Poche scene, povere,
ripetitive, tutte attorno a un solo personaggio, Churchill, per due ore di
declamazione, che prende il governo a Londra contro Hitler, nemmeno una grande
notizia. Ma montate con sagacia. E seguite dal pubblico con una tensione
visibile – alla fine c’è sempre qualcuno a cui scappa un applauso liberatorio.
Un Churchill anche appesantito: nei
movimenti, l’uso del bagno, la parlata. Stereotipo: sigaro e bicchiere sempre
in primo piano. E ciceroniano: argomentativo e “uomo nuovo”, una sorta di
provinciale. Riflessivo più che entusiasta, e forse limitato nel giudizio e
nella manovra politica. Mentre era ottimo scrittore, politico navigato, in primo
piano già da venticinque anni, con grosse responsabilità nella prima guerra
mondiale e dopo, dopo aver navigato il mondo, dell’establishment più established,
con qualche linea genealogica in più del suo sovrano balbuziente - discendente
del duca di Malborough (e degli Spencer - lady Diana). E ancora agile, i vizi
prenderà dopo la guerra, dopo la sconfitta elettorale a conclusione della
guerra che lui aveva vinto.
Non un grande film, insomma. E un po’
falsificato. Tuttavia il passaparola è entusiasta, i genitori ci portano anche
i figli – i figli ci vanno. Come una scoperta
o un sollievo, che si parli ancora di liberazione. Che una persona, un mondo,
sia impegnata per la liberazione. La scena della liberazione nel sentimento
popolare, in un vagone della metro, è la più squallidamente dopolavoristica, e
pure piace. Quale Hiter ci sta opprimendo, che non si dice?
Joe Wright, L’ora più buia
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