Il titolo è derivato dall’abitudine dello
scrittore di bere, spesso da solo, tardi, che lo stroncherà – “una sensazione
di sicurezza e smarrimento al tempo stesso mi trattiene qui”. Ma a Parigi,
seppure in esilio, volontario, dalla Germania, che da buon austriaco sempre
temeva, già dal 1925, ci stava volentieri. Benché dal 1926 senza più lo
stipendio da corrispondente della “Frankfurter”, il quotidiano preferendone uno
che coprisse anche la politica – e mandò un filonazista, Friedrich Sieburg.
Questo è il suo omaggio alla Francia, che lo rispetta e lui ama.
Il volume si compone delle due raccolte
note, “Le città bianche” e “Nella Francia meridionale”. Con un saggio su Clemenceau, alcune recensioni, e
note varie, compresa quella del titolo – “il bistrot dove sono solito sedere
ogni notte dopo mezzanotte…” Entrambe le raccolte sono sulla Francia
meridionale. “Le città bianche” rifà la prima, la approfondisce, più
riflessiva, meno raccontata. Meno fresca. Le traduzioni,
quattro o cinque diverse per i vari segmenti della raccolta, non aiutano: non sono “rothiane”
– semplici – e troppo spesso non congruenti. Ma la forza delle argomentazioni
sovrasta la sciatteria della presentazione.
Sono pagine di scoperta, e di
immaginazione, ma malinconiche. Con pezzi straordinari, specie nella prima
raccolta, di entusiasmo genuino – “l’amore mantiene giovani”. A Vienne lo
spettacolo della morte. A Nîmes il toro personaggio della corrida. Marsiglia
quando era una “città di navi”. O le
scuole d’estate, come sono belle. Una Costa Azzurra “di carta” – da scrittori
inglesi, più F.S.Fitzgerald. E, al Nord, l’odore
della guerra, dopo otto anni, a Saint-Quentin. Il ritratto di Drumont
vivacissimo, l’antisemita, e di Benanos, biografo corrivo di Drumont nel
dimenticato “La Grande Peur des bien.-pensants”. Il ricordo di Sacco e
Vanzertti, il giorno dela loro esecuzione, nel “paese delle illimitate
disumanità”.
Una profonda pagina sull’essere tedesco introduce “Le città
bianche”. Assortita da una sull’“anima tedesca”, roba da germanisti, da non
tedeschi, che sono soliti “conoscere” ma non “capire” – solo gli austriaci
capsicono la Germania, perché parlano la stessa lingua. La Germania Roth
prospetta come un “recinto”. Ordinato, definito, e per questo insoddisfacente:
“È tipico di un mondo limitato guardare con sospetto tutto ciò che non può
essere definito”. Detto da cittadino del mondo: “Non vado più all’«estero».
Tutt’al più io vado nel «nuovo»”.
“Si perde una patria dopo l’altra” nota a un certo punto,
per rivoluzioni, nazionalismi, cacce alle streghe. Ma senza rassegnazione: la
raccolta è una puntigliosa contestazione del “Mito dell’anima tedesca”, questo il
titolo dela riflessione specifica. Una creazione da germanisti, quelli che “vanno
a Bayreuth”, alla Germania che la Germania prepara secondo le loro attese, che
ben conosce e sfrutta: i luoghi comuni dell ‘ impulso f austiano” e della “spinta
nordica”. Roth non è l’apatride, uno
sradicato, un ebreo errante. Era molto radicato – anche troppo, nei romanzi. Ma
– e per questo – a disagio. Profondo, polemico. “Il simbolismo prussiano è così
di bassa lega”, è la conclusione, “quanto grande è l’ingenuità romantica degli
europei occidentali. Lo spirito meccanizzato, il «rigido addestramento» prussiano
si sono messi la gualdrappa della mitologia germanica. E, come usa dre con
espressione non nordica ma calzante, quello che chiamiamo «mondo europeo» ci è
cascato”.
Un’altra pagina da antologia, nella stessa raccolta è sulla
sua generazione. Quella risucchiata dalla guerra, che l’ha combattuta e ne è
stato vinto – come tutti in quella guerra, non solo chi l’ha persa. Il suo è lo
sguardo più acuto, ancora dopo un secolo, su quella carneficina: “Noi siamo i
morti resuscitati”.
Joseph Roth, Al
bistrot dopo la mezzanotte, Adelphi, pp. 301 € 19
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