domenica 18 febbraio 2018

J. Roth fa i conti coi germanisti

Il titolo è derivato dall’abitudine dello scrittore di bere, spesso da solo, tardi, che lo stroncherà – “una sensazione di sicurezza e smarrimento al tempo stesso mi trattiene qui”. Ma a Parigi, seppure in esilio, volontario, dalla Germania, che da buon austriaco sempre temeva, già dal 1925, ci stava volentieri. Benché dal 1926 senza più lo stipendio da corrispondente della “Frankfurter”, il quotidiano preferendone uno che coprisse anche la politica – e mandò un filonazista, Friedrich Sieburg. Questo è il suo omaggio alla Francia, che lo rispetta e lui ama.
Il volume si compone delle due raccolte note, “Le città bianche” e “Nella Francia meridionale”. Con un  saggio su Clemenceau, alcune recensioni, e note varie, compresa quella del titolo – “il bistrot dove sono solito sedere ogni notte dopo mezzanotte…” Entrambe le raccolte sono sulla Francia meridionale. “Le città bianche” rifà la prima, la approfondisce, più riflessiva, meno raccontata. Meno fresca. Le traduzioni, quattro o cinque diverse per i vari segmenti della raccolta, non aiutano: non sono “rothiane” – semplici – e troppo spesso non congruenti. Ma la forza delle argomentazioni sovrasta la sciatteria della presentazione.  
Sono pagine di scoperta, e di immaginazione, ma malinconiche. Con pezzi straordinari, specie nella prima raccolta, di entusiasmo genuino – “l’amore mantiene giovani”. A Vienne lo spettacolo della morte. A Nîmes il toro personaggio della corrida. Marsiglia quando era una “città di navi”. O le scuole d’estate, come sono belle. Una Costa Azzurra “di carta” – da scrittori inglesi, più F.S.Fitzgerald. E, al Nord, l’odore della guerra, dopo otto anni, a Saint-Quentin. Il ritratto di Drumont vivacissimo, l’antisemita, e di Benanos, biografo corrivo di Drumont nel dimenticato “La Grande Peur des bien.-pensants”. Il ricordo di Sacco e Vanzertti, il giorno dela loro esecuzione, nel “paese delle illimitate disumanità”.
Una profonda pagina sull’essere tedesco introduce “Le città bianche”. Assortita da una sull’“anima tedesca”, roba da germanisti, da non tedeschi, che sono soliti “conoscere” ma non “capire” – solo gli austriaci capsicono la Germania, perché parlano la stessa lingua. La Germania Roth prospetta come un “recinto”. Ordinato, definito, e per questo insoddisfacente: “È tipico di un mondo limitato guardare con sospetto tutto ciò che non può essere definito”. Detto da cittadino del mondo: “Non vado più all’«estero». Tutt’al più io vado nel «nuovo»”.
“Si perde una patria dopo l’altra” nota a un certo punto, per rivoluzioni, nazionalismi, cacce alle streghe. Ma senza rassegnazione: la raccolta è una puntigliosa contestazione del “Mito dell’anima tedesca”, questo il titolo dela riflessione specifica. Una creazione da germanisti, quelli che “vanno a Bayreuth”, alla Germania che la Germania prepara secondo le loro attese, che ben conosce e sfrutta: i luoghi comuni dell ‘ impulso f austiano” e della “spinta nordica”.  Roth non è l’apatride, uno sradicato, un ebreo errante. Era molto radicato – anche troppo, nei romanzi. Ma – e per questo – a disagio. Profondo, polemico. “Il simbolismo prussiano è così di bassa lega”, è la conclusione, “quanto grande è l’ingenuità romantica degli europei occidentali. Lo spirito meccanizzato, il «rigido addestramento» prussiano si sono messi la gualdrappa della mitologia germanica. E, come usa dre con espressione non nordica ma calzante, quello che chiamiamo «mondo europeo» ci è cascato”.
Un’altra pagina da antologia, nella stessa raccolta è sulla sua generazione. Quella risucchiata dalla guerra, che l’ha combattuta e ne è stato vinto – come tutti in quella guerra, non solo chi l’ha persa. Il suo è lo sguardo più acuto, ancora dopo un secolo, su quella carneficina: “Noi siamo i morti resuscitati”.

Joseph Roth, Al bistrot dopo la mezzanotte, Adelphi, pp. 301  € 19

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