Fascismo – La “collera
degli imbecilli” lo dice Sciascia, a proposito di Mickey Spillane, lo scrittore
di gialli.
Giappone – Ha al governo
stabilmente un partito Liberale che invece è conservatore. L’opposto del liberal Usa.
“La
mattina del 25 giugno ’43, a Gran Consiglio concluso, Mussolini riceveva a
palazzo Venezia l’ambasciatore del Giappone e adombrava lo schema della pace
separata con l’Unione Sovietica cui da tempo stava guardando” – G. Spadolini, “La
Stampa, 7 dicembre 1990.
Ivan Ilyin – La stampa
americana resuscita, sulla traccia aperta dallo storico di Yale Timothy Snyder,
un filosofo russo degli anni 1920-1950, Ivan Ilyin, antisovietico, espulso da
Lenin in Germania nel 1922, come teorico del fascismo. E lo dice mentore
segreto di Putin.
Le
citazioni e la presentazione che Snyder ne dà nell’ultimo saggio sulla “New
York Review of Books” il 5 aprile, è di tutt’altro tenore: “Il fatto della questione è che il
fascismo è un eccesso salvifico dell’abitrarietà patriottica” (I.I, 1927), “La
mia preghiera è come una spada. E la mia spada è come una preghiera” (I.I..
1927), “La politica è l’arte di identificare e neutralizzare il nemico” (I.I.,
1948). Il saggio si apre con questa sintesi di Ilyin: “Il russo guardò Satana
negli occhi, mise Dio sul divano dello psicoanalista, e capì che il suo Paese
poteva redimere il mondo. Un Dio angosciato raccontò al russo una storia di fallimento.
All’inizio era il Verbo, purezza e perfezione, e il Verbo era Dio. Ma poi Dio
fece un errore di gioventù. Creò il mondo per completare se stesso, e invece si
rese impuro, e si nascose per la vergogna. Di Dio, non di Adamo, fu il peccato
originale, la liberazione dell’imperfezione. Una volta nel mondo, le persone
appresero cose e sperimentarono sentimenti che non poterono ricondursi a quella
che era stata la mente di Dio. Ogni pensiero o passione individuale irrobustì
la presa di Satana sul mondo”.
Ma Snyder è
apodittico già dal titolo: “Ivan Ilyin, Putin’s Philosopher of Russian Fascism”,
anche se gioca sull’ambiguità, se è il filosofo fascista di suo, o se è il
filosofo prediletto del fascismo russo di Putin. ….
Monaco – L’illusione della pace era
stata forte alla conferenza di Monaco a fine settembre di ottant’anni fa, e di
spessore. Retrospettivamente giudicato un inganno, l’accordo di Monaco fece
vivere giornate di passione intensa e fiduciosa nella pace, a Londra, a Parigi,
a New York, e all’interno della Germania, nelle città e nelle campagne. Dove la
mobilitazione già si scontava rassegnati. Lunedì 26 settembre allo Sportspalast
di Berlino Hitler lancia un ultimatum sui Sudeti, l’area ceca abitata da
tedeschi, o Praga: “A questo punto il mondo intero non dovrebbe avere più alcun
dubbio che non è un solo uomo, o un solo leader, a parlare per l’intero popolo
tedesco. So che in quest’ora tutto il popolo – milioni di persone - approva ogni mia singola parola”. I tedeschi
erano perciò preoccupati.
Lo
scrittore svedese Stig Dagerman, che nel 1946 a ventisei anni era in Germania
per il reportage poi intitolato “Autunno tedesco”, assiste al comizio
elettorale, nel Königsplatz, il luogo della conferenza affrettata del 1938, “un
deserto costruito dagli architetti del nazismo che più di ogni altra cosa rivela la mancanza di stile, la desolazione e
il sadismo architettonico dell’ideale nazista”, del “dottor Kurt Schumacher, il
capo dei socialdemocratici”. Bravo oratore, persona rispettabile, il cui
successo in piazza porta però Dagerman a riflettere che: 1) “È a suo modo la viva
dimostrazione della tesi che la tragedia del politico tedesco è di parlare
troppo bene”, e 2) “È una dolce ma rischiosa illusione quando la socialdemocrazia
tedesca presenta i propri successi elettorali come una prova del radicamento
delle convinzioni democratiche nel popolo”.
Il
luogo della conferenza, il Königsplatz, è una vastissima piazza quadrangolare,
che il re di Baviera Luigi I a metà Ottocento aveva voluto attorniata da grande
edifici classici. Era un prato, che Hitler aveva voluto pavimentato per
maggiore monumentalità, con lastre di granito, diecimila, e i palazzi restaurati
o ricostruiti con festoni di croci uncinate rosso brume, i colori nazisti, alti
diecine di metri. Nonché arricchiti, all’ingresso della piazza da
Karolinenplatz e la Brienner Strasse, di due enormi palazzi squadrati di stile
nazista, il Führerbau, la sua residenza ufficiale, dove si tenne la conferenza
(ora sede del Dams di Monaco, la facoltà universitaria di musica e spettacolo),
e gli uffici del partito Nazista. Edifici in grigio e nero, quadrati, spigolosi.
Nonché da due tempietti su colonne di arenaria gialla, ognuno contenente otto sarcofaghi
in bronzo in cui erano sepolti, come martiri, le vittime del putsch fallito da Hitler a Monaco nel
1921. Anche le colonne dei tempietti votivi erano squadrate. Dal lato opposto
la piazza è chiusa dai Propilei, luogo privilegiato da Hitler per i suoi
comizi. Gli alberi residui fungevano da grandi pennoni da cui svastiche furono
appese per la conferenza, alte fino a quaranta metri.
La
piazza fu sempre affollatissima di masse plaudenti a ogni spiraglio di pace nelle poche ore della conferenza,
specie quando si mostrava o si credeva di vedere Chamberlain, dietro le
finestre del Führerbau. Il “New York Times” riferiva il 30 settembre: “Si sono
udite vere grida di esortazione come quelle che si sentono in uno stadio di
football americano ogni volta che, con la sua figura esile vestita di nero, il
suo incedere cauto e il suo sorriso, Chambrelain si mostrava alla folla”.
Chamberlain
si può dire nome infausto nei rapporti tra l’Inghilterra e la Germania. Prima di
Neville Chamberlain, il primo ministro di Monaco, un John Houston Chamberlain
aveva predicato il razzismo in Germania, con grande popolarità, soggetto di
lodi sperticate di Thomas Mann ancora nel 1917-1918, nelle “Considerazioni di
un impolitico”, premiato con Eva Wagner in sposa quarantenne, non potendo per la faccia del
mondo impalmare Cosima, la madre settantenne sua emula in “arianesimo” – nata Cosima
Francesca Gaetana a Bellagio, la vigilia di Natale, di N.N (Liszt).
Ha
un Chamberlain anche Chesterston, in “Eretici”, di cui non dà il nome ma che con
tutta evidenza è Joseph, il padre di Neville, ministro delle colonie e uomo d’affari, due professionalità che coniugò proponendo un
colonialismo o imperialismo economico prima e più che militare. Principale
responsabile della guerra anglo-boera, e del mancato riconoscimento dell’irredentismo
irlandese. A fine Ottocento perorò anche un’alleanza della Gran Bretagna con la
Germania. Nella polemica che conduceva contro G. Shaw ai primi del Novecento
(la raccolta di saggi “Eretici” è del 1905), Chesterston ne fa il campione
degli “incompresi”. Il simbolo di una vittoria o una fama conquistata sempre
senza merito, o per il merito sbagliato. Uno storyteller si direbbe oggi: “Gli amici lo dipingono come un uomo d’azione
energico, gli avversari come un uomo d’affari brutale, mentre non è né l’uno né
l’altro,è solo una oratore romantico, un ammirevole attore romantico”. Uno che fa
credere quello che non è – “lo scopo dell’oratore è di convincerci che non è un
oratore”. Quindi può dire banalità, e farsi riconoscere grandi ideali,
ammassare sconfitte e farsi passare per il vincitore di mille battaglie: “Un certo
pathos celtico lo circonda; come i Gaelici di cui parla Matthew Arnold, «andava
alla battaglia, ma era sempre battuto». È una montagna di progetti, una montagna
di fallimenti, ma pur sempre una montagna”.
Valentino Parlato - Un anno fa fra
pochi giorni, il 2 maggio, moriva a Roma a 86 anni Valentino Parlato. Intellettuale
e giornalista acuto e onesto. Pur in un gruppo ideologizzato. Le “crisi dell’imperialismo”,
nel 1973 e nel 1978, gestì con fatica, un onere da pagare all’ideologia. Per il
resto sempre attento ai fatti. Divertito dal credito attribuito a Khomeini,
alla carica innovativa, quasi protestante, dell’islam sciita, lui che era nato
e cresciuto in Libia. Stranito dal ritrovare Mario Sarcinelli, il direttore
generale della Banca d’Italia che Andreotti aveva fatto arrestare dal giudice
Alibrandi il 24 marzo 1979, al seguito dello stesso Andreotti alla Fiera
del Mediterraneo a Bari in autunno (la ricostruzione successiva di Orazio
Carabini, addetto stampa di Sarcinelli in una sua breve esperienza di ministro,
che scagionerebbe Andreotti
in
realtà la conferma: è Andreotti che decide la scarcerazione, con l’interdizione
dai pubblici uffici). Incuriosito – immalinconito – dal conto svizzero Rodetta,
dove confluivano sfioramenti e tangenti Eni e Finsider per acquisti e forniture
in Unione Sovietica, in quota finanziamenti al Pci. Il solo che con noi prese
posizione contro la vergognosa cessione nel 1985 del colosso alimentare Sme da
parte di Prodi, presidente dell’Iri, a Carlo De Benedetti, cinquemila miliardi
di fatturato, per niente, anzi con un prestito gratuito di trenta miliardi da parte dell’Iri (l’onesto Bruno
Rota, allora addetto stampa di Prodi, perplesso, ha pagato con una lunga
eclisse manageriale, iniziata con l’immediato accantonamento all’Alfa Romeo, azienda
da rottamare).
astolfo@antiit.eu
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