lunedì 19 marzo 2018

Il mito del femminismo

Il mito della bellezza come story-telling, si sarebbe detto qualche anno dopo, un’invenzione. Ne segue che “la qualità chiamata ‘bellezza’ obbietivamente e universalmente esiste: le donne debbono voler impersonarla e gli uomini devono voler possedere donne che la impersonano”. Questo è già discutibile. Ma, poi, la trattazione non è story-telling: è la vecchia polemica, vecchia di almeno cinquant’anni, contro “Playboy” e contro la “stampa femminile”, di moda, cosmetici e accessori, in una con la polemica contro il “consumismo”, e contro i concorsi a miss, e i pin-up che una volta erano femminili. La bellezza è altra cosa, femminile e maschile e di ogni genere. C’è, ben detta, nella trattatistica rinascimentale, dal Firenzuola in qua. Ed è ben espressa nell’arte classica: è perfezione, grazia, misura, intelligenza. È fascino - cos’è il fascino?  Fosse stata cristiana, avrebbe saputo della Vergine Maria che, diciottenne, tiene in grembo il figlio morto di trentatré anni: una che non invecchia - e non morirà. 
L’uomo che s’ingroppa la donna, la donna che fa becco l’uomo, è Boccaccio, Aretino, Carlo Porta, e già Aristofane, ma non è tutto ed è uno svago, per scherzo e divertimento, niente disuguaglianze.
L’argomento è questo: il mito della bellezza “non è basato sull’evoluzione, il sesso, il genere, l’estetica, o Dio”. E non è quello che pretende di essere, “sull’intimità, il sesso e la vita, una celebrazione della donna”.  Al contrario: “Il mito della bellezza non riguarda affatto le donne. Riguarda le istituzioni e il potere istituzionale maschile”. Che, prendendo questa insorgenza del linguaggio sul serio, non vuole dire niente – vorrebbe dire che è l’uomo che fa le regole della bellezza, cui la donna deve assuefarsi..
In forma ridotta, per fortuna, e con una nuova prefazione, che fa stato di un superamento, di nuove ondate femministe, ma sempre con i cliché di un tempo, della donna ridotta a pin-up, Naomi Wolf ripropone il suo classico del 1991, da esordiente di grande successo non ancora trentenne. Si sarebbe detto questo discorso perento. Se non altro per l’insorgenza e la moltiplicazione dei generi, se non per l’esaurimento della spinta egualitaria. È un linguaggio residuo, che evidentemente ancora “incontra”. Ma incontrano anche Di Maio e Salvini. Né compensano le frasi a effetto. Il mito della bellezza è la vergine di Norimberga (Iron Maiden in inglese), lo strumento di tortura. E “Is health healthful?”, quanto la sanità è salutifera? O il PQB:  sulle sigle anglo-americane in uso per  le occupazioni necessariamente di genere (donare il seme non può che essere che un “lavoro” maschile, etc.) costruisce un PQB, Professional Beauty Qualification, che servirebbe per discriminare le donne al lavoro: sole le “belle” fanno carriera. Dove, quando?
Sul percorso, questo discorso si perde l’uomo, che bene o male è l’altra metà del cielo – due quinti dopo la moltiplicazione delle guerre? E nel percorso di conquista (liberazione) stringe piuttosto mosche. Molto americano di fatto, questo “mito della bellezza”, come già la “mistica femminile” di Betty Friedan. Della middle-class suburbana, della mogliettina-mamma scema, già analizzata da Friedan, eletta qui a “middle-class Western woman”. Cha sarà stata vera, ancora Del Toro ne fa la satira con successo in “La forma dell’acqua”, ma non è occidentale, ed è stata raccontata anche diversamente.
Una rassegna datata peraltro già quando fu lanciata. Nel frattempo Noemi Wolf si è rilanciata best-sellerista con “Vagina. Una storia culturale” (“A new biography” in originale), in cui scopre che una lunga serie di ottime scrittrici se la godevano anche a letto. Tra le tante, George Eliot, Christina Rossetti, Edith Wharton, Georgia OKeeffe, Emma Goldman, Kate Chopin, Getrdue Stein - ma forse ha fatto poche letture. Dopo avere provato a rinverdire il blasone, nel lungo intervallo, come vittima di molestia sessuale da parte di Harold Bloom e dell’università di Yale – cui deve la carriera universitaria (ma Yale ha resistito alle ingiunzioni di accendere i roghi, e Bloom, accusato di averle toccata la coscia, ha potuto dire di conoscerla solo come rompicogliona).
Il femminismo dice alla quarta o quinta ondata. Ma non rinuncia alla terza, che lei segnò, dice, col “mito della bellezza”, Inventato, dagli uomini, per il business: cosmetico, dietologico, e della chirurgia estetica, e per singolarizzare il movimento, frantumarlo, “su base individuale, credo insicurezza e disagio in ognuna delle donne”. Ingegnoso, come tutto, ma a che pro?
La conclusione è la novità iniziale, parole e opera di rara modestia: “Molte donne sentono che il progresso collettivo femminile è in stallo; paragonato con la spinta vigorosa dei primi giorni, c’è uno scoraggiato clima di confusione, divisione, cinismo e, soprattutto, esaurimento”. Tra le giovani e le meno giovani: “Dopo anni di molte lotte e pochi riconoscimenti, molte donne in età si sentono consumate. Dopo aver dato per anni la luce per garantita, molte donne giovani mostrano scarso intresse ad aggiungere fuoco alla torcia”. Opera dell’uomo? Un po’ confuse, la cosa e la scrittura. La conclusione così seguita: “Nell’ultima decade”, gli anni 1990, “le donne hanno intaccato la struttura di potere; nello stesso tempo i disordini alimentari”, anoressia e bulimia, “sono cresciuti esponenzialmente, e la chirurgia estetica è divenuta la specialità medica a più rapida crescita”. La liberazione è compiuta, giuridicamente e socialmente, anche economicamente, ma “in termini di come ci sentiamo fisicamente, potremmo di fatto stare peggio delle nostre non liberate nonne”.
Una conclusione che però non sovverte la parte inconsistente del femminismo, di maniera o delle frasi fatte. Curiosa figura, questa della beghina del femminismo.
Naomi Wolf, The Beauty Myth, Vintage Classics, pp. 110 € 5,60

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