La Meglio Gioventù post-68 coniugata alla
Peggio Gioventù degli “eredi di Salò” e
dei benpensanti dei Parioli. Giovani vecchi, quaranta-cinquantenni, da Di
Pietro a Bossi, con molte occupazioni e nessun mestiere. Come oggi, l’epoca
dell’io sono mio, che tutti sono presidenti del consiglio – gli stessi che una
volta erano allenatori della nazionale.
Con un corollario che Damilano si limita
a menzionare ma è fondamentale: chi sono questi, dove erano prima, cosa
vogliono? Una domanda che è anche una risposta, e non lascia presumere nulla di
buono. Vogliono il potere, con che diritto? Del numero? Del numero: è lo stato
dell’Italia.
Questa verità Damilano approssima, al
centro della trattazione, con Giovanni Raboni. Con un articolo di Raboni in
prima pagina sul “Corriere della sera” il 15 maggio 1992. “Ma noi dov’eravamo?”, si chiede nel titolo il poeta. E si risponde: “Non
riesco a partecipare al giubilo generale”, per Di Pietro, “a vietarmi l’entusiamso
è un pensiero, sordo e ostinato e odioso come certi dolori, che con qalche semplificazione
si potrebbe tradurre in questa domanda: e noi, nel frattempo, dov’eravamo?”.
Sullo sfondo della marcescenza del partito
Comunista, che ha coinvolto tutti nel suo settarismo mortale, dal sindacato al
giornalismo (opinione pubblica).
Marco Damilano, Le repubblica del selfie. Dalla Meglio Gioventù a Matteo Renzi, Rizzoli,
pp. 285, ril., € 18,50
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