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venerdì 30 marzo 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (358)

Giuseppe Leuzzi

Il Sud era il Reame già nel Cinquecento. Francesco Vettori ne scrive incidentalmente, viaggiando verso la Germania, a proposito di un abruzzese incontrato fuori Bologna: “Uomo da bene, io ho quaranta anni e sono da Pescara nel Reame”.

Lo stesso Vettori trova cosa strana da segnalare, nel suo “Viaggio in Germania”, un “castelletto sul Reno chiamato S. Pietro”, dove “era il dì, come interviene e’ paesi nostri, che certi scioperati stanno in su l’osterie a parlare con chi va a torno”.

Il razzismo è senza fondo
Toni Morrison, la grande dame della letteratura americana, nera, 87 anni, Nobel 1993, riceve  l’americanista Luca Briasco per “il Venerdì di Repubblica”, a casa sua – Birasco ne riferisce nel numero del 16 marzo. Una villa su due piani, di cui l’anziana scrittrice occupa il secondo. Impedita dalle scale, manda ad accogliere l’intervistatore la governante. Una signora italiana.
Fra i tanti ricordi Toni Morrison ne ha uno italiano. Un ricordo d’infanzia, benché l’abbia vissuta in  uno sperduto villaggio dell’Ohio, anzi proprio per questo. “Io sono nata nel 1931 a Lorain, Ohio”, racconta a un certo punto: “Un villaggio povero e proprio per questo misto. Alle elementari il mio compagno di banco era un italiano: Ario Jacobazzi. Non parlava una parola di inglese e lo misero vicino a me: dovevo aiutarlo. Una volta per insultarmi  mi chiamo «eritrea». E allora? mi chiesi. Non avevo idea di cosa significasse «eritrea» per un italiano”.
Erano gli anni 1930, certo, scusabile. Ma il figlio chiamato Ario? E quell’eritrea in bocca al bambino, certo di origine genitoriale - grossi “conflitti” si immaginano per il proprio bambino messo accanto a una nera. Non in virtù della desegregazione, lontana ancora anni luce.
Resta che negli anni 1930 gli Usa non distinguevano, non tra un italiano e un’afroamericana. Il razzismo e difficile. Si può dire anche egualitario, nella sua superiore albagia.

Le palme dismesse
La festa si chiama ancora delle Palme, ma le palme sono state dismesse, soppiantate dal più pratico rametto di ulivo. Che si ritrova anche al Nord, mentre la palma è proprio meridionale, un uso anzi greco, della cristianità ortodossa. A Betlemme e Gerusalemme la giornata si celebre ancora con le palme. A Roma hanno perpetuato l’uso per anni i rumeni, ortodossi, provvisoriamente, da clandestini e poi irregolari, in anditi riposti attorno al colonnato di San Pietro, l’unico luogo dove reperire la palma, volendo conservare la tradizione - le tradizioni si perdono, si abbandonano anche, in cambio di nulla. In pura perdita.
Quest’anno i rumeni non ci sono, forse hanno fatto fortuna, non hanno più interesse al piccolo commercio domenicale. Sulla via della Conciliazione non s’incontra anzi nessuno che abbia in mano la palma da benedire. Né tra i borghi adiacenti. In piazza della Città Leonina giusto un cardinale s’avanza eretto lento, trascinando i piedi, verso la foresteria-residenza, con un bellissimo monumentale intreccio di palme scintillante sul braccio. Non scoraggia la domanda, ma risponde ironico: “L’ho avuta in San Pietro. La danno ai vescovi e ai cardinali”. Finché, ripercorrendo lenti la via della Conciliazione un giovane s’incontra, fermo accanto a un trolley, da cui il ciuffo di una palmetta spunta. Richiesto dove se l’è procurata, apre il trolley: le vende.
È contento. Non sa che prezzo chiedere. Una moglie ragazza emerge accanto a lui, cui il giovane chiede in dialetto. “Sardi?” “Di Cagliari”, il giovane risponde orgoglioso accentuando il sorriso. “Due euro”, dice incerta la ragazza. Molto meno di quanto chiedevano i rumeni gli anni passati. Per un rametto poco lavorato, solo sbucciato. Mentre questi della giovane copia sarda sono intrecciati in variati complicati motivi, a rete, a ruota, a fiore. Fa male che ci sia gente, giovane, che viva di così poco. Che consideri un prezzo due euro.
È una bella giornata di sole. Papa Francesco finisce di dire i suoi scherzi ai giovani dopo l’Angelus, nel piccolo bagno di folla selezionata per i selfie da postare, incoraggiando i giovani a ribellarsi, e le donne pure. E si ritira. Non fa il previsto giro della piazza, prolungato quest’anno su via della Conciliazione. Le transenne vengono allora smontate, i militari di guardia al percorso si ritirano, la sicurezza si allenta. Ci disperdiamo con i fedeli di vario eloquio convenuti per la benedizione. Il giovane non s’incontra più. La ragazza è affiancata da una matrona, madre o suocera. Un bambino offre le palme ben dispiegate su una cesta. Il nostro acquisto li avrà liberati. Oppure non hanno più motivo di temere le guardie. È la tipica famigliola rom. Di Cagliari, orgogliosa. Operosa. Certo, con cautela: il cesto delle palmette in mano al bambino è al sicuro, le guardie non potranno fargli nulla. Saranno stati rom anche i rumeni degli altri anni? I custodi della tradizione.

La lingua del Nord
Colm Tóibín, il romanziere irlandese, ha scoperto “la verità del Nord” (“The hard-won Truth of the North”, in “The New York Review of Books”, 9 luglio 2015): uno “stile nordico”, che “non è né ornamento né esaltazione: è fiero e quasi desolato nel suo scopo”. Non imperialista, anzi ritroso: la verità del Nord parte dalla  constatazione che “il nostro tempo sulla terra non fornisce ragione o necessità di dire altro che quanto è necessario; il linguaggio è quindi un forma di calma, di modesta conoscenza o forse anche di evasione”. Saranno stati quindi Seneca, Plinio, Dante, anche Galileo, nordici?
Ma più che la concisione, fa il Nord la tristezza. “È come se certi paesaggi, inclusa la Svezia dello scrittore Stig Dagerman (che morì nel 1954 quando aveva trentun’anni), avessero un loro proprio suono. Paesaggi nordico me il suo ci arrivano senza elaborata descrizione o abbellimento, o una qualsiasi mostra di compiacimento. La luce è scarsa, e così anche l’emozione è razionata, o tenuta dentro e mai compiaciuta”. Il saggio prosegue con lo “spirito diffidente”, il tempo avverso (“nebbia, vento, nuvole, giorni brevi”), e “la prossimità del mare, il clima mutevole, la povertà o la memoria della povertà”, un concorso di cause che fanno del Nord “un mondo in cui poco si può ritenere garantito”. E dei suoi scrittori e poeti una sorta di minatori, che “hanno scavato questo senso di scarsità e trovato una poesia austera, una verità a caro prezzo”. Se non che leggendo Dagerman questo non emerge, o Thomas Tranströmer, che Tóibín porta a esempio – o Hamsun, nemmeno in Ibsen.
Lo stesso nelle immagini, pitture o film, di “certi artisti visuali nordici”: “Ombre grigie, luce soffusa, un senso di colore slavato, spettralità e sofferenza, con un’aura di assenza e occultamento di chiare informazioni, e la presenza di forti e austeri drammi, appaiono anche nel loro lavoro”. Forse Tóibín non visto Antonioni, o il Pasolini dei drammi, o anche solo Carrà. Ma certo c’è una specificità nordica, la volontà di essere.

leuzzi@antiit.eu

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