Le rime, le sonorità sono poesia da sole, e di esse Valduga è come naturalmente prodiga. Ma qui fa un lavoro di rara operosità, e di perizia: di grazia. Un miracolo di “traduzione” – da giustificare, per una volta, l’arte. Stessi ritmi, stesse sonorità, stessa inventiva lessicale, stesse parole, quasi, nel tono, nel senso. Un poeta ora per tutti, malgrado i temi scabrosi, sesso, religione, nobiltà, ipocrisia, e forse per gli stessi milanesi. “Vorrei evitare ai futuri milanesi la disgrazia di non poter più comprendere e gustare Carlo Porta” è una delle “Note azzurre” del milanese Carlo Dossi. E Patrizia Valduga, milanese d’elezione, lo accontenta. Con una scelta dei “componimenti più belli”, dice l’editore, con una cura che li rende bellissimi. In questi tempi di #metoo, o di frigidità gratificante: donna bella e altera, sfida in allegria l’interdetto virginale.
Porta è narratore di storie, minime. Di
taglio, nei veloci sonetti. Distesamente, in componimenti lunghi: storie, nella
scelta di Patrizia Valduga, di puttanesimo (“La Ninetta del Verzee”), corna
(“Lament del Marchionn”, sotto altra mano interminabile), beffa (“Fra Diodat”,
fra i tanti), stupidità (“Desgrazzi de Giovannin Bongee”), satira (del classicismo,
“Sonettin col covon”), dileggio (della falsa pietà, “Offerta a Dio”). Cose non memorabili,
ma i suoi personaggi sì.
“Vittima” del quasi contemporaneo, ma ben
più longevo, Belli, della fama del poeta romanesco, Porta è altro. Non è il
popolano scettico, ventriloquo, sfacciato, cinico. È una polifonia. Sa far
parlare le donne. Gli stupidi contenti. E il corpo, con parole-opera non
lontane dal Baffo. La corporalità è il suo forte, un basso continuo,
livellatore al giusto, che dà sostanza narrativa ai semplici e i balordi. Ai
vinti, si sarebbe detto in altro ambito. Che invece Porta risolve d’impeto – e Valduga
con lui: è il cornuto che racconta le sue pene d’amore, la puttana i
tradimenti, il vagheggino la sua stolidità. Un teatro di impuniti, ognuno contento
della sua sorte. Un “Decamerone” in rima. Da scongelatore anche del linguaggio
poetico, dopo l’ibernazione del Sei-Settecento. Curiosamente anticipando due secoli
fa, da “amico di Manzoni, Stendhal e Foscolo, di Totti, Grossi e altri esponenti
del romanticismo milanese”, quale lo presenta l’editore, la koiné odierna, giovanilistica e
grandefratellesca, facebookiana, instagrammiana, verbale e iconica. Nel filone burlesco-“bernesco”,
che è poi all’origine in Toscana, con Cecco, Meo, Rustico e altri sodali “realistici”
del teologale Dante, della poesia e la lingua italiana.
La raccolta bilingue presenta 24
componimenti, brevi, lunghi e lunghissimi. Un monumento al poeta, che Milano
trascura – Carlo Porta è un paio d’isolati, anonimi. Un gesto di umiltà
dell’altera Valduga. E un omaggio, ancora un altro, al suo grande amore Raboni,
che Porta voleva instaurato, con Belli, a colonne dell’Ottocento italiano, al
posto della triade di De Sanctis, Foscolo, Leopardi, Manzoni: Valduga lo
ricorda nell’introduzione, completando una triade alternativa con l’aggiunta di
Prati, da lei riscoperto con molta stima (di Porta Raboni aveva pure iniziato
la traduzione, la raccolta ne riporta un sonetto). Ma si dev’essere pure
divertita.
Il lettore sicuramente sì. Rileggendolo,
anzi, altri ghiribizzi l’enorme lessico di Porta solleva. Il Bongee, non
sarebbe un bon jeu maccheronico – del
francese storpiato Porta fa uso in altri componimenti? Anche il Giovannin suona
analogo – il torinese Giuanìn, il tizio. E “En fan toninna” non è il
meridionale, tuttora in uso, “fare tonnina”, fare a pezzi?
Carlo Porta, Poesie,
Einaudi, pp. 172 € 15
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