C’è
un ragione economica, oltre a quelle sociali e umanitarie, per l’ammissione
dell’Africa e dell’Asia meridionale, le aree a forte emigrazione, agli cambi
internazionali. E per investire - favorire gli investimenti - nelle stesse aree. Con l’effetto di alleviare l’immigrazione di massa, incontrollata
e poco sostenibile: se viaggiano le merci non viaggiano le persone.
Era
la conclusione settant’anni fa di un saggio classico di Paul Samuelson,
“International Trade and the Equalisation of Factor Prices” (“The Economic
Journal”, giugno 1948). Partendo dalla teoria classica dello scambio, per la
quale il libero movimento dei fattori di produzione tra differenti regioni
porterebbe a egualizzare i prezzi assoluti e relativi degli stessi fattori nelle
diverse regioni, Samuelson analizza il mercato del lavoro, e giunge alla
conclusione che il libero scambio delle merci egualizza i salari dei
lavoratori non qualificati.
Il commercio come sostituto per il movimento delle
persone. È
quello che avviene negli scambi con la Cina, l’India, il Vietnam, le economie
associate al libero scambio: se ne importano le merci ma non i lavoratori.
Teoricamente, è “come se” l’“invasione cinese” , o indiana, o thailandese, o
turca, fosse di lavoratori cinesi, indiani, turchi – al netto naturalmente dei
costi di trasporto e di accoglienza, e dello squilibrio tecnologico
(specialistico, organizzativo, etc.): la produzione di certe merci nei mercati
di consumo è passata ai lavoratori cinesi, indiani, etc. Ma di fatto si ha una
cosa (la merce) e non l’altra (il lavoro): il lavoratore cinese, etc., non ha
nessun interesse a percepire la stessa paga, non qualificata, fuori casa.
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