Si sgonfia il boom
del solare anche negli Stati Uniti: il fotovoltaico ha ridotto l’occupazione
nel 2017 di almeno 10 mila posti. Mentre in Germania è sceso il sipario su
tutto il settore, col fallimento di Solarworld, tremila dipendenti. L’ultimo di
una dozzina di altri gruppi di medio grandi dimensioni, falliti o in crisi. Un
comparto che nel 2010 capitalizzava sui 25 miliardi ora ne vale uno.
La riduzione dei
contributi pubblici, sia negli Stati americani del Sud che in Germania, a
bilanciamento della riduzone dei costi d’impianto, ha portato a una contrazione
radicale dei nuovi impianti. In Germania la potenza addizionale di fotovoltaico
nel 2017 è stata inferiore a un gigawatt, a fronte di incrementi annuali di 6-7
gigawatt a cavaliere del 2010. La produzione di pannelli, ridotta, è da tempo
fuori mercato per la concorrenza imbattibile della Cina – i pannelli contano
per il 60 per cento del costo di una centrale solare.
Si investiva in
contributi pubblici? Ma i due fatti sono correlati: il fotovoltaico cinese è
doppiamente incentivato, in patria come in Europa e in America. E può contare
su costi del lavoro e dell’elettricità molto più bassi – l’elettricità in Cina
è per il 90 per cento basata sul carbone.
Contro la concorrenza
cinese la Commissione europea ha imposto al 2013 una serie di tariffe. Da
applicarsi anche alle centrali assemblate in altri paesi usando celle cinesi.
Ma la Cina è più abile: l’80 per cento dei nuovi moduli installati in Germania
proviene dall’Asia.
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