Il Sud era il
Reame già nel Cinquecento. Francesco Vettori ne scrive incidentalmente,
viaggiando verso la Germania, a proposito di un abruzzese incontrato fuori
Bologna: “Uomo da bene, io ho quaranta anni e sono da Pescara nel Reame”.
Lo stesso
Vettori trova cosa strana da segnalare, nel suo “Viaggio in Germania”, un
“castelletto sul Reno chiamato S. Pietro”, dove “era il dì, come interviene e’
paesi nostri, che certi scioperati stanno in su l’osterie a parlare con chi va
a torno”.
Il
razzismo è senza fondo
Toni Morrison, la grande dame della letteratura americana, nera, 87 anni, Nobel 1993,
riceve l’americanista Luca Briasco per
“il Venerdì di Repubblica”, a casa sua – Birasco ne riferisce nel numero del 16
marzo. Una villa su due piani, di cui l’anziana scrittrice occupa il secondo.
Impedita dalle scale, manda ad accogliere l’intervistatore la governante. Una
signora italiana.
Fra i tanti
ricordi Toni Morrison ne ha uno italiano. Un ricordo d’infanzia, benché l’abbia
vissuta in uno sperduto villaggio
dell’Ohio, anzi proprio per questo. “Io sono
nata nel 1931 a Lorain, Ohio”, racconta a un certo punto: “Un villaggio povero
e proprio per questo misto. Alle elementari il mio compagno di banco era un
italiano: Ario Jacobazzi. Non parlava una parola di inglese e lo misero vicino
a me: dovevo aiutarlo. Una volta per insultarmi
mi chiamo «eritrea». E allora?
mi chiesi. Non avevo idea di cosa significasse «eritrea» per un italiano”.
Erano gli anni 1930, certo, scusabile. Ma il figlio chiamato
Ario? E quell’eritrea in bocca al bambino, certo di origine genitoriale -
grossi “conflitti” si immaginano per il proprio bambino messo accanto a una
nera. Non in virtù della desegregazione, lontana ancora anni luce.
Resta che negli anni 1930 gli Usa non distinguevano,
non tra un italiano e un’afroamericana. Il razzismo e difficile. Si può dire anche
egualitario, nella sua superiore albagia.
Le
palme dismesse
La festa si chiama ancora delle Palme,
ma le palme sono state dismesse, soppiantate dal più pratico rametto di ulivo.
Che si ritrova anche al Nord, mentre la palma è proprio meridionale, un uso anzi
greco, della cristianità ortodossa. A Betlemme e Gerusalemme la giornata si celebre ancora con le palme. A Roma hanno perpetuato l’uso per anni i
rumeni, ortodossi, provvisoriamente, da clandestini e poi irregolari, in anditi
riposti attorno al colonnato di San Pietro, l’unico luogo dove reperire la
palma, volendo conservare la tradizione - le tradizioni si perdono, si
abbandonano anche, in cambio di nulla. In pura perdita.
Quest’anno i rumeni non ci sono, forse
hanno fatto fortuna, non hanno più interesse al piccolo commercio domenicale.
Sulla via della Conciliazione non s’incontra anzi nessuno che abbia in mano la
palma da benedire. Né tra i borghi adiacenti. In piazza della Città Leonina giusto
un cardinale s’avanza eretto lento, trascinando i piedi, verso la foresteria-residenza,
con un bellissimo monumentale intreccio di palme scintillante sul braccio. Non
scoraggia la domanda, ma risponde ironico: “L’ho avuta in San Pietro. La danno
ai vescovi e ai cardinali”. Finché, ripercorrendo lenti la via della
Conciliazione un giovane s’incontra, fermo accanto a un trolley, da cui il
ciuffo di una palmetta spunta. Richiesto dove se l’è procurata, apre il
trolley: le vende.
È contento. Non sa che prezzo chiedere.
Una moglie ragazza emerge accanto a lui, cui il giovane chiede in dialetto.
“Sardi?” “Di Cagliari”, il giovane risponde orgoglioso accentuando il sorriso. “Due
euro”, dice incerta la ragazza. Molto meno di quanto chiedevano i rumeni gli
anni passati. Per un rametto poco lavorato, solo sbucciato. Mentre questi della
giovane copia sarda sono intrecciati in variati complicati motivi, a rete, a
ruota, a fiore. Fa male che ci sia gente, giovane, che viva di così poco. Che
consideri un prezzo due euro.
È una bella giornata di sole. Papa
Francesco finisce di dire i suoi scherzi ai giovani dopo l’Angelus, nel piccolo
bagno di folla selezionata per i selfie da
postare, incoraggiando i giovani a ribellarsi, e le donne pure. E si ritira. Non
fa il previsto giro della piazza, prolungato quest’anno su via della
Conciliazione. Le transenne vengono allora smontate, i militari di guardia al
percorso si ritirano, la sicurezza si allenta. Ci disperdiamo con i fedeli di
vario eloquio convenuti per la benedizione. Il giovane non s’incontra più. La
ragazza è affiancata da una matrona, madre o suocera. Un bambino offre le palme
ben dispiegate su una cesta. Il nostro acquisto li avrà liberati. Oppure non
hanno più motivo di temere le guardie. È la tipica famigliola rom. Di Cagliari,
orgogliosa. Operosa. Certo, con cautela: il cesto delle palmette in mano al
bambino è al sicuro, le guardie non potranno fargli nulla. Saranno stati rom
anche i rumeni degli altri anni? I custodi della tradizione.
La
lingua del Nord
Colm Tóibín, il romanziere irlandese, ha
scoperto “la verità del Nord” (“The hard-won Truth of the North”, in “The New
York Review of Books”, 9 luglio 2015): uno “stile nordico”, che “non è né
ornamento né esaltazione: è fiero e quasi desolato nel suo scopo”. Non
imperialista, anzi ritroso: la verità del Nord parte dalla constatazione che “il nostro tempo sulla
terra non fornisce ragione o necessità di dire altro che quanto è necessario;
il linguaggio è quindi un forma di calma, di modesta conoscenza o forse anche
di evasione”. Saranno stati quindi Seneca, Plinio, Dante, anche Galileo,
nordici?
Ma più che la concisione, fa il Nord la
tristezza. “È come se certi paesaggi, inclusa la Svezia dello scrittore Stig
Dagerman (che morì nel 1954 quando aveva trentun’anni), avessero un loro
proprio suono. Paesaggi nordico me il suo ci arrivano senza elaborata
descrizione o abbellimento, o una qualsiasi mostra di compiacimento. La luce è
scarsa, e così anche l’emozione è razionata, o tenuta dentro e mai
compiaciuta”. Il saggio prosegue con lo “spirito diffidente”, il tempo avverso
(“nebbia, vento, nuvole, giorni brevi”), e “la prossimità del mare, il clima mutevole,
la povertà o la memoria della povertà”, un concorso di cause che fanno del Nord
“un mondo in cui poco si può ritenere garantito”. E dei suoi scrittori e poeti
una sorta di minatori, che “hanno scavato questo senso di scarsità e trovato
una poesia austera, una verità a caro prezzo”. Se non che leggendo Dagerman
questo non emerge, o Thomas Tranströmer, che Tóibín porta a esempio – o Hamsun,
nemmeno in Ibsen.
Lo stesso nelle immagini, pitture o
film, di “certi artisti visuali nordici”: “Ombre grigie, luce soffusa, un senso
di colore slavato, spettralità e sofferenza, con un’aura di assenza e
occultamento di chiare informazioni, e la presenza di forti e austeri drammi,
appaiono anche nel loro lavoro”. Forse Tóibín non visto Antonioni, o il
Pasolini dei drammi, o anche solo Carrà. Ma certo c’è una specificità nordica,
la volontà di essere.
leuzzi@antiit.eu
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