Un po’ di effetti c’è. Agnès Varda parte serena
a 88 anni per questa ultima avventura: girare per la Francia, trovare storie e facce
da raccontare, raccontarle in breve. Con un fotografo giovane, JR, rinomato artista
di strada - che la sua tecnica ha elaborato sulla trasformazione surrealista dei
grandi cilindri di un deposito petrolifero in occhi proiettati sul mare, nel
primo film di Agnès Varda (e di Philippe Noiret), “La pointe courte”, 1955. Con
un caravan attrezzato che da una cabina per fototessere espelle gigantografie, grandi
poster da attaccare alle pareti.
Un racconto realistico di un irreale, di
cui i quattro occhi dei fotografi (Agnès Varda è e si vuole fotografa, una che racconta
per immagini) sanno estrarre momenti palpitanti. Un miracolo, un inno alla letteratura,
alla solidità dell’invenzione, oltre che alla cinematografia. Un regalo per gli
spettatori, che le immagini coinvolgono senza prevaricazioni, in una serie
ininterrotta di emozioni. La felicità dei due vagabondi è contagiosa.
Gli innominati dei piccoli mondi abbandonati
che i quattro occhi risuscitano si ritrovano così esilarati e ogni storia
finisce in gloria. Ma sempre con misura, nella esaltazione come nelle
malinconie. La sua storia stessa, dei tanti acciacchi e dei morti - gli amici
di gioventù e di avventure, il marito Jacques (Demy) - e del diniego dispettoso
di Godard, Agnès Varda, Oscar alla carriera, precursora della Nouvelle Vague,
riporta a pochi momenti, con la giusta misura.
Confinato tra i documentary, non
distribuito in nessun circuito – ne ha stampato qualche copia la Cineteca di
Bologna. Mentre è il film a soggetto più narrativo della stagione. A meno che
non sia adesso questo il futuro del cinema, per pochi spettatori - i blockbuster sono spettacoli da fiera. Con
la critica, curiosamente, schierata per le produzioni di massa, di più per le
più orride, ai festival e nei loro media - schierata è la parola giusta, come participio
passato passivo e non attivo..
Agnés Varda-JR, Visages Villages
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