martedì 24 aprile 2018

L'ultima serenità fuori del cristianesimo

Il primo (1984) capriccio del musicista (festival barocco a Versailles), editore (Gallimard), cultore della tradizione giapponese e della classicità greca e romana, anche italianista, Guignard. Sorprendente e duraturo, si legge, infine tradotto, come se fosse nuovissimo. In forma di pastiche delle nipponiche “Note del guanciale”, o meglio di remake, senza cioè una intenzione ironica o scherzosa. Di un autore che sfida il “mito dell’originalità” – lo costeggia, ci vive dentro. Un diario tenuto su tavolette di legno da una dama romana cinquantenne, attorno all’anno 400.
Un personaggio e un diario fittizio – un mimotesto – sono pretesto a una storia vera benché inventata – un falso ipotesto. Nella quale i vagheggiamenti dell‘ultima patrizia in un mondo in decomposizione emergono da una affascinante “Vita di A.A.” che funge da introduzione. Un’operazione macchinosa a dscrivere, ma di rara felicità espressiva.
L’ipotesto è singolare, nuovissimo perché non frequentato, e verissimo. In cui il mimotesto viene immerso convincentemente tra san Girolamo e sant’Agostino, Galla Placidia e Ataulfo, Simmaco e Ambrogio, le invasioni e gli imperi, e la durezza cristiana. Un mondo caleidoscopico in poche pagine.
Del cristianesimo castrante Apronenia non si cura. Benché vissuta in “epoca pertanto prodigiosa in cui solo la risonanza dei nomi proprio a poco a poco trascritti nelle legende canoniche sembra gà terribile, spessa, coagulata, sorda, medievale, e come indistricabile dal tessuto stesso di una lingua che non è ancora, Didimo, Damaso, Ilario, e “perfino un Ambrosiaster” – lo pseudo-Ambrogio del commento a san Paolo. Ma non è una snobberia, le riesce naturale. È una sopravvissuta ma non lo sa.
I buxi di Apronenia, le tavolette di legno in cui si annotavano le occorrenze quotidiane, spese, crediti, debiti, nascite, morti, vagano nella migliore poesia latina, di Ovidio, Lucrezio, Marziale, anche Petronio. In salsa giapponese: si articolano come i primi componimenti poetici giapponesi, della compilazione Sōshi - con richiami scoperti alle “Note del guanciale” della scrittrice e dama di corte Sei Shōnagon, che ha vissuto a cavallo dell’anno Mille. Le note si richiamano come “Cose da fare”, “Cose di cui bisogna ricordarsi”, “Cose da non dimenticare”, “Cose che danno un sentimento di pace”, e, odori, detti, auspici, presagi, intervallate da haiku e kōan.

L’esito è un inno silenzioso pagano, non polemico, come modo d’essere, della serenità, dell’uomo – la gentildonna in questo caso – in pace con se stesso. Una narrazione tonificante in epoca di selfie, di dita nel naso. Immaginativa. E storica. 

Nell’ottica dell’autore anche un’opera di contestazione – Guignard viene dal 68, compagno di scuola di Conh-Bendit: del linguaggio. In un’intervista distesa con “Lire”, l’1 febbraio 1998, spiegava: “Se mi sono messo a lavorare sul mondo romano, è a causa del nazismo e dei suoi effetti di lunga durata…. È un po’ folle credere che ho il culto dell’antichità. Perché per esempio ho scritto «Le tavolette di bosso di Apronenia Avitia»? Perché l’indecenza e la crudezza d’espressione dei romani m’incantano molto più che il romanzo psicologico dell’Ottocento. Asservire intere masse è un potere che è nato nei mondi romani, che si è prolungati con la Chiesa cattolica, poi col rinnovo degli imperi, fino al secondo (terzo? - n.d.r.) Reich”..
Pascal Guignard, Le tavolette di bosso di Apronenia Avitia, Analogon, pp. 160 € 16

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