Note sparse, disordinate, su se stesso
Spengler ha appuntato per una diecina d’anni dal 1911. In un progetto di selfie, che intitolava in greco “A se stesso”
– ma anche “Solitudine” e “Vita del ripudiato”. Pubblicate venticinque anni fa
per la prima volta, salvate dalla sorella Hildegard.
Un ritratto ne viene fuori di solitudine.
Anche tra i familiari, che sente estranei e invece erano affettuosi. Anche dopo
il successo, imprevedibile e enorme, del “Tramonto dell’Occidente” subito dopo
la guerra. Ma anche di disadattamento nell’età che ha vissuto, gli anni
1890-1920. E di disadattamento forse in generale, per una distinta forma di
misantropia. Con un bisogno costante di mentire. Anche a stesso, perdendosi, di
giorno e di notte, in sogni, visioni, incubi disordinati. Più spesso di altri mondi:
Africasia, Isola Nuova, Grande Germania. Dall’infanzia alla maturità. La poca attitudine
allo studio. Il bisogno di “filosofare” in autonomia. Un “eccesso di
imaginazione” non soddisfatta. O l’eroismo di un vile – solo, solitario.
Non indulgente con se stesso, anzi
critico. Dice tutto in poche righe, a p.
59: la paura (“paura del futuro, paura dei membri della mia famiglia, paura
degli uomini, del sonno, delle autorità, del temporale, della guerra, paura,
paura”) e l’isolamento (“credo che nessuno sia vissuto in un isolamento
interiore tanto spaventoso”). Ma ripetitivo. L’autore di un solo libro,
sopravvalutato. Onesto, vero. Ma superficiale, molto, sotto il tormentone – “il mio tempo è il
rococò”. E con qualche censura. “Sarei potuto diventare un pittore di valore”,
continua dopo l’apertura, “se da bambino ne avessi avuto l’opportunità”. Ma nessuno
l’ha sacrificato, è un’altra “immagine” di se stesso.
Poco se ne ricava. “Nietzsche fu un etermo
romantico. Anche Wagner”. E il “contrasto fra prussianesimo e cultura tedesca”.
Due tracce peraltro, non di più. Con una singolare prediziposizione a “vedere”.
Tutto, anche le narrazioni: “Sono fatto per il vedere” è la prima annotazione. Al punto da non sentire la musica
finché non l’ha suonata lui stesso, “leggendo le note sulla partitura”.
Più che disadattato, Spengler è uno che si
voleva “uomo del destino”. Novello Eraclito, come quello dotato di “sfrenata
tendenza aristocratica” (un tema ricorrente è “vedersi” in fughe di saloni alti
cinque metri), dal carattere metallico, “romano e prussiano”, della casta “amante
del dominio e abituata alla potenza,
orgogliosa del sangue, del rango, delle armi, sprezzante ogni umana volgarità”. Giovanni Gurisatti, che ha curato l’edizione
italiana, lo rileva sgomento nella postfazione, ripercorrendo queste e altre annotazioni.
Oswald Spengler, A me stesso, Adelphi, pp. 131 € 10
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