Lavoro e salario
qualificati, la globalizzazione cambia rotta dopo trent’anni. Negli stessi
Stati Uniti che negli anni 1980 la imposero al mondo. L’America First di Trump
si configura come un disegno coerente. E uno che potrebbe innovare
positivamente per le economie “mature” (sindacalizzate, strutturate, protette,
a reddito medio elevato) dell’Occidente, rispetto al precariato e
all’immiserimento salariale che hanno fatto legge finora – ammesso che il
presidente americano resista a sé stesso. Da
destra un programma di sinistra: contro gli eccessi - il conformismo, la
stupidità - del neoliberismo.
Da
destra un programma di sinistra
Perché Trump sull’immigrazione, il più
contestato dei suoi provvedimenti, continua a raccogliere consensi? Da tutte le
comunità, compresi gli immigrati recenti, e naturalmente gli ex “bianchi a pallini neri”, i bianchi poveri e non garantiti. All’immigrazione Obama ha lasciato
porte aperte – gli Stati Uniti hanno accolto dal 2000 quasi il doppio degli
immigrati in tutta l’Europa, che ha quasi il doppio della popolazione americana
- in un quadro di precarizzazione del lavoro e del reddito, la sola strategia
di ripresa, soprattutto nel settore dei servizi, dopo il crac del 2007.
Obama
non era solo, e non è stato il primo. La Germania lo aveva preceduto di un paio
d’anni, liberalizzando totalmente il mercato del lavoro, per frenare la
delocalizzazione delle attività produttive, e aprendo le porte a
un’immigrazione di massa – seppure con preferenze, verso i serbatoi di
manodopera mediorientali, turchi e siriani in specie, meglio qualificati
socialmente, e anche produttivamente. Come la Germania ha operato mezza Europa,
Italia compresa, seppure di fatto, al di fuori di quadri normativi e sindacali
– con gli “stati di crisi”, negoziati “in camera” tra le aziende e il governo -
e senza criteri selettivi. Obama del resto percorreva la strada delle
presidenze precedenti, specie delle presidenze Reagan e Clinton, che con i
salari liberalizzati e le riduzioni fiscali (Clinton ridusse perfino la
ritenuta d’acconto sui guadagni di capitale) alimentarono la più lunga
espansione del Novecento - ma in un quadro a saldo positivo, molto: il reddito
mediano delle famiglie aumentò nei sedici anni 1983-1999 di quasi un quarto, da
47 mila a 58 mila dollari (dopo gli otto anni di Obama era a 56 mila dollari).
Asiatizzazione
L’“asiatizzazione” del lavoro, si disse,
il trasferimento delle attività manifatturiere, e di buona parte dei servizi,
nelle grandi economie asiatiche, Cina, India, Vietnam, è imprescindibile per le
economie già sviluppate se intendono restare nei mercati globali. E quello che
la globalizzazione ha imposto nei primi tre decenni. Una scelta che, penosa per
i più nei mercati industriali “avanzati”, anche per i lavoratori
qualificati, si manifesta infine non produttiva economicamente: non si compra,
non si spende, non si consuma. La ripresa stenta: gli investimenti ci sono, il
motore è imballato, ma gira a vuoto.
Si
prenda la Germania, che sulle paghe basse (ha otto-dieci milioni di persone
sotto assistenza pubblica) e l’immigrazione a buon mercato ha capitalizzato nel
dodicennio Merkel. A costo di un depauperamento dei ceti medi. La politica
delle porte aperte ha evitato la delocalizzazione delle industrie, ma prospera
solo sul lato esportazione. Insostenibile politicamente, passata l'emergenza
post crac 2007, la crescita dell’opinione
anti-porte aperte viene imputata a un rigurgito fascista, di cui non si vedono
però segnali. Mentre è un movimento molto più ampio di quanto è l’estrema
destra nazionalista. Comprendendo buona parte dell’elettorato
cristiano-democratico e cristiano-sociale, i liberali, e la stessa base
elettorale della Spd, il partito socialdemocratico.
La
Francia da molti anni ormai, il Belgio, l’Olanda, paesi tradizionali di
immigrazione, hanno politiche restrittive. Non discriminatorie ma programmate.
Resta l’Italia. Condizionata dalla sua difficoltà di decidere - si fa poi si
vedrà. E in parte dal papa, che però ha solo presente l’aspetto umanitario -
distorto: l’emigrazione di massa illegale è in parte indotta, da false
rappresentazioni e false promesse, un ripiego e un sacrificio per molti, che
sradica e quindi indebolisce il patrimonio umano, le risorse umane.
Grande Irlanda, senza protezionismi
La delocalizzazione Trump combatte, invece che
col lavoro immigrato a buon mercato, con le stesse armi dei paesi-attrazione:
gli incentivi fiscali e sociali. La sua riforma fiscale fa degli Usa una sorta
di grande Irlanda, di grande Lussemburgo. Senza essere protezionismo. Non è la
fine della globalizzazione. E in un certo senso ne è l'estensione. Utilizzando
altre armi della stessa, invece di quella usata finora, basse paghe e lavoro
precario.
Gli
Stati Uniti, che il concetto e la pratica della globalizzazione imposero al
mondo negli anni 1980 (normativa della World Trade Organization, asse con la
Cina), hanno la capacità di cambiare le regole. Gli strumenti finora
utilizzati, controllo dell’immigrazione, riforma fiscale, senza protezionismi,
sono insindacabili di diritto. Né lo sono politicamente gli obiettivi:
stabilizzare il lavoro, migliorare le retribuzioni.
Gli effetti sono già visibili nei piani
d’investimento americani. In quelli che più fanno notizia. I big californiani
della rete, pur oppositori di Trump, hanno subito annunciato piani
multimiliardari di sviluppo negli Usa, invece che in Irlanda e altri paradisi
fiscali e retributivi. Solo Apple investe 350 miliardi - che forse è un errore
di stampa: ma anche 35 miliardi, anche 3,5 miliardi sono una cifra enorme.
Contente anche di pagare montagne di dollari di “repatriation tax” – lo scudo
fiscale di Tremonti dieci anni dopo. Le case automobilistiche americane,
General Motors, Fca, Ford, hanno prontamente elaborato piani d’investimento di
due e tre miliardi per fabbriche negli Usa.
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