Decostruzione
–
Teoricamente è un processo interminabile, poiché procede inevitabile con la
decostruzione della decostruzione. Del procedimento stesso, non dei temi e
eventi oggetto della decostruzione. Essendo un procedimento, non ancorato a
principio o presupposti. Della stessa natura della logica. Non lo è cioè al
modo della celebre “Incoerenza dell’incoerenza” (“Destructio destructionis philosophorum”) con cui Averroé
contestò Al Ghazzali, “L’incoerenza dei filosofi” (“Destructio philosophorum”).
Che nel caso riguardava un fatto preciso, l’incompatibilità (o compatibilità,
secondo Averroè) di Aristotele, e della filosofia in genere, con il “Corano”.
Dio – Creazione
superbamente fantastica. Si può dire la fantasia dell’intelletto all’opera.
Europa – Universale la
prospetta Joseph Roth in uno sfogo passionale subito dopo avere optato per
l’esilio anticipato a Parigi dalla Germania già demoniaca nel 1925 – in vari
luoghi di “Le città bianche”. Confuso ma articolato: cattolica, laica, ebraica. Buona a tutto, quello che ci può essere di buono nel consorzio umano. Ad
Avignone, la più “bianca” di tutte le “città bianche”, Roth vede l’Europa
sapiente tra paganesimo, ebraismo e cristianesimo, tra Oriente e Occidente, tra
passato e presente, in un orizzonte armoniosamente conchiuso, confuso –
auspicando: “Un giorno il mondo avrà l’aspetto di Avignone?”
È
un auspicio, e un’utopia, comune a molti dopo la Grande Guerra, la prima
“guerra civile” europea. Nel quadro di un’umanità universale, transnazionale - “la grande e potente tradizione culturale dell’Europa antica e medievale”. Con lo sguardo più acuto sulla generazione –
la propria – e sul mondo perduti nella guerra. Ma in Roth con un segno preciso, nell’alveo del cattolicesimo. A Parigi
l’assimilazione, il sogno e la promessa dell’Ottocento contro cui Gershom
Scholem protestava già ruvido col suo amico Benjamin, e più protesterà da
Israele, appare a Roth diversa che a Berlino o Vienna, e anzi ideale. Un mondo
senza nazionalismo né militarismo. Al cattolicesimo punta come “forza
unificatrice dell’Occidente” ma anche come fede, benché in un quadro transconfessionale.
“Ciò
che è riuscito a realizzare il cattolicesimo europeo”, concludeva Roth, “quale
grandiosa mescolanza di razze, quale miscuglio colorito delle più disparate
linfe vitali”. Senza “tediose uniformità”: “Ogni persona porta nel proprio
sangue cinque diverse razze, antiche e recenti, e ognii individuo è un mondo
che ha origine in cinque diversi continenti. Ognuno capisce tutti gli altri e
la comunità è libera, non costringe nessuno a comportarsi in un determinato
modo. Ecco qual ì il grado più alto di assimilazione: ognuno resti com’è, diverso
dagli altri, straniero rispetto ad essi, se qui vuole sentirsi casa propria. Un giorno il mondo avrà l’aspetto
di Avignone?”
Sullo
sfondo prospettando un ‘inculturazione ragionata: “Che timore ridicolo hanno le
nazioni, e perfino le nazioni in cui si vanta una mentalità europea, se credono
che questa o quella «peculiarità» possa andare perduta e che dalla colorita varietà
degli esseri umani possa scaturire una poltiglia grigiastra! Gli uomini non
sono dei colori, e il mondo non è una tavolozza. Quanto più numerosi sono gli
incroci, tanto più nette resteranno le peculiarità”. Un “mondo meraviglioso”
prospettando, “in cui ogni singolo rappresenterà l’intero”.
Guerra – È – si
combatte come con la – religione. È l’argomento di Simone Weil al generale De
Gaulle a Londra – che non volle ascoltarla – per proporre un corpo di
“infermiere di prima linea”: “Simili formazioni procedono necessariamente da
un’ispirazione religiosa”. Allo stesso modo delle SS con l’“eroismo della
brutalità”, i parà e gli altri gruppi scelti di Hitler: “Non nel senso
dell’adesione a una Chiesa determinata, in un senso assai più difficile da
definire ma al quale solo questa parola è adatta. Ci sono circostanze in cui
tale ispirazione costituisce un fattore di vittoria più rilevante di quelli
militari in senso stretto”. Hitler vinceva perché sapeva quanto il fattore
morale è decisivo nella guerra ideologica: “Non che l’hitlerismo meriti il nome
di religione. Ma è senza dubbio un surrogato di religione, e questa è una delle
cause principali della sua forza”. Avere soldati “animati da una diversa
ispirazione rispetto alla massa dell’esercito, un’ispirazione che somiglia a
una fede”.
Simone
Weil proponeva le infermiere di prima linea suggestionata dall’osservazione di
Joë Bousquet, cui in guerra il tenente Louis Houdard, un gesuita, aveva dato
una sola consegna, non attardarsi sui feriti: “Il soldato che combatte non deve
fermarsi a sentire i lamenti d’un soldato che muore”. Il soldato non vede la
battaglia, la battaglia è un dovere che egli esegue senza pensarci, è questa la
sua grandezza, e la sua carica morale, argomentava Bousquet: “Il soldato che
attacca è parte della grande battaglia che con stupore vede formarsi, il suo
dovere è la sua immaginazione, egli ne è preda e non può disporre di sé.
Parlare con un moribondo lo riporta a se stesso e decompone la volontà che
l’evento aveva generato in lui. Non è più parte dell’impresa. La pietà, la
paura fanno nascere una coscienza. A un uomo che ha da temere solo la morte,
non si deve imporre la visione dell’agonia”. Niente logica in guerra, niente
spiegazioni, solo fede.
Simone
Weil conveniva con Bousquet: “La guerra è l’irrealtà stessa”. Ma, aggiungeva,
“conoscere la realtà della guerra è armonia pitagorica, unità dei contrari, è
la pienezza della conoscenza del reale”. La guerra argomentando come una forma
del sacro.
Non
la logica Amico\Nemico, ma il suo modo d’essere: implica una tridimensionalità,
benché minima, che turba gli assetti. È qui il senso vero della politica come
chiesa: la politica come guerra. Che oggi si combatte con la testa. Con la
propaganda e, in campo, con le tattiche: chi mette in gioco se stesso ne deriva
autorità morale e valore bellico, seppure perdente. È il recupero a fini
bellici della potenza creativa della fede. La quale non è che immaginazione: la
fede è grande creatrice, nei mistici come nel fante straccione napoleonico.
Memoria - “Aveva così
cattiva memoria che si dimenticò che aveva cattiva memoria e si ricordò tutto”
è un aforisma (greguerìa) di Ramon
Gomez de la Serna. Ma la memoria è inaffidabile – maliziosa anche.
Omosessualità
–
Ritorna, esaurita la liberazione o parità, nell’ambito del narcisismo.
Soddisfacente, esaustivo, positivo se vissuto nelle forme
dell’amicizia-convivenza amorosa, insoddisfacente se rinchiuso in quella
sessuale. Del narcisismo nella forma del sé medesimo. O della “confusione”
cui René Girard accenna tra il
“desiderio dello stesso” e il “desiderio del diverso”. Pur protestando (“Delle
cose nascoste sin dalla fondazione del mondo”) una “falsa differenza tra
l’erotismo omosessuale e l’erotismo eterosessuale”.
Anche nell’erotismo eterosessuale,
è l’argomento di Girard Jean-MichelOughourlian e Guy Lefort, si può
discernere una componente omosessuale: “I partner dei due sessi vi giocano,
l’uno per l’altro, il ruolo di modello e di rivale tanto quanto di oggetto”.
Con l’esempio poi classico di Proust: “La metamorfosi dell’oggetto
eterosessuale in rivale produce effetti molto analoghi alla metamorfosi del
rivale in oggetto. È su questo parallelismo che si basa Proust per pensare che
si può trascrivere un’esperienza omosessuale in termini eterosessuali, senza
tradire la verità dell’uno o dell’altro desiderio. È lui, è evidente, che ha
ragione contro tutti quelli che, sia per esecrarlo sia al contrario per
esaltarlo, vorrebbero fare dell’omosessualità una specie di essenza”.
Nell’accoppiamento omosessuale si vive la differenza, ma in un eros dominato
dal desiderio della somiglianza-identità.
Narcisismo è concetto recente,
freudiano, ma mitografia antica, originaria.
Gay
è termine storicizzabile, di Filadelfia, primi anni 1950, con una dimensione
militante. L’atto di nascita del movimento si fa ascendere al saggio “The
Furtive Fraternity” pubblicato da Gaeton Fonzi sul mensile “Philadelphia”,
sulla comunità “gay” della città. Il mondo omosessuale si distingue dal
movimento gay, dei diritti.
.
Opinione
pubblica
– È passiva, catatonica. Ha bisogno di stimoli per svegliarsi, e per
indirizzarsi. Di maestri e di prontuari.
Può reagire imprevedibile a uno
stimolo, ma anche allora seguendo altre tracce segnate. Non mai in autonomia.
Orrore delle
cose
– Sindrome probabilmente comune, ma misconosciuta. Borges la denuncia di
Chesterston: “La
sua opera, contro la sua volontà, lo testimonia: paragona le piante di un
giardino ad animali incatenati, il marmo a una luce lunare solidificata, l’oro
a un rogo congelato e la notte a una nube più vasta del mondo e a un mostro
fatto di occhi”. Ma in chiave in tutta evidenza autoreferente. Anche Savinio mostra in molti
frammenti l’orrore degli oggetti, che figura animati, mobili, invadenti.
Puritanesimo – È l’avvocato
del peccato, benché ne sia – si atteggi, si mostri – pubblico accusatore. Di
tutti i peccati possibili, essendo all’origine il peccato per eccellenza,
dell’orgoglio.
Il
puritano assolutizza il peccato. Lo erige, lo monumentalizza. E alla fine se ne
fa invadere e abbattere. È un distruttore, non un conservatore.
Raro
è il caso di Karen Blixen, “Il pranzo di Babette” (festino in realtà), che si
vuole ironico e a lieto fine – il buon cibo non fa male all’anima. Il puritano
non può nutrire sentimenti: inclinazioni, passioni, semplici desideri. È quindi
retrattile, in questa vigile crescente rinuncia. Fino all’isolamento e allo
spegnimento, per un atto di orgoglio. Insensato per di più.
zeulig@antiit.eu
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