Bestemmia – La Corte
Europea dei diritti dell’uomo la decreta fuori corso. La dichiarazione si
accoglie come una formalità, in un corso ormai lungo di disidratazione
dell’Europa da parte delle istituzioni europee, benché prevalentemente
cristiano-democratiche. Segna un certo laicismo, come quello che aveva portato
alla costituzione europea poi abortita, senza radici.
La bestemmia non può intralciare gli
affari, ha decretato la Corte. E questa è una novità - o come uno scoprirsi:
gli affari hanno la preminenza sulle credenze e le sensibilità. La bestemmia è,
era, un’offesa alla religione ma anche
alla comunità. Alla comunità di sentire, al sentire comune. Si prospetta una
convivenza ridotta al profitto, individuale.
E senza radici con un futuro? Questa è novità
maggiore.
Ma forse la Corte europea è solo mossa
dall’anticristianesimo. Nessun giudice bsstemmierebbe Allah.
Filosofia – È uno
striptease?
Non si può separare la miseria del filosofo
dalla miseria della filosofia, come sembrerebbe giusto? Del filosofo, per
quanto villoso? Wittgenstein, per il quale la separazione è stata invocata, a
fronte del fiume di testimonianze, lettere, diari, inediti che lo mettono a
nudo senza remissione, va oltre, la filosofia prospettando come uno striptease:
“Il lavoro filosofico è un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere le
cose” – “Pensieri diversi”, 43.
È dello stesso parere anche Heidegger, per
il quale pure la separazione si invoca, e anzi con più insistenza, sull’abbrivo
di Hannah Arendt – come di uno che non capiva di politica: “Il punto di
partenza della via che porta alla filosofia è l’esperienza effettiva della vita”
- “Fenomenologia della vita religiosa”, 42.
Filosofia tedesca- È la
filosofia della fine, da quanto tempo? Da un secolo. Da Spengler. E poi da Heidegger.
Ma già da prima, dall’“Impolitico” di Th. Mann. A opera della filosofia tedesca
stessa, in attesa dell’evo tedesco – la nuova aurora dell’essere. Anzi, da
prima ancora, da Lutero e la teologia dell’io e il mio Dio
Di un laicismo, Kant compreso, talvolta
anche ateo, che recepisce argomenti e insegnamenti teologici. Il nazionalismo (“primatismo”)
è sottovalutato nella filosofia, mentre fa aggio su tutto, anche sulla ragione.
Una nemmeno tanto fine filosofia della
fine – nazionalista, grossolana. Il più fine, Heidegger, si arrampica sugli
specchi della dissimulazione – fa come lo voleva l’amorosa Hannah rendt, un po’ tonto. Con quella Grecia
inventata, dall’incolpevole Hölderlin - ma già da Goethe, che si trascura: “È una
vecchia storia, dallo Harz all’Ellade tutti cugini” - “Faust”, II, 7742-3), al tronfio Hegel e al fantastico
Nietzsche. E Heidegger naturalmente, che sa il greco meglio
dei greci. E l’arianesimo – perché dimenticarlo?
La Germania Federale ci rinuncia, ci sono
le macchine tedesche, non c’è più la filosofia tedesca. Il mondo no: c’è un perché?
È il business dei germanisti? È la filosofia necrofila, amante della fine?
Filosofare la fine per non finire - non avere altro da dire?
Non abbastanza considerata è la Germania
di Hegel, spopolata di miti propri, originari – “La positività della religione
cristiana”. Ogni popolo ha “propri miti”, e così “gli antichi germani”, con “il
Walhalla dove abitavano i loro dei e i loro eroi”. Fino all’arrivo del cristianesimo, via impero
romano, che ha “spopolato il Walhalla, distrutto i boschi sacri, estirpato i
miti del popolo”, introducendo gli “estranei” personaggi biblici: “Noi siamo
senza miti religiosi che siano sorti nella nostra terra e siano connessi alla
nostra storia, siamo del tutto privi di qualsiasi mito politico” – quella che “non
fu mai una nazione” è popolata solo di “fantasmi”. Da qui la deriva alla Grecia
– alla Grecia di Hölderlin, il compagno di studi di Hegel?
Giornalismo – Valvola e
sensore dell’opinione pubblica a lungo, ma per un malinteso, da Walter Lippmann
a Habermas? Heidegger ne antevedeva lo scadimento a pettegolezzo nell’era
dell’informazione di “denuncia” o pettegolezzo (intercettazioni, indiscrezioni),
e del free for all della rete. Suona
come un’antevisione, o un giudizio meglio fondato, quanto scriveva a Hannah Arendt
il 12 aprile 1950: “Forse il giornalismo planetario è il primo spasimo di
questa desertificazione incipiente”.
L’“osservatore imparziale” Joseph Roth,
che fu grande e grandissimo giornalista, dice triste, cioè negato (“Al bistrot
dopo mezzanotte”): “L’«osservatore imparziale» è il più triste dei cronisti.
Coglie tutto ciò che è mutevole con occhi aperti ma fissi”. È uno che si priva
di giudizio: “Egli registra invece la voce momentanea dell’ambiente che lo
circonda”.
Morte – Aveva organizzato tutto per obliterarla
Majkovskij, che poi morirà suicida. Ma non senza senso. Aveva anche poetato: “Sparano a me per tutti,\ sgozzano me per tutti”, lui, “il
tredicesimo apostolo”. Sapendo di morire per non morire, avendo progettato “l’officina
delle risurrezioni umane”. Di stampo futurista ma non solo: una religione rivoluzionaria
che era il rifiuto della morte e dell’inferno, della morte temporale e della
morte eterna, anzi dello stesso Giudizio Universale, sia esso a opera di Dio o
di Stalin. Attraverso la mobilitazione di tutta l’umanità per la causa comune. Contro il “futuro proibito”, dirà Jakobson, il
futuro che doveva resuscitare gli uomini del presente. L’eternullità avendo
reinventato che aveva inventato Laforgue. O Falkenfeld, il kantiano: “Non posso
credere che gli avvenimenti del mondo influiscano minimamente sulle nostre
parti trascendentali” - che per questo non si può dire morto, dimenticato? C’è
una misura nell’oblio.
Razza -
Nasce, a opera di Lutero, come contraccettivo antirazziale - nei “Judenschriften”,
gli scritti antiebraici. Gli ebrei sono un popolo “materiale”, legato al corpo
e ai suoi bisogni: popolo di Dio secondo la carne, gli ebrei devono essere
sostituiti dal popolo di Dio secondo lo spirito. Un popolo che è e si vuole diverso,
da cui bisogna quindi differenziarsi.
Sarà il procedimento di Sartre nell’“Orfeo
nero”, 1956, del razzismo antirazzista. La tribù è insostituibile – a meno di “soluzioni
finali”, di guerre tribali fino allo sterminio?
Tempo - Non si nasce in realtà, e non si muore, si
è dentro il tempo. Anche prosaicamente, si è sempre affaccendati, anche
nell’ozio. Ma questo annulla il tempo: lo dilata, lo accorcia.
Il
tempo è comprimibile, sia facendo che non facendo, e in durata – memoria, fantasia,
ricostruzione – è estensibile senza limiti.
Ma il
tempo è senza capo né coda. La stessa storia ha problemi: se non si definisce di
un tempo preciso, volutamente connotato, non è.
È
questo il senso della vita. O della morte.
zeulig@antiit.eu
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