Un racconto dimenticato di uno scrittore che
non è mai stato tale – non aveva l’onore di dirsi scrittore. Il racconto forse
più veritiero della Resistenza. Scritto da uno che l’ha fatta senza pensare di
farne il racconto – non Fenoglio, non Calvino.
Ubaldo era giornalista al “Giorno” - cronista in subordine, mai in servizio di “prima”.
Famiglio a Roma dei Bertolucci. Ne era familiare per ragioni
tribali, e anzi un po’ famulo, ma non sicuro di esserne ricambiato, i patti agrari
erano gonfi di doveri reciproci. Ne parlava con malcelata distrazione. Anche
lui aveva partecipato al film dello scannamento del porco. Ne parlava ma non
volentieri. Di Attilio aveva rispetto, come padre, sarà stato lui a introdurlo
al “Giorno”, benché il giornale fosse pieno di parmigiani, e alla editrice
Einaudi. Era del resto per Stalin contro gli americani che impongono le bombe,
la droga, la mafia, e lo avrebbe voluto risuscitato in piazza San Pietro, a
insegnare la religione, insieme col papa, alla gioventù loffia del movimento.
Ubaldo, la
Quarantottesima, è stato veramente in montagna. Ma non ne ha ricordi. Non
grati. Da raccontare ha solo il maggiore Stevens, che appariva la notte
teatrale nel mantello, dopo i lanci, per dividere le armi, le radio e i soldi,
e la voglia d’amare delle donne – se non lo ha modellato sul fantomatico
colonnello omonimo di radio Londra. Uno che si commenta senza illusioni: “Più
di tutto le eccita il pericolo che l’uomo corre”.
Ubaldo Bertoli, La
Quarantottesima
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