Dietro le esibizioni di moralismo, e la
pregiudiziale politica (si fa un caso perché i dati rubati sono stati venduti a
una campagna elettorale di destra), la
verità è che Cambridge Analytica ha rubato a Facebook i dati che Facebook ruba
a ogni momento ai suoi iscritti. Con diritto: Facebook questo è e dichiara di
essere, un’azienda di promozione pubblicitaria, e una piattaforma di pubblicità.
La più grande forse che ci sia, e suppostamente mirata. Cioè efficace, grazie
alla messe di dati che riesce a raccogliere sui suoi utenti, e quindi alla loro
profilazione come clienti.
La relazione sulle elezioni del 4 marzo
presentata da Ipsos Flair (Nando Pagnoncelli) al Cnel ne è involontaria testimonianza.
Ipsos spiega che le percezioni sono state all’origine del terremoto al voto. Ma
questo è inevitabile: si vota, quasi sempre, d’impulso. Pagnoncelli vi aggiunge
con molti ragionamenti l’inevitabile corredo di “fake” – per la campagna
elettorale, per la propaganda, per i social media. Mentre questa è la
normalità. Abbiamo avuto la pubblicità di strada, coi manifesti. Quella di
piazza, con i comizi. Quella radio-televisiva ormai da decenni. Abbiamo quella
digitale. Più mirata? Perché più efficiente. Alle famose elezioni pasquali del
18 aprile 1948 il Pci si presentava sotto l’immagine di Garibaldi, e col
messaggio che Cristo era risorto con la bandiera rossa: un fake, due fake?
Si giunge a una conclusione “critica” se
si considerano i “social”, Facebook in testa, come testimoni di verità, prima
che come veicolo pubblicitario. Che non è molto brillante, prima che falso.
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