mercoledì 28 marzo 2018

I tedeschi non hanno colpa

“Naturalmente  gli elenchi sono sempre squallidi, soprattutto se squallide sono le cose da elencare, ma in casi speciali può essere necessario compilarli”. L’occhio di Dagerman non impassionato, ma eloquente. Non di proposito, ma di fatto: nella ripetizione, nella assoluta mancanza di respiro, di luce, e di colpa. La guerra brutta della Germania è il dopoguerra: fame e sporcizia, e prostituzione per fame. “Non siamo stati puniti abbastanza” è lamento onesto. “La sofferenza tedesca è collettiva mentre le crudeltà tedesche, nonostante tutto, non lo furono”.
Un reportage problematico dalla Germania a un anno e mezzo dalla sconfitta. È il secondo autunno dell’occupazione, e Dagerman dà voce a una Germania già revanscista. Tenuta alla fame e al freddo dagli occupanti occidentali. Che la umiliano anche con una denazificazione ipocrita, lasciando al loro posto e anzi promuovendoli i veri nazisti – quando non li processano e li impiccano per loro leggi ipocrite. Assediata dai comunisti a Est, russi e polacchi, che la invadono con sette milioni di rifugiati, gli espulsi dalla vecchia Germania della Galizia e della Slesia. Tradita dai partiti politici, specie dai socialisti, ma anche dai cattolici, manutengoli degli occupanti, che vogliono farla votare per il Parlamento. Per non parlare dei bombardamenti.
Siamo al secondo autunno della sconfitta – alla vigilia del piano Marshall, e del boom. E qualche colpa gli altri l’avranno pure. Ma è uno strano nonconformismo, questo del giovane anarchico Dagerman, inviato dal quotidiano di Stoccolma “Expressen” a raccontare la sconfitta, non da gionalista, per evitare i cliché , ma da fresco sposo di giovane anarchica tedesca. Come strana è la riproposizione di questa sua opera, fra le tante che pur morendo di trentun’anni (suicida) ha lasciato: tre volte in Italia dalla caduta del Muro. A Torino con Il Quadrante, e a Milano con Lindau, prima che con Iperborea - sempre con la traduzione di Massimo Ciaravolo e la cura di Fulvio Ferrari, “L’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possible” (qui con l’aggiunta di uno scritto simpatetico di Giorgio Fontana).
Un libro si direbbe vecchio, della miseria che inevitabile segue le guerre perdute. Ma dall’intento revisionista, seppure anarcoide, dichiarato. La mancanza di memoria è assordante, da sincope. A partire dagli sfollati, un fenomeno avviato da Hitler, come “rimpatrio”, e poi moltiplicato negli accordi con Stalin, per uno scambio di popolazioni, nell’ottica della purezza etnica. Non mancano i cliché. “L’unica forma di educazione democratica finora intrapresa dagli alleati “ è di “insegnare il baseball ai ragazzi”. La denazificazione è una ridicola procedura imposta dagli Americani, che porta a processare tutti gli iscritti al partito Nazista – come dire: tutti processati nessuno processato. I processi a catena nei tribunali sono ridotti a una pacchia per i testimoni a discarico, che sempre si trovano, per 200 euro. Il terz’ultimo capitolo, l’ultimo delle cose viste, “Nel bosco degli impiccati”, termina così: “Un giurista nazista raccoglie la legna in un bosco dove appena due anni fa i nazisti hanno impiccato dei bambini”, mentre più in là “gli americani sparano al cinghiale con le munizioni della vittoria”.
Dagerman, che nella foto del 1946, poco più che ventenne, si vede brevilineo e paffuto, il tipo del bonaccione, è amareggiato dalla vittoria. Non lo nasconde. Dal malgoverno della vittoria, ma con una distinta rimessa in gioco delle responsabilità nella guerra. Parte da lui il revanscismo sui bombardamenti, che poi sarà agitato da Vonnegut, Sebald e molti altri.
La guerra aerea non è onorevole. E gli Usa, che ne hanno il dominio, ne abusano. Con la tendenza a privilegiarla, anche se non risolutiva – non tanto quanto è distruttiva. Ancora recentemente, hanno “vinto” in Afghanistan e in Iraq in pochi giorni con i bombardieri, salvo ritrovarsi impantanati in guerre endemiche sul terreno da decenni  – per l’incapacità anche di ricostruire: l’Europa e il piano Marshall sono felici eccezioni. Ma gli Alleati non possono avere la colpa dell’infelicità dei tedeschi se quindici mesi dopo la fine della guerra non ci sono abitazioni civili e non c’è il riscaldamento – di fame non si moriva.
In filigrana peraltro, contro l’impianto, questa raccolta delle tredici corrispondenze di Dagerman (scritte non a caldo, ma dopo il ritorno a Stoccolma, e riviste per la ripubblicazione in volume) ha notazioni anche “rivelatrici”. Nessuno in Germania ha denunciato nessuno, tutti ascoltavano in segreto radio Londra, e aiutavano un ebreo, o avevano un parente o buoni conoscenti ebrei. Un reduce di Stalingrado, “diventato un filo-russo fanatico perché non è stato fucilato alla cattura”,  racconta “ininterttamente di come una volta i suoi commilitoni rivestirono il parapetto di un ponte di cadaveri russi nudi, per il divertimento di scattare una fotografia davvero unica”. Un autore tedesco che Dagerman apprezza dice suoi anni più felici quelli della guerra, per aver contribuito con le sue conferenze nella Francia occupata “all’avvicinamento tra cultura tedesca e cultura francese”. Di più: “Dice, nonostante tutto, di avere apprezzato la Resistenza francese e di altri Paesi ma non quella tedesca, ingiustificata dal punto di vista nazionale”. Perché, spiega convinto, “solo chi non sapeva tenere il becco chiuso finiva in campo di concentramento.  Perché non hanno taciuto cercando di sopravvivere per questi dodici anni?”. O della viltà come virtù – non è per caso che non c’è ancora una storia della Resistenza tedesca, che fu la maggiore per ampiezza e continuità in tutta Europa.

Dagerman non può negare la colpa collettiva, che i tedeschi sapessero. Ma solo incidentalmente, riferendo di un processo di denazificazione, le Spruchkammern, cui ha assistito, con un resoconto a doppio taglio. “Uno dei testimoni ebrei” spiega al giudice: “Nello stabile del signor Sinne”, il portiere (capofabbricato) sotto giudizio, “abitava un alto funzionario del partito, ma, com’era tipico, non avevamo mai paura di lui. Del signor Sinne invece avevamo paura tutti. Il Signor Sinne non apparteneva ai vertici nazisti, era una di quelle ruote dell’ingranaggio così silenziose, fedeli e spaventosamente efficienti senza le quali  la macchina nazista non avrebbe funzionato un solo giorno”. Una testimonianza molto “scritta”, compreso l’ebreo inquilino dello stabile del signor Sinne, che nel 1946 poteva raccontarla. Ma sa molto di vita quotidiana. Mentre i “vertici nazisti”, come si sa, non si occupavano di ebrei.
Stig Dagermann, Autunno Tedesco, Iperborea, pp. 159 € 16

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