Algoritmo – Il numero
misterioso di google ha una logica anche misteriosa. Si presuppone che
digitando le parole tematiche della nostra ricerca l’algoritmo le connetta il
più fedelmente possibile a un risultato logico, e anzi a quello che noi
cerchiamo. Mentre è casuale. Digitando la traduzione italiana di una canzoncina
francese degli anni 1950, oggi sacrilega, per vedere se anche da noi “Maometto era
profeta\ del grandissimo Allah\ Vendeva le noccioline\ al mercato di Biskra….”,
dà cinque risultati, tutti su Galileo. O c’è una connessione velata – un
Galileo islamico, p.es., come c’è un Dante islamico?
Qualche
anno fa, quando alla ricerca google si accompagnavano annunci pubblicitari, la
richiesta W.Benjamin, Uomini tedeschi, procurava un assedio di siti gay.
America First – Lo slogan di
Trump non è una novità. L’ultimo precedente è nel primo numero 1970 della “New
York Review of Books”, che - la rivista ricorda oggi - apriva con un lungo articolo
sotto questo titolo firmato da Ellen Willis. “America First” era la cultura
hip-pop. O il disincanto americano – “un sentimento diffuso che tutto si
disintegra, compresa la stessa contro-cultura” – rispetto alle attese del
Sessantotto e della rivoluzione culturale. Come rappresentato da Dennis Hopper,
“Easy Rider”, e da Arthur Penn, “Alice’s Restaurant”.
Lo
staff di Trump sostiene che “America First” è stata la formulazione di un
giornalista che lo intervistava, che Trump ha poi adottato come slogan. Il
conio politico dello slogan risale a Woodrow Wilson, che nel 1916 lo fece
mettere in evidenza nei suoi manifesti elettorali – salvo rimangiarselo pochi
mesi dopo, portando gli Stati Uniti all’intervento nella guerra europea, alla
maniera oggi di Trump, che dimentica le intemperanze iniziali. Dopo Wilson, il repubblicano
Harding adottò lo slogan, con più coerenza, per riassumere la sua avversione al
trattato di Versailles e alla Società delle Nazioni.
Nel 1940 si creò negli Stati Uniti un movimento sotto questa insegna, “America
First”, di avversari politici del presidente Roosevelt, repubblicani e
democratici, nonché avversari dell’entrata in guerra. L’America First Committee
nacque a Yale, l’università, mettendo assieme molti giovani oi d nome, i
presidente Kennedy e Gerald Ford, gli scrittori Vonnegut e Vidal, il futuro
presidente di Yale, Kingman Brewster, il giudice della Suprema Corte Potter
Stuart, il diplomatico e politico Sargent Shriver, tutti democratici eccetto
Ford, e tra quelli con più anni Henry Ford e l’aviatore icona Lindbergh,
filofascisti. Prosperò fino a vantare 800 mila iscritti, ma si sciolse tre
giorno dopo l’attacco giapponese al’inizio di settembre del 1941.
Un partito America First concorse alla presidenza nel 1944 col suo
fondatore Gerald Smith, ma raccolse pochi voti. Un altro partito America First
si annunciò nel 2002 con un programma di estrema destra, contro il disarmo, l’immigrazione,
e ogni impegno internazionale, ma si perse dopo l’annuncio.
Colonizzatori – Sono stati celebrati
fino a recente, nel pantheon degli eroi nazionali: gli esploratori, i
conquistatori, i colonizzatori veri e propri. Kitchener, Rhodes, Lyautey.
Ancora
nel 1977 il giornale progressista inglese “The Guardian” celebrava il primo
aprile con uno speciale dedicato a San Serriffe, stato immaginario dei Caraibi,
per i dieci anni dell’indipendenza, in forma satirica.
Giornalismo – Il giornalismo
“giallo” è grigio. Non è a sensazione, anzi, è piatto. Si annuncia a lettere
cubitali ma per rassicurare, come si fa per
bambini. Del giornalismo oggi più apprezzato, scandalistico, che sta
accompagnando la stampa verso la buona morte, volontaria, vedeva i limiti oltre
un secolo fa G.K.Chesterston in un saggio sulla “stampa gialla” compreso nella
raccolta “Eretici”, del 1905. “Il vero
sensazionalismo può essere morale o immorale”, argomenta lo scrittore e
polemista, che dice di sospirare per veri giornali a sensazione (“la loro
timidezza mi offende”): “Ma anche quando è molto immorale, esige un certo
coraggio morale… Quando si vuole essere tutto, il primo passo, e il più
difficile, è di essere qualcosa”. Ci vuole uno zoccolo, o fondamento, una fede:
“Quando uno è qualcosa, necessariamente sfida tutto il mondo”. Può sfidarlo
senza essere niente, e per niente, e questo fa il giornalismo piatto”.
“Il giornalismo è l’arte di arrivare troppo tardi il più in
fretta possibile”, scriveva amaro Stig Dagerman, di ritorno dalla Germania nel
1946, all’amico Werner Aspenström (cit.
da Fulvio Ferrari in postfazione a S.Dagerman,
“Autunno tedesco”). Il giovane scrittore svedese premetteva di non capire che “un piccolo sciopero della fame è più
interessante della fame di molti”: “I tumulti per la fame sono sensazionali, ma
la fame non è sensazionale, e quel che pensa la gente affamata e amareggiata
diviene interessante solo quando la povertà e l’amarezza esplodono in una
catastrofe”.
Imitazione – “Le nazioni
più forti sono quelle che, come la Prussia e il Giappone, partirono da poco e
furono abbastanza fiere per mettersi ai piedi dello straniero e imparare da
lui” – G. K.Chesterston, ”Eretici”.
Islam-Italia – I mussulmani
sono la comunità più temuta in Italia perché stimata attorno al 20 per cento
della popolazione, mentre sono solo il 3 per cento. Nell’ambito della
“percezione”, che sempre più prende il posto nella comunicazione e
nell’opinione dei dati di fatto specifici che Nando Pagnoncelli denuncia come
caratterizzante la situazione sociale dell’Italia nel 2018, la presenza degli
islamici è uno dei fati più distorti. All’interno di una distorsione più generale
sugli immigrati, che vengono percepiti come un terzo almeno della popolazione,
mentre sono il 7 per cento dei residenti. O dei disoccupati, che si pensano
essere il 50 per cento degli italiani, mentre sono l’11 per cento. O degli ultrasessantacinquenni,percepiti
anch’essi come la metà o quasi della popolazione, mentre sono il 21 per cento.
Ma nella percezione contano anche altri fattori: la militanza, la forza,
l’abuso. Ma non l’integrazione: moti islamici sono italiani a tutti gli
effetti, cioè di secondo o terza generazione in Italia, e si trovano in tutte
le occupazioni, private e pubbliche, a contatto col pubblico.
La
percezione è anche un fatto di distribuzione, Un quarto del milione e mezzo dei
mussulmani in Italia vengono dal Marocco. E poi, in scala, dall’Albania, la
Tunisia, il Senegal.
astolo@antiit.eu
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