lunedì 15 gennaio 2018

Paghe basse e precarie addio, la globalizzazione cambia marcia

Lavoro e salario qualificati, la globalizzazione cambia rotta dopo trent’anni. Negli stessi Stati Uniti che negli anni 1980 la imposero al mondo. L’America First di Trump si configura come un disegno coerente. E uno che potrebbe innovare positivamente per le economie “mature” (sindacalizzate, strutturate, protette, a reddito medio elevato) dell’Occidente, rispetto al precariato e all’immiserimento salariale che hanno fatto legge finora – ammesso che il presidente americano resista a sé stesso. Da destra un programma di sinistra: contro gli eccessi - il conformismo, la stupidità - del neoliberismo.
Da destra un programma di sinistra
Perché Trump sull’immigrazione, il più contestato dei suoi provvedimenti, continua a raccogliere consensi? Da tutte le comunità, compresi gli immigrati recenti, e naturalmente gli ex “bianchi a pallini neri”, i bianchi poveri e non garantiti. All’immigrazione Obama ha lasciato porte aperte – gli Stati Uniti hanno accolto dal 2000 quasi il doppio degli immigrati in tutta l’Europa, che ha quasi il doppio della popolazione americana - in un quadro di precarizzazione del lavoro e del reddito, la sola strategia di ripresa, soprattutto nel settore dei servizi, dopo il crac del 2007.
Obama non era solo, e non è stato il primo. La Germania lo aveva preceduto di un paio d’anni, liberalizzando totalmente il mercato del lavoro, per frenare la delocalizzazione delle attività produttive, e aprendo le porte a un’immigrazione di massa – seppure con preferenze, verso i serbatoi di manodopera mediorientali, turchi e siriani in specie, meglio qualificati socialmente, e anche produttivamente. Come la Germania ha operato mezza Europa, Italia compresa, seppure di fatto, al di fuori di quadri normativi e sindacali – con gli “stati di crisi”, negoziati “in camera” tra le aziende e il governo - e senza criteri selettivi. Obama del resto percorreva la strada delle presidenze precedenti, specie delle presidenze Reagan e Clinton, che con i salari liberalizzati e le riduzioni fiscali (Clinton ridusse perfino la ritenuta d’acconto sui guadagni di capitale) alimentarono la più lunga espansione del Novecento - ma in un quadro a saldo positivo, molto: il reddito mediano delle famiglie aumentò nei sedici anni 1983-1999 di quasi un quarto, da 47 mila a 58 mila dollari (dopo gli otto anni di Obama era a 56 mila dollari).
Asiatizzazione
L’“asiatizzazione” del lavoro, si disse, il trasferimento delle attività manifatturiere, e di buona parte dei servizi, nelle grandi economie asiatiche, Cina, India, Vietnam, è imprescindibile per le economie già sviluppate se intendono restare nei mercati globali. E quello che la globalizzazione ha imposto nei primi tre decenni. Una scelta che, penosa per i più nei mercati industriali “avanzati”, anche per i lavoratori qualificati, si manifesta infine non produttiva economicamente: non si compra, non si spende, non si consuma. La ripresa stenta: gli investimenti ci sono, il motore è imballato, ma gira a vuoto.
Si prenda la Germania, che sulle paghe basse (ha otto-dieci milioni di persone sotto assistenza pubblica) e l’immigrazione a buon mercato ha capitalizzato nel dodicennio Merkel. A costo di un depauperamento dei ceti medi. La politica delle porte aperte ha evitato la delocalizzazione delle industrie, ma prospera solo sul lato esportazione. Insostenibile politicamente, passata l'emergenza post crac 2007, la crescita dell’opinione anti-porte aperte viene imputata a un rigurgito fascista, di cui non si vedono però segnali. Mentre è un movimento molto più ampio di quanto è l’estrema destra nazionalista. Comprendendo buona parte dell’elettorato cristiano-democratico e cristiano-sociale, i liberali, e la stessa base elettorale della Spd, il partito socialdemocratico. 
La Francia da molti anni ormai, il Belgio, l’Olanda, paesi tradizionali di immigrazione, hanno politiche restrittive. Non discriminatorie ma programmate. Resta l’Italia. Condizionata dalla sua difficoltà di decidere - si fa poi si vedrà. E in parte dal papa, che però ha solo presente l’aspetto umanitario - distorto: l’emigrazione di massa illegale è in parte indotta, da false rappresentazioni e false promesse, un ripiego e un sacrificio per molti, che sradica e quindi indebolisce il patrimonio umano, le risorse umane.
Grande Irlanda, senza protezionismi
La delocalizzazione Trump combatte, invece che col lavoro immigrato a buon mercato, con le stesse armi dei paesi-attrazione: gli incentivi fiscali e sociali. La sua riforma fiscale fa degli Usa una sorta di grande Irlanda, di grande Lussemburgo. Senza essere protezionismo. Non è la fine della globalizzazione. E in un certo senso ne è l'estensione. Utilizzando altre armi della stessa, invece di quella usata finora, basse paghe e lavoro precario.
Gli Stati Uniti, che il concetto e la pratica della globalizzazione imposero al mondo negli anni 1980 (normativa della World Trade Organization, asse con la Cina), hanno la capacità di cambiare le regole. Gli strumenti finora utilizzati, controllo dell’immigrazione, riforma fiscale, senza protezionismi, sono insindacabili di diritto. Né lo sono politicamente gli obiettivi: stabilizzare il lavoro, migliorare le retribuzioni. 
Gli effetti sono già visibili nei piani d’investimento americani. In quelli che più fanno notizia. I big californiani della rete, pur oppositori di Trump, hanno subito annunciato piani multimiliardari di sviluppo negli Usa, invece che in Irlanda e altri paradisi fiscali e retributivi. Solo Apple investe 350 miliardi - che forse è un errore di stampa: ma anche 35 miliardi, anche 3,5 miliardi sono una cifra enorme. Contente anche di pagare montagne di dollari di “repatriation tax” – lo scudo fiscale di Tremonti dieci anni dopo. Le case automobilistiche americane, General Motors, Fca, Ford, hanno prontamente elaborato piani d’investimento di due e tre miliardi per fabbriche negli Usa.



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