Un racconto su una città che non è, per
una volta, un fondale: è con Roma che Updike fa dialogare la sua coppia,
insieme e disgiuntamente. Con i sassi, le prospettive, i saliscendi, il
caldarrostaio, e le mance, purtroppo – il racconto sa di anni 1960. Sbarcano a
Roma, la città dei morti, come se fosse viva e reale, anche se vi sono soltanto
turisti. Un evento notevole per dei viaggiatori e un racconto americani: è
anche ritrovarsi lontano come vicino, in un mondo sempre proprio - l’americano,
se non viene dal New England, è un po’ straniero ovunque, a Sud del Rio Grande
e a Nord del Niagara. A Roma perché anch’essi vivi e morti come la città.
Un
racconto vivace, ma anche paradigmatico. Per contrasto, la narrativa americana
del secondo Novecento (di Updike come di Cheever, Bellow, Philip Roth, Singer,
Mailer in parte) il racconto ha l’effetto straniante di ipostatizzare in forma
di “chiacchiera” attorno alla coppia – l’inedito del “Robinson” esce con la
riedizione di “Coppie”, il romanzo più celebrato di Updike. Attorno al prendersi-lasciarsi,
per nessun’altra ragione e argomento che filosofemi di bassa psicologia o
psicoanalisi. Effettuali – qui danno a lui quasi un’ulcera – ma senza ragione.
Se non, si sarebbe detto un tempo, da borghesia insoddisfatta e incapace –
insoddisfatta perché incapace e viceversa (altro filosofema?).
John Updike, Letti gemelli a Roma, “Robinson”
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