Un’opera discussa perché tarda: da
tredici anni Rossini si era “ritirato” e non produceva più nulla, nulla da
eseguire in pubblico. Lo stesso “Stabat” era stato concepito ne 1831 come dono
a un prelato spagnolo, Manuel Fernandez Varela, musicista e maestro di
cappella, in occasione di un viaggio nella penisola che Rossini fece al seguito
del banchiere Aguedo, suo amico e agente di Borsa. Con l’esplicita condizione che l’opera non venisse
mai eseguita in pubblico, come forma di spettacolo. Dieci anni dopo l’editore parigino
Aulagnier pretese di averne i diritti e allora ne nacque una controversia
giudiziaria. Rossini, sollecitato dal
suo editore, Troupenas, riprese la breve composizione del 1831, la rimpolpò e
il 7 gennaio 1842 fu in grado di presentarla al pubblico di Parigi, al Théätre
Italien – poi a Bologna, il 18 marzo, e a Roma il 24 agosto.
Parigi non l’accolse bene. Per essere un’opera
profana, e comunque fuori dai canoni della musica sacra. Mentre la critica romantica,
ormai monopolista, rimproverò a Rossini il ritorno a formule “classiche”, nelle
arie, nei cori, nella strumentazione..
Un’opera in effetti su generis nel genere
sacro. Ma per quattro motivi su cui Rossini poteva avere ragione e torto
insieme. Uno è il concetto di sacro, oggi molto ampio, allargato a ogni
manifestazione umana, anche distruttiva, ma allora ristretto alla sacrestia.
Analogamente per il concetto di musica
sacra. Questa obiezione oggi non avrebbe senso, avendo la chiesa abbandonato,
con il latino, ogni forma musicale, anche degli inni liturgici e dei canti di
accompagnamento. Mentre allora non si concepiva che come un severo polifonismo.
Oppure come canto “vestito”, modesto, qual è dell’innario luterano. Questa fu la
critica maggiore, che infatti venne dalla Germania. Mentre invece Rossini
lavorò sulla traccia dello “stile misto” in vigore da un secolo e oltre, con
Alessandro Scarlatti, che al contrappuntismo del canone palestriniano
affiancava arie libere e altre pagine profane. Nel sottinteso che la melodia
era comunque sacra.
Su questo punto si concentrò la difesa di
Heine, nella nota “Rossini e Mendeslssohn” che fu di recensione alla serata del
7 gennaio 1842: “Sono precisamente gli attacchi che vengono dal cuore della
Germania contro il gran Maestro che mettono in evidenza l’originale profondità
del suo genio”. La sua fede non è acquisita o studiata, come quella di
Mendelssohn, che l’ha ricalcata, ma vissuta: solo gli è bastato “richiamare al sentiment
i suoni della prima fanciullezza”. Una recensione che apre uno squarcio su cosa
va inteso per fede, anche religiosa.
Il quarto punto è la morte: un’opera a celebrazione
della morte? Anche perché aperta dai tremendi versetti di Jacolpone, “Stabat
mater dolorosa, \ juxta crucem lacrymosa, \dum pendebar Filius”. La funzione
religiosa della morte in realtà celebra la vita: il nome, le opere, la memoria.
Un susseguirsi di gioie e di dolori.
Rssini avrà avuto i suoi motivi, è
probabile. Stanco o non voglioso, di inzeppare i movimenti gravi, di apertura e
conclusivo, dello “Stabat Mater” regalato a Varela con qualche aria che non
aveva utilizzato in precedenza, nella sua vita attiva: il numero 4, “Quis est
homo?”, o il 6, un Quartetto, e il 7. Ma la musica è canto, come la chiesa sa –
sapeva. E la morte è una celebrazione, di vita vissuta, di meriti e di resurrezione.
Anche sotto la croce.
Gioacchino Rossini, Stabat
Mater, Ivor Bolton, Orchestra e coro dell’Accademia di Santa Cecilia, Parco
della musica, Roma
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