giovedì 1 marzo 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (356)

Giuseppe Leuzzi

Proponendo una sua “Società meridionale” all’inchiesta di Leo Longanesi sullo “stare in società” – per  “L’Italiano”, la rivista fascista, nel 1932 – Brancati non dà una risposta. Ma trova che i modi di dire meridionali non riflettono una società borghese. “Son tutti proverbi o locuzioni ricavate dal linguaggio dei pescatori, cacciatori e contadini”.

“Non dico niente in un senso o nell’altro, perché nessuno dica che io ho detto qualcosa in un senso  nell’altro” è detto austriaco – secondo l’eminente viennese Ernst Gombrich, lo storico dell’arte, nelle memorie “Dal mio tempo”.

Risa di qua, Risa di là
Michele Ainis ritorna a Messina per scriverne il peana – o non sarà un epicedio? – sotto forma di romanzo, “Risa”. Da figlio predestinato, Ainis essendo in arabo sorgente o fontana, che è quella di Orione, che fondò la città, e\o quella del temibile Nettuno - che è anche, non si sapeva, il dio dei terremoti. Risa il costituzionalista dice la città annegata. Sotto i 36 terremoti nei due millenni cristiani, o tra i laghi (di Ganzirri) e il mare, e tra i due mari, lo Ionio e il Tirreno. Una città stretta a tenaglia, la dice ancora, o a cavaliere, tra i due mari e tra laghi e mari, e tra i Nebrodi e i Peloritani, tra la chiesa latina e la chiesa greca (il vescovo di Messina è anche archimandrita), e tra Mata e Grifone, i suoi giganti, la bianca e il nero (ma anche viceversa, va detto, le maschere sono intercambiabili). E gli sono mancati i due vulcani, uno sul corno sinistro, Stromboli, e uno sulla coda destra, l’Etna. Vulcani attivi, attivissimi Una città per questo allucinata?
Da Ainis indietro, i grandi letterati messinesi del Novecento hanno tutti dentro qualcosa di visionario: D’Arrigo, Consolo, Cattafi, Lucio Piccolo. Si direbbe effetto tellurico. Ma è senza dubbio, e malgrado tutto, effetto di luce: Messina è città luminosa, prende il meglio due mari. La luce del Nord, diafana, ghiaccia, e quella del Sud.
Risa per Messina sembra però nome usurpato. Stava per Reggio nella “Chanson d’Aspremont”. Il primo ciclo cavalleresco, il primo scritto dopo che recitato, anche rispetto agli originali cantari francesi. Una mescidanza del ciclo cavalleresco provenzale-occitanico col ciclo carolingio del Reali di Francia e col ciclo arturiano dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Un trapianto voluto dai Normanni appena arrivati, nell’XI secolo, nell’anonima “Chanson d’Aspremont” - anonima, ma databile al primo Millecento, due-tre secoli prima che Andrea da Barberino, divulgatore delle saghe francesi,  ne ricavasse uno dei  suoi “romanzi” di successo. La “Chanson” fece da prologo alla più nota “Chanson de Roland” – e quindi all’“Orlando innamorato” e all’“Orlando Furioso”.
I Normanni in Calabria e in Sicilia segnano il punto del trapasso  delle due confessioni, dalla greca alla latina. Una non trascurabile corrente di pensiero ne vede il bizzarro insediamento in Sud Italia in qualità di “agenti del papa”, per latinizzare contrade di rito greco-ortodosso. L’Aspromonte era l’ultimo baluardo della presenza bizantina da conquistare, nei secc. IX-XI – la conquista si realizzò mediante il culto di una “santità” comune alle due pratiche, la Madonna. Ma Risa è un’altra storia.
Il lungo poema è di una storia d’amore, tra Ruggieri e Gallicella, della caduta di Risa (Reggio Calabria), e del giovane Rolandino, che nell’Aspromonte ha l’iniziazione al cavalierato, e si scopre eroico, imbattibile. Con l’accortezza di fare del nemico un occupante mussulmano – gli invasori sono “Africanti” - invece che bizantino. Gli ingredienti che poi diventeranno canonici.
“L’estrema frontiera dell’occidente era collocata a sud e lì convenivano tutti gli eserciti d’Europa al seguito di Carlomagno”, scrive la massima - e sola - conoscitrice del poema, Carmelina Sicari, nel saggio “Il Sud e la lingua”: “In Aspromonte Orlando vince Almonte e salva Carlo che sta già per soccombere”. Non senza conseguenze, spiega la studiosa: “Il nome dell’Aspromonte risuona per tutta Europa giacché entra nel novero delle canzoni di gesta, veri e propri manuali di formazione umana e cavalleresca”.
Messina, d’altra parte, ora dimenticata se non per l’ingloriosa vicenda del ponte, è stata a suo nome luogo privilegiato delle lettere. Eco forse delle prime Crociate, alcune partirono dal suo porto, e dei poemi che le accompagnarono. A partire da Boccaccio, con la novella “Lisabetta da Messina”. Con ripetuti riferimenti di Bandello e Shakespeare. Anche di Molière. In un apologo Diderot elogia “un calzolaio di Messina”, che del laboratorio fa corte di giustizia. Schiller ha una “Sposa di Messina”. Vittorini “Le donne di Messina”. Fino all’ “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, 1975 – qui finisce la storia.
“Eufemio da Messina” è opera – una tragedia – di Silvio Pellico prima della prigione: Eufemio, turmarca della flotta bizantina, accusato per gelosia di avere sposato una monaca, si ribella e finisce dal sultano di Tunisi. Nietzsche ha “Gli idilli di Messina”. Nietzsche a un certo punto s’imbarcò a Genova, come Colombo proclamandosi Liberator Generis Humanorum, su un cargo per Messina, dove sbarcò in barella, mezzo morto, per decretarla, come già Sorrento e poi Roma, sua città ideale: “Questa Messina è proprio fatta per me”.
È stata “patria dei barbieri” per Soldati, della rasatura a mano libera. Più spesso torna nella letteratura tedesca, Schiller appunto, Goethe, Jünger, Lenz, etc.: per essere stata forse patria di Evemero, per il quale gli uomini sono dei, o luogo di raccolta di crociate e flotte, che sempre portò buono ai cristiani, o perché si pronuncia facile. Per molti è toponimo succedaneo, per chi va a Taormina, per i quadri viventi di von Gloeden, e non ha il coraggio. Ma per molti altri no. Mark Twain la dice fiabesca: “La città di Messina, di un bianco di latte, stellata e scintillante di lampioni, era uno spettacolo fatato”. In crociera nel 1867, Twain arriva allo Stretto alle due di notte d’inverno, ma “il chiaro di luna” trova “così brillante che l’Italia da un lato e la Sicilia dall’altro si vedevano così distintamente come se non fossero separate che dalla larghezza di una strada”.
Lo Stretto d Messina è uno dei “luoghi maledetti” (Scilla e Cariddi) di Olivier e Sybille Le Carrer, del loro “Atlante dei luoghi maledetti”. Insieme col castello di Barbablù  e altre amenità, A motivo della leggenda di Scilla e Cariddi. Ma nell’esperienza del card. Newman è un luogo incantato. Il cardinale, allora giovane presbitero anglicano in viaggio verso l’Italia (qualche anno dopo, insoddisfatto del secolarismo anglicano, opterà per la confessione cattolica, facendosi ordinare prete e ascendendo infine al cardinalato), intrapreso nel dicembre 1830 per accompagnare l’amico Froude, tubercolotico in cerca di climi migliori, da Londra a Gibilterra, Malta, la Sicilia e Roma, nel corso del viaggio fu investito da una tempesta di mare. Cioè soffrì molto il mal di mare, poiché è quello di cui soprattutto parla nella corrispondenza. Per concludere poi con una nota di soddisfazione, al ricordo della notte trascorsa a metà giugno 1833 incalminato nello Stretto di Messina, alla vista dei lontani fuochi delle coste – incalminato, cioè in calma piatta – “lontani” in realtà vicini, lo Stretto è… stretto, ma remotizzati dalla notte. Ne trasse ispirazione per “Lead Kindly Night”, che viene presentato come “uno dei più begli inni della liturgia anglicana”.
L’inno è “The Pillar of the Cloud”, datato at sea, in mare, 16 giugno 1833:
Lead, Kindly Light, amid the encircling gloom
Lead Thou me on!....
Guida, luce gentile,
nello sconforto che ci attornia,
portami via!...”
L’inno è riferito allo Stretto di Messina dallo studioso del cardinale Simon Leys, “Le Studio de l’inutilité”. E avrebbe potuto essere, lo Stretto è, in ogni stagione, un luogo incantato – niente a che vedere con Scilla e Cariddi.  Ma il cardinale stesso, scrivendone agli amici, spiega che l’ispirazione gli venne negli stretti di Bonifacio, all’altezza della Corsica, mentre si trasportava a Marsiglia, da Palermo, dove era stato inferno per tre settimane - lui stesso non sapeva di che: diceva di nostalgia, di un malessere quindi psicosomatico, ma il suo valletto non gli credeva.

Fu sede del secondo collegio per l’istruzione dei non professi, registra la storia dei gesuiti, dei giovani laici - dopo quello aperto nel 1544 a Gandia, la città tra Valencia e Alicante, dal futuro santo Francisco Borgia per i moriscos. Essendo venuto al corrente di quello che era accaduto a Gandia, Jerónimo Doménech pensò di fondare un collegio a Messina, avendovi trovato un’immensa ignoranza nel clero: coinvolse nell’iniziativa Eleonora Osorio, la moglie del viceré di Sicilia, e il 19 dicembre 1547 le autorità cittadine chiesero a Ignazio l’invio di insegnanti, ai quali si garantiva cibo, vestiario e alloggio – poi il collegio fu spostato ad Acireale.

Pascoli, che ci abitò con la sorella Mariù, ne mantenne ricordo ottimo: “Io ci ho passato i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie della mia vita”, scriverà qualche anno dopo, il 10 luglio 1910 a Ludovico Fulci – deputato radicale di Messina per vent’anni, mazziniano, docente di Diritto Penale. Fa grande caso Dumas nelle sue opere più tarde - specialmente ne “I garibaldini”, dove lo ritrova tra i sobborghi marinari (allora) di Messina, dai nomi beneauguranti di Pace e Paradiso - del capitano Arena, persona e personaggio del suo romanzo di viaggio “Lo speronare”, insieme col giovane militare francese esule De Flotte: un siciliano dal “volto buono, sempre sereno, anche nella tempesta”.
Fu l’ultima ad arrendersi ai Savoia, dopo Gaeta, il 13 marzo 1861. Ma di Messina Emerson ricorda che “in un giorno di pioggia tutte le vie si accesero di ombrelli rossi”. Era stata la città che per prima aveva chiesto la Costituzione nel ’48, finendo per dare il nome al Re Bomba, Ferdinando II delle Due Sicilie, che la distrusse per due terzi, raccapricciando l’Europa.
Un passato di spessore, insomma, di una cittadona oggi informe, di passaggio per il traffico col continente. Già committente di Antonello, Caravaggio, Ribera, Guercino, Mattia Preti, Rembrandt, per mani munifiche e di gusto, da ultimo nel Seicento Antonio Ruffo della Scaletta, di Bagnara là di fronte oltre lo Stretto, collezionista reputato in tutta Europa, fra artisti, procuratori e connoisseurs - lasciò una collezione di 1.500 quadri. Il nobile e ricco Bembo - che inventerà l’italiano, sarà l’amante di Lucrezia Borgia e morirà cardinale - venne a impararvi il greco da Costantino Lascaris, che la città non sa chi sia – come del resto Evemero e lo stesso Bembo. La città mantiene postura strepitosa e quartieri di nome Paradiso, Pace, Contemplazione. Ma trascura Antonello e Caravaggio, che tuttora ospita. Trascura anche Alessandro Scarlatti, che vi è nato. Per non dire di Polidoro Caldara detto da Caravaggio che vi è sepolto, rifugiato in città da Roma dopo il Sacco – ucciso da un discepolo, Tono Calabrese, in un tentativo di rapina (un ragazzetto, per come lo ha lasciato dipinto Polidoro nell’“Adorazione dei pastori” a Capodimonte, uno dei tanti): nel primo catalogo del secolo d’oro, di Giovan Paolo Lomazzo, “Idea del Tempio della Pittura”, 1590, Polidoro da Caravaggio è tra i sette “governatori dell’arte”, lui con Leonardo, Michelangelo, Raffello, Mantegna Tiziano, e Gaudenzio Ferrari. Antonello vi ebbe una mostra nel 1953, ma era un’idea del buonissimo architetto Scarpa, veneziano.
Con un ruolo all’improvviso invertito rispetto a Reggio Calabria, sia “Risa” l’una o l’altra città. Reggio e Messina, benché divise dallo Stretto, sono da tempo considerate dai geografi una “conurbazione”: due città integrate. Con un ruolo subordinato di Reggio nei confronti di Messina. Che aveva l’università, i migliori specialisti e le migliori cure, i migliori negozi di abbigliamento, e perfino le migliori pasticcerie. Un porto migliore, a uso militare a civile, con un arsenale – cantiere navale militare. Più impieghi e più investimenti di Reggio. Una squadra in serie A, o almeno in serie B. E faceva i giornali (“il” giornale, la “Gazzetta del Sud”) per Reggio.
La conurbazione era più egualitaria in materia religiosa e sportiva: molti messinesi erano – e sono - devoti della Madonna di Polsi in Aspromonte. E andavano – e vanno – a raccogliere funghi e sciare in Aspromonte piuttosto che sull’Etna. Ma più estesa, e quasi ancillare, era la devozione di Palmi e Reggio per la Madonna della Lettera di Messina, e anche per la Madonna Nera di Tindari. E di tutto il reggino per Mata e Grifone, i “giganti” di cartapesta di Messina. Nel quadro di una subordinazione di Metauros (oggi grosso modo Gioia Tauro), che pure era colonia locrese, a Messina-Zancle.
Fino a pochi anni fa Messina era la capitale della Calabria, culturale, commerciale e professionale – si andava a Messina anche per il dentista. Ora ogni città calabrese si può dire più ricca di Messina, che si è ridotta a fare da transito dall’A 3 all’A 18, ai traghetti canguro roll on-roll off.  A pochi metri dall’approdo dei canguro ha un museo provinciale pieno di Antonello e Caravaggio, ma nessuno lo sa – Antonello che visse quarantanove anni appena, e lascia quarantanove capolavori, da Dresda a San Diego di California. Messina ha liquidato la cinquecentesca università, relegandola in irraggiungibili periferie, e il commercio, riducendosi al ruolo di piccolo società di galantuomini, chiusa nelle ville di Ganzirri e Capo Faro mentre fuori imperversa il popolazzo vile e corrotto – che non c’è più, nemmeno quello, solo immigrati nordafricani spaesati, per piazza Cairoli e il viale San Martino. Ha rifatto in piccolo la fuga da se stessa che ha fatto Marsiglia – ora però recuperata dopo un trentennio di abbandono. Mentre le città calabresi hanno ognuna la loro università, i centri commerciali rutilanti e, bene o male, l’ospedale.
Lo storico Galasso documenta, “La Calabria spagnola”, un traffico molto più intenso a Messina nel Cinquecento rispetto a Reggio. E nella stessa Reggio un buon terzo delle operazioni portuali in capo ad agenti e committenti messinesi. Oggi il traffico è invertito. Reggio ha centri commerciali, musei e rovine ben curate, ristoranti, pasticcerie, e l’università, mentre Messina si è ristretta. Imbruttita anche. Reggio si ripulisce, ed è perfino un porto attivo, anche se solo per l’immigrazione irregolare, mentre Messina è un porto bello e vuoto, se non per imbarcazioni minime della Marina Militare  – le traghetto dalla Calabria utilizzano un attracco fuori città verso capo Faro, lontano dal porto, allo snodo con le autostrade per Catania e Palermo. A Messina attraccano 150 navi crociera l’anno, ma per prendere l’autostrada per Taormina.
Al museo - la galleria provinciale, con gli Antonello e i Caravaggio - Longanesi scopriva “la tristezza siciliana , antica di secoli, che li lega e ci segue da una stanza all’altra”. Di quadri alle pareti “tutti eguali, scuriti e sinistri, come dipinti dallo stesso artista in secoli diversi”. Lo sono ancora. Al “gran caffè” di Messina, che sarà stato l’Irrera di piazza Cairoli, all’epoca un monumento fastoso degli anni 1930, rutilante di specchi, marmi, pasticceria policroma, Longanesi trovò tutti eccitati dalla sua presenza – dalla presenza del forestiero: “Il caffè è gremito di folla rumorosa e eccitata; tutti guardano noi, nuovi del luogo; e ci guardano insistenti, con occhi desolati e teneri che sembrano celare un amoroso lamento”. Come le bestie allo zoo guardano il visitatore.
“Vista dal ferry boat che attraversa lo Stretto dal continente, Messina appare una piccola città portuale ragionevolmente prospera, con alcuni grandi moderni palazzi di uffici, soprattutto banche, sul lungomare, e con ville graziose di media grandezza distribuite sulle colline dietro la città. L’impressione è falsa. Messina è di fatto una città morta”. È la silhouette che della città disegna Margaret Carlyle, “The Awakening of Southern Italy”, 1962. Avendoci vissuto in quegli anni per fare le scuole, non si può che testimoniarlo: era città gradevole. Che fosse morta però non si vedeva. Sarà accertato qualche anno dopo, quando la città e la gloriosa università riusciranno anche a imbruttirsi, nello squallore. La storia come freccia può andare al rovescio. 

Meridionale era il fascismo
Era – si voleva - “Sud” l’Italia fascista, orgogliosamente, la reincarnazione leghista avrebbe problemi ad avallarlo. Per tutti il corsivo che apre “L’Italiano”, la rivista di Arpinati e Mussolini, diretta da Leo Longanesi, al n. 1, il 14 gennaio 1926. È con un programma di Sud contro Nord che la rivista si propone:
“I popoli nordici hanno la nebbia, che va di pari passo con la democrazia, con gli occhiali, col protestantesimo, col futurismo, con l’utopia, col suffragio universale, con la birra, con Boecklin, con la caserma prussiana, col cattivo gusto, coi cinque pasti e la tisi Marxista.
“L’Italia ha il sole, e col sole non si può concepire che la Chiesa, il classicismo, Dante, entusiasmo, l’armonia, la salute filosofica, il fascismo, l’antidemocrazia, Mussolini.
“Questo giornale cercherà di dissipare le nebbie nordiche che sono scese in Italia per offuscare il sole che Dio ci ha dato”.

leuzzi@antiit.eu

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