domenica 18 febbraio 2018

L’elogio del trash

Si sa che i critici non leggono i libri, senza infamia, troppa fatica. Ma i film? Due ore al massimo, seduti comodi. Senza occhiali e con le mani libere. In compagnia, di belle figliole alle prime - ci ambivano prima di #metoo. O se - poiché - un film è prodotto industriale, la critica è solo una promozione, come di una vettura nuova, un prosciutto, un vino?
Non basta. Come si giunge a promuovere capolavoro uno zuppo trash, “La forma dell’acqua”? Girato come tale, a tutta velocità, e poi proposto come film d’Autore, da Cineteca, da Oscar. Al festival di Venezia, impegnato a premiare una produzione americana, questione di geoeconomia, che per questo s’è data per giuria un’armata Brancaleone, plasmabile, attorno alla presidente Annette Bening, attrice americana di seconda fascia: Ildikó Enyedi, Michel Franco, Rebecca Hall, Anna Mouglalis, David Stratton, Jasmine Trinca, Edgar Wright e Yonfan. Anche così, è una meraviglia che il capolavoro sia uscito,per quanto da impegni presi.  
L’unico che mostra di aver visto il film premiato è Francesco Boille, forse perché ne scrive su “Internazionale”, giornale senza soldi: “Il film di Guillermo del Toro a cui è stato assegnato il Leone d’oro è una simpatica fesseria ma nulla più”.
I grandi media marciano coperti e allineati:
“Geniale Del Toro in «La forma dell’acqua» (Ferzetti)
“La ricchezza del mito si sottrae alla miseria della Storia” (Escobar), quattro stelle su cinque
“Il film di Guillermo De Toro è una  romanticissima storia d’amore” (“La Stampa”)
“Una favola noir subacquea che è anche un omaggio alla forza immaginifica del cinema” (Battocletti)
“La forza del film è un amore per il cinema che, anziché risultare cerebrale dà sostanza alle emozioni, e senso allo stile” (Morreale).
“Una versione di «La bella e la bestia» piacevolmente pop, infarcita di citazioni cinefile e vivifiata da un sorprendente soffio romantico (non sprovvisto di erotismo)” (Mereghetti)
Un esito “alla grande, mescolando lo straordinario con il banale, la magia con la quotidianità, il drmma con il musical, spingendo al massimo l’acceleratore del romanticismo, grazie anche a un’ambientazione malinconica e struggente” (Montini).
Poi dice che la gente non va al cinema.
Salvatores, Oscar a sorpresa nel 1992, col suo terzo film, “Mediterraneo”, si chiede arguto su “La Lettura” se gli otto o novemila giurati Oscar dei cinque continenti vedano i film selezionati, e in che lingua. Lui vinse contro “Lanterne rosse” di Zhang Yimou, nettamente favorito, ma “alle conferenze stampa”, ricorda, “capii che del film cinese non avevano capito nulla, credevano fosse un documentario sull’architettura, le tegole”. Ricorda anche Clint Eastwood in giuria con lui a Cannes: “Su «Caro diario» disse che pensava fosse un documentario su un regista italiano scomparso”. È vero che al cinema ci si può addormentare.
Indirettamente, Salvatores introduce anche per il suo film il fantasma di Weinstein, che con gli Oscar ci ha sempre saputo fare.

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