Questo primo romanzo anche Ernst conclude, prima di Éluard e André Breton, con “L’immacolata concezione”, compito in classe dei surrealisti. Con molti “giochi diurni, crepuscolari e notturni”, di calze, cosce, seni e coltelli. Un surrealista infaticabile. Di visioni e didascalie oniriche.
Il secondo, “Sogno di una ragazzina che
volle entrare al Carmelo”, è preceduto da una introduzione. Che invece è povera. Ma la storia e la grafica sono pregnanti. È la sua storia, di Max Ernst, alla Macron,
rovesciata: l’artista a 36 anni s’invaghisce di una ragazzina quindicenne cresciuta
in collegio da famiglia abbiente, che lo corrisponde, benché molto religiosa, e
insieme vivono denunce parentali e cacce di polizia. “Tra inseguimenti alla
Nestor Burma e fughe alla Charlot”, scrive Giuseppe Montesano che cura questa
riedizione, “e con il provvisorio lieto fine dei due fuggitivi, che furono
perdonati e andarono a vivere insieme”. Finché lei non tornò all’ossessione
della religione della purezza, e dopo “una delirante confessione” con Artaud,
incontrato a Londra, lasciò Max e si
cercò un confessore.
Il terzo, “Una settimana di bontà o i sette
elementi capitali” è un vero romanzone, alla Victor Hugo, o alla Eugéne Sue, con
molte cattiverie (impiccagioni, avvelenamenti, strangolamenti, naufragi, il
genere catastrofico) e vittime giovani. Seppure con molte facce a becco, alla
Savinio – o Savinio le faceva alla Max Ernst (erano coetanei)?
Molto collage, alla Max Ernst, e molto
disegno alla Grandville. Anche alla Vallotton. Per la parte grafica. Per la
narrativa storie surreali, ma già alla Marc Saporta: le graphic novel come il romanzo a pagine indipendenti, da mischiare
liberamente, ognuno potendosi comporre una storia sua propria. Le sollecitazioni
non mancano: un invito al racconto, al romanzo.
Max Ernst, Una settimana di
bontà, Adelphi, pp. 497, ill. € 38
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