lunedì 2 aprile 2018

Il mondo com'è (338)

astolfo

Algoritmo – Il numero misterioso di google ha una logica anche misteriosa. Si presuppone che digitando le parole tematiche della nostra ricerca l’algoritmo le connetta il più fedelmente possibile a un risultato logico, e anzi a quello che noi cerchiamo. Mentre è casuale. Digitando la traduzione italiana di una canzoncina francese degli anni 1950, oggi sacrilega, per vedere se anche da noiMaometto era profeta\ del grandissimo Allah\ Vendeva le noccioline\ al mercato di Biskra….”, dà cinque risultati, tutti su Galileo. O c’è una connessione velata – un Galileo islamico, p.es., come c’è un Dante islamico?
Qualche anno fa, quando alla ricerca google si accompagnavano annunci pubblicitari, la richiesta W.Benjamin, Uomini tedeschi, procurava un assedio di siti gay.

America First – Lo slogan di Trump non è una novità. L’ultimo precedente è nel primo numero 1970 della “New York Review of Books”, che - la rivista ricorda oggi - apriva con un lungo articolo sotto questo titolo firmato da Ellen Willis. “America First” era la cultura hip-pop. O il disincanto americano – “un sentimento diffuso che tutto si disintegra, compresa la stessa contro-cultura” – rispetto alle attese del Sessantotto e della rivoluzione culturale. Come rappresentato da Dennis Hopper, “Easy Rider”, e da Arthur Penn, “Alice’s Restaurant”.
Lo staff di Trump sostiene che “America First” è stata la formulazione di un giornalista che lo intervistava, che Trump ha poi adottato come slogan. Il conio politico dello slogan risale a Woodrow Wilson, che nel 1916 lo fece mettere in evidenza nei suoi manifesti elettorali – salvo rimangiarselo pochi mesi dopo, portando gli Stati Uniti all’intervento nella guerra europea, alla maniera oggi di Trump, che dimentica le intemperanze iniziali. Dopo Wilson, il repubblicano Harding adottò lo slogan, con più coerenza, per riassumere la sua avversione al trattato di Versailles e alla Società delle Nazioni.
Nel 1940 si creò negli Stati Uniti un movimento sotto questa insegna, “America First”, di avversari politici del presidente Roosevelt, repubblicani e democratici, nonché avversari dell’entrata in guerra. L’America First Committee nacque a Yale, l’università, mettendo assieme molti giovani oi d nome, i presidente Kennedy e Gerald Ford, gli scrittori Vonnegut e Vidal, il futuro presidente di Yale, Kingman Brewster, il giudice della Suprema Corte Potter Stuart, il diplomatico e politico Sargent Shriver, tutti democratici eccetto Ford, e tra quelli con più anni Henry Ford e l’aviatore icona Lindbergh, filofascisti. Prosperò fino a vantare 800 mila iscritti, ma si sciolse tre giorno dopo l’attacco giapponese al’inizio di settembre del 1941.
Un partito America First concorse alla presidenza nel 1944 col suo fondatore Gerald Smith, ma raccolse pochi voti. Un altro partito America First si annunciò nel 2002 con un programma di estrema destra, contro il disarmo, l’immigrazione, e ogni impegno internazionale, ma si perse dopo l’annuncio.

Colonizzatori – Sono stati celebrati fino a recente, nel pantheon degli eroi nazionali: gli esploratori, i conquistatori, i colonizzatori veri e propri. Kitchener, Rhodes, Lyautey.
Ancora nel 1977 il giornale progressista inglese “The Guardian” celebrava il primo aprile con uno speciale dedicato a San Serriffe, stato immaginario dei Caraibi, per i dieci anni dell’indipendenza, in forma satirica.

Giornalismo – Il giornalismo “giallo” è grigio. Non è a sensazione, anzi, è piatto. Si annuncia a lettere cubitali ma per rassicurare, come si fa per  bambini. Del giornalismo oggi più apprezzato, scandalistico, che sta accompagnando la stampa verso la buona morte, volontaria, vedeva i limiti oltre un secolo fa G.K.Chesterston in un saggio sulla “stampa gialla” compreso nella raccolta “Eretici”, del 1905.  “Il vero sensazionalismo può essere morale o immorale”, argomenta lo scrittore e polemista, che dice di sospirare per veri giornali a sensazione (“la loro timidezza mi offende”): “Ma anche quando è molto immorale, esige un certo coraggio morale… Quando si vuole essere tutto, il primo passo, e il più difficile, è di essere qualcosa”. Ci vuole uno zoccolo, o fondamento, una fede: “Quando uno è qualcosa, necessariamente sfida tutto il mondo”. Può sfidarlo senza essere niente, e per niente, e questo fa il giornalismo piatto”.

Il giornalismo è l’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile”, scriveva amaro Stig Dagerman, di ritorno dalla Germania nel 1946,  all’amico Werner Aspenström (cit. da  Fulvio Ferrari in postfazione a S.Dagerman, “Autunno tedesco”). Il giovane scrittore svedese premetteva di non capire che “un piccolo sciopero della fame è più interessante della fame di molti”: “I tumulti per la fame sono sensazionali, ma la fame non è sensazionale, e quel che pensa la gente affamata e amareggiata diviene interessante solo quando la povertà e l’amarezza esplodono in una catastrofe”.

Imitazione – “Le nazioni più forti sono quelle che, come la Prussia e il Giappone, partirono da poco e furono abbastanza fiere per mettersi ai piedi dello straniero e imparare da lui” – G. K.Chesterston, ”Eretici”.

Islam-Italia – I mussulmani sono la comunità più temuta in Italia perché stimata attorno al 20 per cento della popolazione, mentre sono solo il 3 per cento. Nell’ambito della “percezione”, che sempre più prende il posto nella comunicazione e nell’opinione dei dati di fatto specifici che Nando Pagnoncelli denuncia come caratterizzante la situazione sociale dell’Italia nel 2018, la presenza degli islamici è uno dei fati più distorti. All’interno di una distorsione più generale sugli immigrati, che vengono percepiti come un terzo almeno della popolazione, mentre sono il 7 per cento dei residenti. O dei disoccupati, che si pensano essere il 50 per cento degli italiani, mentre sono l’11 per cento.  O degli ultrasessantacinquenni,percepiti anch’essi come la metà o quasi della popolazione, mentre sono il 21 per cento. Ma nella percezione contano anche altri fattori: la militanza, la forza, l’abuso. Ma non l’integrazione: moti islamici sono italiani a tutti gli effetti, cioè di secondo o terza generazione in Italia, e si trovano in tutte le occupazioni, private e pubbliche, a contatto col pubblico.
La percezione è anche un fatto di distribuzione, Un quarto del milione e mezzo dei mussulmani in Italia vengono dal Marocco. E poi, in scala, dall’Albania, la Tunisia, il Senegal.

astolo@antiit.eu

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