mercoledì 21 marzo 2018

Il caso del morto vivente, o le stelle fredde dell’io

“Cos’è convivere con i morti”: il narratore si spegne per simulare la morte, con l’aiuto di Dostoevkij, di un analista pedagogo in aspetto di poliziotto, del ciliegio dell’infanzia a sua volta morto e sradicato, e del se stesso bambino impeccabile, ordinato e metodico, solitario. Placandosi nel non essere: “Il mondo esiste solo per essere catalogato”. Passioni? Rimorsi? Intelligenze? Ruminìo, alla macina dell’io.
Un romanzo pretenzioso, con cui Bompiani - cui il romanzo è dedicato - volle consacrare Piovene alla fine con lo Strega 1970, più noioso che non. Preceduto in questa riedizione da un lutulento saggio di Andrea Zanzotto. Che, solitamente misurato e illuminante, fa dell’ultima fatica del conterraneo il romanzo del Tutto: analitico, buddista, giallo, fantascientifico, proprio, alla Dick, poetico, dantesco, simbolico. Un saggio modellato sulla sarchiatura perenne della psicoanalisi fa, con tanto di “inifinitudine”, di “aggressività dell’inesistente”, e naturalmente di “buchi neri”, e di Narciso. Cosa non fa la solidarietà tribale?
Un romanzo giallo alla Dürrenmatt, alla Handke, alla Robbe-Grillet (Zanzotto), metafisico? O la storia del letterato disgustato della letteratura, “di Shakespeare, di Omero, dei tragici gerci” – di cui peraltro vede solo “le larve”? In un mondo sorpreso “dall’avvento delle stelle fredde”. “Hai mai visto una mosca”, chiede il personaggio-narratore al suo medico, “quando ronza furente perché il freddo la fa morire? Lo stesso loro, i caratteri, i personaggi, i morali, i fanatici, i missionari, i predicanti, i passionali, i credenti, i sinceri. Orribilmente falsi. Orribilmente ebeti. Orribilmente spettri. Disgustosamente parlanti. Mi ripugnano e io ripugno a loro”. Una professione di misantropia, che si direbbe chiuda il racconto. E invece lo apre: la p. 6, la quarta del romanzo, è un distillato dello sradicamento analitico. Un ritorno, a memorie morte. Un viaggio a ritroso, in un aldilà che è l’universo proprio, rimosso. Zanzotto trova che “di rapimenti danteschi echeggia tutta l’opera”. Ma il viaggio è scettico, non di fede, attraverso l’ironia.
“Opera di poesia”, lo dice ancora Zanzotto, “Piovene si abbandona alla poesia”. E “del fantastic nelle manipolazioni fantascientifiche”. Con una notazione però interessante: “Il fantastic nella tradizione veneta ha un notevole rilievo (e solo per Vicenza” , la città di Piovene, “basterebbe ricordare il primo Fogazzaro e il primo Parise)”.
Il romanzo si presenta in forma di giallo: succedono cose di cui non ci viene fornita la chiave. Con un padre censore, e poi un poliziotto filosofo. Come sempre in Piovene pieno-ricco di rimorsi: ossessioni, follie, la depersonalizzazione, l’alterazione delle percezioni - il protagonista-narratore si presenta sofferente, giovane, di ipoacusia, che eleva a “sordità differenziata”, anche di sé.
Zanzotto lo dice anche un ritorno narcissico, “impossibile\necessario”, che poi è la cifra di Piovene, “che genera sensi di colpa”: “Egli sa”, scrive Zanzotto probabilmente prima dell’ondata di selfie compiaciuti, “che oggi non si può ripiegare senza colpa su stati analoghi alle infanzie «paradisiache», come si credette nel primo ‘900”. Ma si può invertire l’ordine: sensi di colpa, seppure generici, provocano il ritorno narcissico.
Una narrazione psicoanalitica – un genere che si potrebbe anch’esso elevare a dato tribale, ricomprendendovi Svevo, Berto, e lo stesso Zanzotto.  Del rimosso dell’io intrattabile. Imperturbabile, dietro le schermaglie, di cui si fa corazza, impositivo. Irrelazionale. Un blocco. Il protagonista narratore si compiange come morto vivente. Ma allora di quelli “repubblicani” nella rivoluzione francese, che si legavano a un condannato per annegarlo senza sforzo. Un blocco solidifcato, dietro la presunta ricerca: il mondo è freddo perché l’io è freddo. Fredda è anche la memoria reale, dell’esistenza e non del rimosso. La “tecnica d’eliminazione” che il narratore dice di applicare a se stesso è una paratia che alza contro il mondo. Come uno di quegli “insetti che vogliono sfuggire a chi li guarda rimanendo immobile e facendo il morto”. Facendo il morto come in analisi, fuori dal mondo, in una sottile robusta paranoia, che la cura perpetua, ingualcibile. E insomma, che vorrà dire? “I dolori più forti sono quelli che non si sentono”?
Tra le sorprese c’è il ritorno di Dostoesvskij, l’altro da sé, sulla terra. Insoddisfatto dell’aldilà – dell’eternità. Cui Piovene confida un lunghissimo racconto della vita ultraterrena. Al modo di Dostoevskij, ma noioso – una trentina di pagine, purtroppo.
Un brutto romanzo, ma una testimonianza, involontaria
Guido Piovene, Le stelle fredde, Bompiani, pp. XXVIII + 200 € 12


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