“Naturalmente gli elenchi
sono sempre squallidi, soprattutto se squallide sono le cose da elencare, ma in
casi speciali può essere necessario compilarli”. L’occhio di Dagerman non
impassionato, ma eloquente. Non di proposito, ma di fatto: nella ripetizione,
nella assoluta mancanza di respiro, di luce, e di colpa. La guerra brutta della
Germania è il dopoguerra: fame e sporcizia, e prostituzione per fame. “Non
siamo stati puniti abbastanza” è lamento onesto. “La sofferenza tedesca è
collettiva mentre le crudeltà tedesche, nonostante tutto, non lo furono”.
Un reportage problematico
dalla Germania a un anno e mezzo dalla sconfitta. È il secondo autunno
dell’occupazione, e Dagerman dà voce a una Germania già revanscista. Tenuta
alla fame e al freddo dagli occupanti occidentali. Che la umiliano anche con
una denazificazione ipocrita, lasciando al loro posto e anzi promuovendoli i
veri nazisti – quando non li processano e li impiccano per loro leggi ipocrite.
Assediata dai comunisti a Est, russi e polacchi, che la invadono con sette
milioni di rifugiati, gli espulsi dalla vecchia Germania della Galizia e della
Slesia. Tradita dai partiti politici, specie dai socialisti, ma anche dai
cattolici, manutengoli degli occupanti, che vogliono farla votare per il
Parlamento. Per non parlare dei bombardamenti.
Siamo al secondo autunno della sconfitta – alla vigilia del piano
Marshall, e del boom. E qualche colpa
gli altri l’avranno pure. Ma è uno strano nonconformismo, questo del giovane
anarchico Dagerman, inviato dal quotidiano di Stoccolma “Expressen” a
raccontare la sconfitta, non da gionalista, per evitare i cliché , ma da fresco sposo di giovane anarchica tedesca. Come
strana è la riproposizione di questa sua opera, fra le tante che pur morendo di
trentun’anni (suicida) ha lasciato: tre volte in Italia dalla caduta del Muro.
A Torino con Il Quadrante, e a Milano con Lindau, prima che con Iperborea -
sempre con la traduzione di Massimo Ciaravolo e la cura di Fulvio Ferrari,
“L’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possible” (qui con l’aggiunta
di uno scritto simpatetico di Giorgio Fontana).
Un libro si direbbe vecchio, della miseria che inevitabile segue le
guerre perdute. Ma dall’intento revisionista, seppure anarcoide, dichiarato. La
mancanza di memoria è assordante, da sincope. A partire dagli sfollati, un
fenomeno avviato da Hitler, come “rimpatrio”, e poi moltiplicato negli accordi
con Stalin, per uno scambio di popolazioni, nell’ottica della purezza etnica. Non
mancano i cliché. “L’unica forma di
educazione democratica finora intrapresa dagli alleati “ è di “insegnare il
baseball ai ragazzi”. La denazificazione è una ridicola procedura imposta dagli
Americani, che porta a processare tutti
gli iscritti al partito Nazista – come dire: tutti processati nessuno
processato. I processi a catena nei tribunali sono ridotti a una pacchia per i
testimoni a discarico, che sempre si trovano, per 200 euro. Il terz’ultimo
capitolo, l’ultimo delle cose viste, “Nel bosco degli impiccati”, termina così:
“Un giurista nazista raccoglie la legna in un bosco dove appena due anni fa i
nazisti hanno impiccato dei bambini”, mentre più in là “gli americani sparano
al cinghiale con le munizioni della vittoria”.
Dagerman, che nella foto del 1946, poco più che ventenne, si vede
brevilineo e paffuto, il tipo del bonaccione, è amareggiato dalla vittoria. Non
lo nasconde. Dal malgoverno della vittoria, ma con una distinta rimessa in
gioco delle responsabilità nella guerra. Parte da lui il revanscismo sui
bombardamenti, che poi sarà agitato da Vonnegut, Sebald e molti altri.
La guerra aerea non è onorevole. E gli Usa, che ne hanno il dominio,
ne abusano. Con la tendenza a privilegiarla, anche se non risolutiva – non
tanto quanto è distruttiva. Ancora recentemente, hanno “vinto” in Afghanistan e
in Iraq in pochi giorni con i bombardieri, salvo ritrovarsi impantanati in
guerre endemiche sul terreno da decenni
– per l’incapacità anche di ricostruire: l’Europa e il piano Marshall
sono felici eccezioni. Ma gli Alleati non possono avere la colpa
dell’infelicità dei tedeschi se quindici mesi dopo la fine della guerra non ci
sono abitazioni civili e non c’è il riscaldamento – di fame non si moriva.
In
filigrana peraltro, contro l’impianto, questa raccolta delle tredici
corrispondenze di Dagerman (scritte non a caldo, ma dopo il ritorno a
Stoccolma, e riviste per la ripubblicazione in volume) ha notazioni anche
“rivelatrici”. Nessuno in Germania ha denunciato nessuno, tutti ascoltavano in
segreto radio Londra, e aiutavano un ebreo, o avevano un parente o buoni
conoscenti ebrei. Un reduce di Stalingrado, “diventato un filo-russo fanatico
perché non è stato fucilato alla cattura”, racconta “ininterttamente di come una volta i
suoi commilitoni rivestirono il parapetto di un ponte di cadaveri russi nudi,
per il divertimento di scattare una fotografia davvero unica”. Un autore
tedesco che Dagerman apprezza dice suoi anni più felici quelli della guerra,
per aver contribuito con le sue conferenze nella Francia occupata
“all’avvicinamento tra cultura tedesca e cultura francese”. Di più: “Dice,
nonostante tutto, di avere apprezzato la Resistenza francese e di altri Paesi
ma non quella tedesca, ingiustificata dal punto di vista nazionale”. Perché,
spiega convinto, “solo chi non sapeva tenere il becco chiuso finiva in campo di
concentramento. Perché non hanno taciuto
cercando di sopravvivere per questi dodici anni?”. O della viltà come virtù –
non è per caso che non c’è ancora una storia della Resistenza tedesca, che fu
la maggiore per ampiezza e continuità in tutta Europa.
Dagerman non può negare la colpa collettiva,
che i tedeschi sapessero. Ma solo incidentalmente, riferendo di un processo di
denazificazione, le Spruchkammern,
cui ha assistito, con un resoconto a doppio taglio. “Uno dei testimoni ebrei”
spiega al giudice: “Nello stabile del signor Sinne”, il portiere
(capofabbricato) sotto giudizio, “abitava un alto funzionario del partito, ma,
com’era tipico, non avevamo mai paura di lui. Del signor Sinne invece avevamo
paura tutti. Il Signor Sinne non apparteneva ai vertici nazisti, era una di
quelle ruote dell’ingranaggio così silenziose, fedeli e spaventosamente
efficienti senza le quali la macchina
nazista non avrebbe funzionato un solo giorno”. Una testimonianza molto
“scritta”, compreso l’ebreo inquilino dello stabile del signor Sinne, che nel
1946 poteva raccontarla. Ma sa molto di vita quotidiana. Mentre i “vertici
nazisti”, come si sa, non si occupavano di ebrei.
Stig Dagermann, Autunno
Tedesco, Iperborea, pp. 159 € 16
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