Una raccolta per thomasmanniani, degli
scritti e interventi su Hitler. Dapprima perplessi, poi via via più critici.
Anche per impulso dei figli, e per effetto della decadenza dalla cittadinanza
tedesca che il regime gli impose nel 1936. Sotto il titolo del più importante
di questi interventi, quello che rifiutava Hitler ma non si assolveva, non assolveva i tedeschi.
Una lettura scontata, non fosse perché
documenta l’esistenza di una “questione ebraica” in Germania ben prima di
Hitler. Di una testimonianza scialba. Se non come selfie, riconoscimento autobiografico, e più di fatto, nella
semplice esposizione e critica degli eventi, che come professione di fede,
sempre debole . “Ho prestato servizio al mio tempo” è il Th. Mann che Anna
Ruchat, critica, pone in epigrafe alle sue proprie considerazioni. In tanti prestarono
servizio al tempo, inevitabile. Ma non tutti da nazionalisti bruti.
Specialmente bruti se cosmopoliti di formazione. Per esempio, Heinrich Mann,
fratello di Thomas. Specialmente se, come Th. Mann, dice Ruchat, “profondamente
consapevole fin dai suoi esordi del ruolo di rappresentanza che vuole interpretare
nel panorama della letteratura tedesca” – “l’intento di imitare, a volte
addirittura di incarnare, il grande Goethe… Un impegno di donchisciottesca
attorialità”. Che culmina nell’ambiguo, volutamente ambiguo, “Fratello Hitler”.
Con molte pointes illuminate e illuminanti. “Il tipico è il mitico”, a
proposito del suo Giuseppe. O l’arte come
esercizio “magico-lunare”. Del tipo spiegato da Bachofen nello studio degli
antichi, che il “magico astro” consideravano “sacro per la sua ambivalenza”, la
luna concependo “come elemento femminile in rapporto al sole, ma elemento
generatore maschile rispetto alla terra” – “il più impuro dei corpi celesti ma
il più puro, il più «casto» di quelli terreni”. Giuseppe, che ha avuto lo
spirito del cielo e quello della terra, è “l’artista”: “L’arte esercita una
intermediazione magico-lunare”.
Anche qui Thomas Mann avoca l’ironia quale
suprema forma di espressione: “Quell’ironia nella quale ho individuato da tempo
l’elemento originario di ogni arte e di ogni creazione spirituale”. Ma per
scusarsi senza scusarsi. Per Hitler professando “una certa disperata
ammirazione”. Riconoscendolo “fratello” per “la singolare bellezza di quest’uomo
isterico di grande effetto”.
Senza attenuanti. Nel 1938, dopo Monaco, scrive della “cosiddetta «annessione» dell’Austria al Deutsches Reich”. Con la scusa che riconoscersi è “migliore, più sincero, più onesto, e più produttivo dell’odio”. Mentre non ha rispetto per Wagner, “artistico incantatore dell’Europa, che ncora Gottfried Keller chiamava «barbiere e ciarlatano»”.
Senza attenuanti. Nel 1938, dopo Monaco, scrive della “cosiddetta «annessione» dell’Austria al Deutsches Reich”. Con la scusa che riconoscersi è “migliore, più sincero, più onesto, e più produttivo dell’odio”. Mentre non ha rispetto per Wagner, “artistico incantatore dell’Europa, che ncora Gottfried Keller chiamava «barbiere e ciarlatano»”.
Ancora nel settembre 1942, parlando alla
Bbc dello sterminio degli ebrei, apre una nota di credito alla Germania
hitleriana: “All’inizio c’era ancora una parvenza di misura e di senno”. Anche
se erano stati aperti centinaia di campi di concentramento per i politici degli
altri partiti, e si era decretato il licenziamento dei dipendenti non appartenenti
al partito nazista e dei “non ariani”.
Sul tema specifico, è commoso e commovente
nel ricordo dei compagni ebrei alle elementari. Ma non molto di più. L’autore
dei “Buddenbrook”, della “Montagna magica”, del “Dr. Faustus”, è fuori
contesto? Lo è. Ma è ben tedesco. Ben dentro la “questione ebraica”. Che è
tedesca da almeno sei secoli. Da lui agitata in “L’eletto”, “Sangue velsungo” e
altri scritti – seppure con l’ironia, certo.
L’interesse della raccolta è là dove
Thomas Mann deve spiegare che lui stesso non è ebreo, e lo fa con veemenza, l’indicazione
essendo un’accusa evidentemente grave.
Negli anni 1910, quando il giovane Thomas
Mann era divenuto d’improvviso una celebrità col successo dei “Buddenbrok”, e
poi negli ani 1920. Il successo scatenò il saprofitismo dei molti che sempre si
agganciano ai fortunati e felici. Che contro Th. Mann non trovarono altro che
dirlo un ebreo – camuffato, mezzo, un terzo, un quarto, etc.. Accusa
evidentemente insidiosa se Th.Mann, ecco la curiosità del libro, per la metà di
esso deve spiegare e giurare che non lo è. Reiteratamente. Che una bisnonna lo
era per un quarto – forse. Che la moglie nasce in una famglia ebrea ma
battezzata da due generazioni. Che “Giuseppe e i suoi fratelli” non è un’epopea
“ebraica”. Etc. In più punti litiga feroce con Theodor Lessing, un pubblicista ebreo
non così sgradevole come lo vuole Thomas Mann.
Succedeva a Thomas Mann quello che diceva schietto
negli stessi anni Joseph Roth, in “Autodafé dello spirito”: “Dal 1872 in poi i
tedeschi non ebrei sono stati perlopiù marescialli, viaggiatori, poeti dela
zolla, dilettanti, generali che perdono le guerre, nel caso migliore ingegneri
abili”. Da allora, continuava, sono stati ebrei tedeschi a tenere alto l’onore
della Germania: “Da sessant’anni gli ebrei tedeschi rappresentano il nome tedesco
nel mondo”. Questo è tanto vero, continua, “che in ogni talento non ebreo s’iniziò
a fiutare un «ebreo». Si fiutarono «ebrei» nei fratelli Mann, in Eckener, nel
regista Piscator, e persino in Goebbels”.
Un documento storico difficilmente
contestabile. Anna Ruchat nell’introduzione, e i curatori dell’edizione
originale tedesca nelle note, ne sono essi stessi infastiditi. Anche per dover
sottolineare i ritardi e i troppi giri di parole dello scrittore. Che pure era
già, bisogna aggiungere, premio Nobel.
Thomas Mann, Fratello Hitler, Oscar, pp. 142 € 7,50
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